sabato 27 marzo 2004

matematica, inconscio, arte
Franco Voltaggio intervista Piergiorgio Odifreddi

il manifesto 27.3.04
INTERVISTA
Tra Euclide e Mozart il calcolo imprevisto dell'invisibile
Le tre invidie del matematico, un'intervista a Piergiorgio Odifreddi

L'arte della fuga in quattro note di Johann Sebastian Bach, la costruzione di puri oggetti poetici di Jorge Luis Borges, il riduzionismo cubista di Georges Braque. Ovvero le relazioni segrete, e spesso inconsce, tra matematica, musica, letteratura e pittura. Bacchetta, penna, pennello e grandezze aritmetiche e algebriche analizzati nei loro intrecci come linguaggi che indagano il «gran libro della natura» e la misteriosa «geometria delle passioni», tra libertà e ricerca della misura e della forma delle cose
di FRANCO VOLTAGGIO


Nel più autobiografico dei suoi romanzi brevi, Tonio Kröger, Thomas Mann definisce il difficile esercizio della letteratura come una pratica che, in qualche modo, estrania il letterato dal vissuto comune, talora anche banale, ma certamente intenso, di tanti uomini e donne e, in particolare, dall'amore. Di qui uno struggente senso di invidia dello scrittore di professione per chi «può abbandonarsi ai sentimenti», ma anche nel contempo la consapevolezza che queste stesse creature, una volta divenute eroine di un testo letterario, saranno pretesto per ricostruire il senso e la misura della realtà e della vita, impresa sicuramente ardua, ma non priva, per chi la tenti e ne faccia mestiere, di qualche gratificazione. Ecco perché Mann-Kröger può accomiatarsi dal lettore, confessando di essere preso da «un tantino di invidia e da una grande, casta felicità». Resta il fatto, comunque, che un romanzo può esser letto, così come un brano musicale ascoltato, un dipinto osservato a lungo e con piacere, talché anche il più candido fruitore dell'opera d'arte avverte, sia pure confusamente, di trovarsi di fronte all'armonia dell'esistenza, sua e addirittura cosmica, tributando, per ciò stesso, all'artista una sorta di riconoscente ammirazione. Diverso, indubbiamente, il caso del matematico, il cui tema è pur sempre la misura e la forma delle cose, misura e forma che, tuttavia, non possono essere comunicate altro che in un linguaggio, quello matematico che, nelle sue modalità più complesse, resta estraneo ai più. Il pubblico di media cultura riconosce la grandezza di un Euclide, ma chi mai si accosterebbe agli Elementi con la stessa certezza di trarne diletto come quando si appresta a leggere Guerra e pace o ad ascoltare un brano del Flauto magico di Mozart? Nasce da questa circostanza «l'invidia» del matematico che, tanto più profonda di quella dei professionisti dell'arte cui è esplicitamente rivolta, è tuttavia associata a «una grande, casta felicità» forse persino più viva, perché la consuetudine con le grandezze geometriche, aritmetiche, algebriche lo pone, quasi ogni momento, nella condizione di un privilegiato «percettore del mondo», sempre che continui ad esser vero per tutti quanto diceva Galilei, l'essere cioè «il gran libro della natura» scritto in linguaggio matematico.

E' questo il caso, ci pare, del matematico Piergiorgio Odifreddi, docente di logica matematica delle università di Torino e di Cornell (Usa) che dal 29 al 31 marzo, nell'Aula Magna dell'università di Bologna - con Umberto Eco quale discussant - terrà, per conto della Fondazione Sigma Tau di Roma, tre «Lezioni Italiane» destinate, per l'appunto, a dar voce alla «invidia del matematico», da lui espressa in tre «invidie»: «della bacchetta» (matematica e musica), «della penna» (matematica e letteratura), «del pennello» (matematica e pittura).

