Al macello dei gladiatori
di Giuseppe Cassieri
Lo storico americano Fik Meier immagina di rivivere «Un giorno al Colosseo» e racconta i combattimenti mattutini tra animali, che predisponevano la folla ai duelli pomeridiani di schiavi e liberti e alle sfide dei volontari di «buona famiglia» o di giovinastri perseguiti dalla giustizia, nonché di imperatori bramosi di mostrare i muscoli, come Caligola e CommodoFIK Meijer, ordinario di storia antica all’università di Amsterdam, autore di Un giorno al Colosseo, appartiene alla benemerita famiglia di accademici portati a «narrare» con levità, spesso con molte delizie, ciò che osservano, senza alterare le discipline d’origine.
In un recente viaggio a Roma, il professor Meijer si accoda a un gruppo di turisti diretti al Colosseo, siede sulle alte gradinate dell’anfiteatro quando la luce di aprile cede lentamente a un crepuscolo rossastro, e si chiede: «Cosa avrei fatto se mi fossi trovato qui per ore, in mezzo a cinquantamila Romani esultanti, mentre nell’arena i gladiatori si esibivano in un sanguinoso gioco con la morte? Mi sarei goduto lo spettacolo, mi sarei lasciato trascinare dall’euforia collettiva, oppure il disprezzo per quelle crudeltà avrebbe smorzato qualsiasi entusiasmo?». Da questo coscienzioso interrogativo scatta il bisogno di aggiungere un personale contributo alle minute analisi che gli storici, specie nel Novecento, hanno dedicato alla «macelleria» circense nelle sue macabre modalità: combattimenti mattutini tra animali (possibile combinazione, orso e toro legati con una catena e una corda), lotta di uomini e animali con i venatores che si dilettavano in battute di caccia a struzzi e antilopi, gazzelle, cervi e asini; quindi la caccia ai «signori delle foreste» e relativi massacri che predisponevano la platea ai fasti maggiori della giornata.
Dopo l’intervallo del mezzodì, una pausa-pranzo che i tifosi più accesi solevano disertare (l’imperatore Claudio era uno di essi), avevano luogo le esecuzioni dei condannati. Una cerimonia piuttosto veloce ma ricca di varianti. Almeno quattro: ucciderli con la spada, crocifiggerli, bruciarli vivi, darli in pasto alle fiere.
Esauriti i numeri dell’avanspettacolo, i vertici delle istituzioni e il popolo minuto erano pronti a gustare il piatto forte del programma, ossia i duelli pomeridiani dei gladiatori.
A questo punto l’indagine di Meijer si acuisce, diventa capillare all’interno del cerchio tematico e ci aiuta a penetrare nella condizione esistenziale dei protagonisti. Ora schiavi ora liberti, ora corpi giganteschi da sacrificare a indispettite divinità, ora simboli intercambiabili della romana fortitudo. Giustapposta alla sfida coatta è la richiesta dei volontari di «buona famiglia» o di giovinastri perseguiti dalla giustizia, nonché imperatori bramosi di mostrare i muscoli, di eccitare la folla, di esibirsi. Ad esempio Caligola, Tito, Adriano e soprattutto Commodo che si compiaceva dell’appellativo Ercole e, a gloria di Ercole, munito di clava e pelle di leone, lo vediamo nel busto esposto ai Musei Capitolini. Anche Settimio Severo avrebbe voluto battersi in un luminoso pomeriggio primaverile, ma fu costretto a desistere perché, meschino, «aveva i piedi deboli». In ogni caso, gli spettacoli gladiatorii - da Cesare a Nerone a Vespasiano e oltre - rappresentavano una formidabile cassa di risonanza, un’esaltazione della propria immagine, un’accentuazione del potere. Non meraviglia perciò che Augusto, nelle Res gestae, decanti i diecimila uomini impegnati a giostrare e a eliminarsi in suo nome e in nome dei figli e dei nipoti. Né meraviglia la costante assistenza medica di cui fruivano i campioni in sede di addestramento. Lo stesso Galeno, prima di approdare alla corte di Marco Aurelio, aveva operato in una scuola, diciamo di avviamento professionale, a Pergamo.
Coccolati e sferzati, sedotti e abbandonati, quali rapporti avevano con le gladiatrici (giacché anche le donne occupavano un discreto spazio) e con le generiche ammiratrici?
Alle avventure erotiche Fik Meijer riserva pagine argute, confortate dai lazzi di Giovenale e dalle scritte vulcaniche emerse a Pompei. Signore di ogni ceto spasimavano per quei fustoni scolpiti dai duri allenamenti: un modello di virilità sigillata dal priapeo gladius che nel linguaggio popolare stava per fallo. Non soltanto le facili Messaline incalzavano gli atleti, ma castigate mogli di senatori, come Eppia innamorata di un tal Sergio, o come Faustina, figlia di Antonino Pio.
La carrellata dei giudizi etici e filosofici coevi è lodevolmente parca: tiepide o ambigue le reazioni di Cicerone e Seneca, secco il pollice verso di Tacito, prevedibile l’accorato diniego di Tertulliano.
All’inizio e alla fine del saggio ricorre il nome di Alipio, un allievo nordafricano di Agostino, sospinto al circo da amici e condiscepoli spregiudicati. Dapprima il ragazzo s’indigna, denuncia orrore e ribrezzo per quel teatro mostruoso; poi di colpo subentra la metamorfosi demoniaca. Alipio s’immerge nel fascino perverso dello spettacolo e si trasforma in un frenetico adoratore della lotta cruenta, «trovando gusto nell’efferatezza della gara e inebriandosi sempre più della vista del sangue».
Le Confessioni ci dicono che il giovane si ravvederà grazie alla fede che poneva in Dio. Ma il segnale è ormai lanciato e cavalca tragicamente i secoli: attenti a non enfatizzare le conquiste della civiltà. Ancora troppo lenta e tortuosa appare l’evoluzione umana, per correggere il mondo interiore e stroncare la violenza alle radici.