mercoledì 8 dicembre 2004

effetto placebo

La Stampa Tutto Scienze 8.12.04
Effetto placebo
Provami, ti piacerò
di Antonio Tripodina


PER "effetto placebo" si intende un beneficio, percepito o anche reale, determinato dal sapere di ricevere una cura, piuttosto che dalla cura stessa. Sostanze prive di qualsiasi attività farmacologia possono infatti giovare al paziente se autorevolmente presentate come efficaci.
L'effetto benefico può iniziare addirittura prima dell'assunzione del preparato, dal momento in cui l'incontro con il "curante", inteso in senso lato, dispone emotivamente il paziente ad attendere i vantaggi della cura che sta per ricevere. Da qui l'importanza che il rapporto medico-paziente non sia frettoloso e impersonale.
Il termine "placebo" deriva dal verbo latino "placere", piacerò, intendendo con questo un rimedio dato più per compiacere il paziente, che per fornirgli un vero beneficio. E non è esagerato dire che gran parte delle medicine prescritti fino a non molti decenni fa dai medici dovevano la loro efficacia più all'effetto placebo, che alla loro effettiva attività farmacologia.
L'esistenza dell'effetto placebo è riconosciuta dalla medicina ufficiale, tanto è vero che tutte le sperimentazioni cliniche dei nuovi farmaci vengono condotte contro un placebo, in una condizione definita di "doppio cieco", nel senso né i medici né i pazienti sanno se stanno somministrando o ricevendo una sostanza attiva o inerte; e soltanto se i risultati del confronto risultano significativamente migliori di quelli dati dal placebo il farmaco è considerato efficace. Infatti, sembrerà strano, anche il "gruppo placebo" può ottenere dei benefici, a volte fino al 30-40 per cento dei soggetti. Questo fenomeno spiega forse l'apparente efficacia di molte terapie alternative (omeopatia, agopuntura, pranoterapia, medicina ayurvedica) e del credito che riescono ad ottenere medici-stregoni e i santoni.
Punto d'incontro tra scienza e irrazionale, da sempre l'effetto placebo ha fatto discutere: è solo suggestione psicologica indotta dal desiderio di guarigione, oppure è il risultato di una cascata di eventi biologici che partendo dalla psiche è in grado di incidere sul soma? In questo caso, quali meccanismi entrano in azione?
Pian piano il mistero va diradandosi. Alcuni anni fa è nata una nuova disciplina, la psico-neuro-endocrino-immunologia (termine sinetizzato nella sigla PNEI), che spiega come durante l'attività psichica, conscia e inconscia, la corteccia cerebrale produca stimoli elettrici che, traducendosi in messaggi biochimici, agiscono sul sistema endocrino e sul sistema immunitario (apparato fondamentale per la difesa dell'organismo), dando ragione di come situazioni psicologiche particolari possano incidere sulle difese organiche.
Numerosi studi sull'effetto di sostanze inerti sul dolore hanno fatto ipotizzare che l'analgesia effettivamente prodotta da queste sostanze passi attraverso il coinvolgimento del sistema endogeno degli oppioidi, cioè attraverso la produzione di endorfine, le "droghe interne", sostanze che l'organismo spontaneamente produce per lenire il dolore. Di recente ricercatori californiani hanno dimostrato in pazienti con malattia di Parkinson che la somministrazione di un placebo produce a livello del nucleo striato, la regione cerebrale coinvolta nell'esecuzione del movimento, un aumento della concentrazione di dopamina, proprio il neurotrasmettitore in essi carente. Queste ricerche dimostrano in modo plausibile che la mente è in grado di agire sul corpo attraverso delle modificazioni biologiche.
Nessuno, tuttavia, era riuscito finora a mettere in evidenza tali modificazioni, addirittura a registrarle. Ciò è riuscito ad un gruppo di ricercatori del Dipartimento di Neuroscienze dell'Università di Torino (I Divisione Universitaria di Neurologia, Bruno Bergamasco e Leonardo Lopiano; Sezione di Neurofisiologia, Fabrizio Benedetti) e della Divisione di Neurochirurgia dell'Ospedale C.T.O. di Torino (Michele Lanotte e Antonio Melcarne) che per la prima volta nell'uomo ha registrato con microelettrodi le modificazioni elettriche che avvengono a livello di cellule nervose coinvolte nella fisiopatologia dei sintomi parkinsoniani indotte dall'aspettativa di un miglioramento del quadro clinico in seguito alla somministrazione di una sostanza inerte (semplice soluzione fisiologica) accompagnata da una suggestione verbale.
Questa ricerca è stata pubblicata nel giugno del 2004 sulla rivista «Nature Neuroscience» (volume 7, numero 6), meritando la copertina per il suo valore innovativo e per le ripercussioni cliniche che si prevede possa avere.
In 23 pazienti affetti da malattia di Parkinson durante la procedura chirurgica di stimolazione bilaterale del nucleo subtalamico (struttura che svolge un ruolo determinante nella fisiopatologia dei sintomi parkinsoniani), svegli e collaboranti, è stata registrata con microelettrodi l'attività elettrica di ogni singolo neurone. A 11 di questi pazienti, prima della stimolazione del nucleo subtalamico del secondo lato, è stata somministrata una iniezione sottocutanea di soluzione fisiologica accompagnata dalla suggestione verbale di un sicuro miglioramento. Subito dopo veniva richiesto al paziente un suo giudizio sull'eventuale miglioramento e ad un neurologo ignaro dell'esperimento (doppio cieco) una valutazione sulla rigidità del polso prima e dopo l'iniezione.
Attraverso l'analisi delle micro-registrazioni dell'attività elettrica dei neuroni dei nuclei subtalamici sono stati individuati 6 soggetti nel "gruppo placebo" che hanno presentato una differenza altamente significativa della frequenza di scariche elettriche dei neuroni rispetto ai 5 pazienti "non responders" e al gruppo di controllo, con una netta correlazione tra le modificazioni elettriche registrate, il giudizio soggettivo di miglioramento del paziente e la valutazione clinica della diminuita rigidità dell'articolazione del polso da parte del neurologo.
Questo esperimento dimostra per la prima volta in modo oggettivo che l'aspettativa di un miglioramento clinico è in grado di produrre un'attivazione delle cellule nervose, "primum movens" della successiva cascata di eventi neuro-endocrini-immunologici che produrrà l'effetto placebo.