Dalla lettura di alcuni dei libri di Odifreddi, Il computer di Dio (Cortina, 2000), La repubblica dei numeri (Cortina, 2002), Il divertimento geometrico (Bollati Boringhieri, 2003), Il diavolo in cattedra: la logica da Aristotele a Godel (Einaudi, 2003), si evince che l'autore prova una gioia profonda nell'esercitare la sua professione, ha un'eccellente capacità di divulgare con eleganza la sua scienza, senza indulgere in faciloneria, convinto com'è che il suo lettore non ha soltanto il diritto, ma anche il dovere di familiarizzarsi con la matematica, dal momento che tutto, dal modo con il quale sono ordinati i suoi geni alle parti in cui si distribuisce il suo corpo, all'insieme dei corpi celesti, a quella che qualcuno definisce la misteriosa «geometria delle passioni», è struttura, cioè matematica. Da questo punto di vista, non è azzardato affermare che Odifreddi si comporta con la stessa affettuosa aggressività dei philosophes dell'illuminismo i quali vedevano in una ragione, eminentemente ispirata all'indole matematica delle scienze della natura, la chiave per dar vita alla loro rivoluzione. La rivoluzione francese, del resto, non fu in definitiva, il tentativo di prestare alla politica il senso matematico della misura, un ordine che non nascesse dal dispotismo del privilegio, ma dall'ordine della libertà e dell'eguaglianza? Quel che di Odifreddi abbiamo letto basta, da un lato, per apprezzare di questo studioso un'autentica passione civile (tanto forte da riscattare qualche momento di ingenuità), dall'altro, per cercare di saperne di più delle «tre invidie del matematico». Di qui un'intervista, di cui riproduciamo i momenti essenziali.

Professore, qual è, a suo parere, la relazione della matematica con la musica?
Le rispondo, con Leibniz, «che la musica è l'esercizio matematico nascosto di una mente che calcola inconsciamente». Sul filo di Leibniz, un allievo di Bach, Lorenz Christoph Mitzler, affermava che «la musica è il suono della matematica».

Mi incuriosisce in particolare il tema del «calcolo inconscio», argomento suscettibile di dar vita a un'esplorazione a tutto campo sul rapporto tra musica e inconscio, il cui linguaggio, secondo Lacan, è matematico, fondandosi sul «no» e il «si», dunque sullo 0 e sull'1 dell'aritmetica del basic, cioè l'aritmetica binaria. Ma ora le chiedo è possibile far musica in concreto a partire da un'ispirazione matematica?
Penso proprio di sì. Ecco un caso classico. La mattina del 28 luglio 1750 Johann Sebastian Bach si svegliò e vide la luce. Non la vedeva da tempo, perché due operazioni agli occhi effettuate qualche mese prima l'avevano lasciato completamente cieco. La sera morì, lasciando incompiuta una grande fuga su un tema di quattro note: «si bemolle, la, do, si» in notazione italiana, o «B, A, C, H» in notazione tedesca. Sostituendo le lettere dell'alfabeto con i numeri corrispondenti (1 per la A, 2 per la B, eccetera) «Bach» diventa «2138» e sommando le cifre si ottiene 14. La grande fuga lasciata incompiuta è appunto la quattordicesima dell'Arte della fuga, e il numero 14 ricorre spesso nell'opera di Bach. Per esempio, nella Fantasia corale sul tema «Sto di fronte al tuo trono», il tema è di 14 note, l'intera melodia di 41. L'ultimo numero è ovviamente l'inverso di 14, ma corrisponde anche a «J. S. Bach». Ma c'è qualcosa di più. Studiando gli ultimi lavori del grande musicista, ci troviamo di fronte a una musica smaterializzata, costruita in base ad astratti principi di simmetria aritmetica e geometrica. Come già dice la parola, che significa «regola» o «legge», la forma musicale che più si presta a questo tipo di simmetria è il canone: una serie di voci che si rincorrono, ripetendo la prima in forma traslata, riflessa o proporzionale. Le varie voci, benché tutte simili, possono cioè essere sincronizzate o sfalsate: più alte o più basse, parallele o speculari, più veloci o più lente. Un primo approccio a questo tipo di musica ci è offerto dalla prima grande serie di canoni bachiani, vale a dire le famose Variazioni Goldberg composte nel 1741.

Come dire che, se il calcolo guida alla musica e nasce altresì da motivazioni inconsce, che non si vedono e non hanno voce, allora avrebbe avuto ragione Mann nel sostenere, nel Doctor Faustus, che il fondamento della musica è il silenzio.
Non si sbaglia. Mi viene in mente, a questo proposito, una possibile analogia con la natura e le sue leggi che, se le paragoniamo al programma di un computer, paiono offrirci un software talmente sconfinato da essere di fatto - altro che per le informazioni («verità locali») raccolte, di volta in volta, dagli scienziati dei diversi campi- nel suo insieme invisibile e indicibile.

La relazione tra matematica e letteratura consisterebbe per lei, stando a quanto scrive, nel fatto che il vero scrittore non è tanto interessato alle cose, esseri umani, eventi, ecc. di cui racconta, quanto alla struttura della narrazione in sé. Sotto questo aspetto, lo scrittore, mettendo a punto le forme della sua narrazione, è come l'aritmetico che prima crea i numeri - potente struttura matematica - e solo dopo vi ingabbia gli oggetti reali che, numerati, acquistano un ordine che in precedenza non avevano. In modo inconsapevole certo, il lessico ordinario sarebbe nel giusto quando fa del verbo contare il sinonimo di narrare. Ma che cosa è in concreto la struttura nel lavoro letterario? Vorrebbe chiarirlo?
La servo subito. Devo però rifarmi soprattutto al passato. Un tempo, il romanzo produsse opere memorabili, che assumevano narratore e lettore come protagonisti, e forma e struttura come contenuto. Opere che erigevano la divagazione a discorso, l'interruzione ad azione, il superfluo a necessario, il caos a regola, la molteplicità a unità. Opere quali La vita e le opinioni di Tristram Shandy di Sterne, che non temevano di presentare pagine nere e pagine bianche, capitoli di due righe e capitoli sui capitoli, spazi vuoti da riempire e storie interrotte da continuare a piacere. Opere quali Jacques il fatalista di Diderot, che srotolavano il Grande Rotolo della scrittura fingendo di tessere trame con fili inesistenti. Dopo queste prove strepitose il romanzo ha smarrito la diritta via, impantanandosi in una selva dai colori rosa, giallo e nero.
I romanzi scritti, pubblicati, recensiti e letti non sono altro che variazioni sui temi dell'antica tradizione omerica (e pensare che il fascino dei poemi di Omero sta proprio nelle loro divagazioni!) del reportage di guerra, di viaggio o d'altro. Quasi tutti insistono nel raccontare storie: incuranti del fatto che, come fece notare Nabokov, quando si matura ci si interessa più a come sono fatti i libri, che non a ciò che essi dicono. Per fortuna il XX secolo presenta alcune eccezioni, la più nota e illustre delle quali è rappresentata da Borges che mirava soprattutto alla costruzione, come il suo letterato esemplare, il Jules Menard delle Ficciones, di «puri oggetti poetici» - un analogo di quegli oggetti ideali che sono le grandezze matematiche - associando a questa impresa il recupero della piena libertà del narratore e del lettore.
Facendo il bilancio complessivo di un corso di letteratura inglese tenuto nell'università di Buenos Aires, Borges identificava la libertà del lettore con quella di amare gli autori, praticando i quali avesse evitato di pascolare nella noia: «non ho insegnato agli studenti la letteratura inglese che ignoro, ma l'amore per certi autori. O meglio, per certe pagine. O meglio, per certe frasi. Ci si innamora di una frase, poi di una pagina, poi di un autore».

Questo circolo virtuoso, che congiunge matematica, libertà e arte narrativa, compare anche in pittura?
Senz'altro. Mi limito a un solo esempio incentrato sul riduzionismo cubista di Georges Braque e di Pablo Picasso esploso nel primo decennio del secolo scorso. La più significativa tela del Picasso cubista è il Ritratto di Ambroise Vollard del 1910. Nel quadro la figura appare come in uno specchio spezzato: ogni scheggia riflette una sezione del volto o del busto secondo un piano diverso, e la tridimensionalità è completamente delegata a una ricomposizione mentale delle varie vedute bidimensionali, in accordo col motto del grande pittore: «Io dipingo ciò che penso, non ciò che vedo». Un'operazione matematica dunque che in qualche modo riflette una delle grandi speculazioni dei matematici di quel tempo, la messa in questione delle dimensioni dello spazio, ma anche una rivendicazione della piena libertà nell'arte pittorica.

Sin qui Odifreddi. Alla fine l'intervistatore finisce con l'avvertire, nell'esaltazione della matematica, il vertiginoso elogio della libertà e forse ancora un'altra cosa. Dall'invidia per l'arte, lo studioso è pervenuto a un senso di amore e gratitudine per la sua condizione di matematico. In una parola, si è accettato. Ma non diceva forse Sartre, nell'Età della ragione, che la libertà è accettarsi?