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Può far bene anche un intervento chirurgico simulato

UNA decina di anni fa Frank Lanza, gastroenterologo di Houston, mise alla prova due farmaci contro l’ulcera. Il primo guarì il 66 per cento dei pazienti, il secondo l’88 per cento. Ma la cosa interessante è che guarirono anche 19 pazienti sui 44 di un terzo gruppo che aveva ricevuto soltanto una sostanza inerte. Un placebo. Il test, come di solito avviene in questo tipo di ricerche, era fatto «in doppio cieco»: né i pazienti né i medici che somministravano il farmaco (o il placebo) sapevano chi ricevesse che cosa. In media, il 25-30 per cento del gruppo che riceve il placebo ne trae giovamento. Miracolo dell’acqua fresca?
Daniel E. Moerman, etnofarmacologo e professore di antropologia all’Università del Michigan-Dearborn (Usa), risponde a questa domanda nel suo libro «Placebo. Medicina, biologia, significato» (Vita & Pensiero, 260 pagine, 16 euro). Ed è una risposta più complessa di quanto si possa immaginare. In molti casi la guarigione interviene spontaneamente: la maggior parte delle malattie più comuni (raffreddore, cefalea, disturbi intestinali) regredisce da sé. Anche nel caso di cure con farmaci efficaci, in un paziente su tre non è tanto il contenuto della cura ad agire quanto il fatto di sentirsi curati. Succede persino in chirurgia. A Kansas City, tra due gruppi di malati di angina pectoris, Grey Dimond ottenne un miglioramento nel 67% degli operati e addirittura nell’82% dei pazienti sui quali l’intervento era stato solo simulato. Analoghi risultati ha dato uno studio svedese su cardiopatici che avevano ricevuto un pacemaker a confronto con altri che credevano di averlo ricevuto. Sulla base di questi dati, Moerman va oltre il concetto tradizionale di placebo e parla di «risposta al significato»: i placebo sono inerti e quindi per definizione non fanno niente «ma possono essere significativi» e «i significati possono attivare processi biologici». È la parola, l’atteggiamento del medico a curare. In fondo, psicologi e psicoanalisti lo sapevano già.