mercoledì 8 dicembre 2004

un convegno dell'Istituto Gramsci
Villari e Liberazione a proposito di Palmiro Togliatti

Repubblica 8.12.04
PALMIRO TOGLIATTI
Quell'idea incompiuta di democrazia
un convegno del Gramsci
Collaborò intensamente alla stesura della Costituzione
Educazione sentimentale all'ombra dell'Urss
Elogio di Mazzini alla Normale di Pisa
Da domani a Roma tre giornate dedicate al leader comunista a quarant'anni dalla morte. L'idea è completarne il ritratto grazie alle nuove carte disponibili dopo il 1989
di LUCIO VILLARI

Come pensatore e come organizzatore politico Togliatti diede il meglio di sé nei venti anni, dal 1944 al 1964, nei quali fu tra i protagonisti della costruzione della democrazia in Italia. O, meglio, di una contraddittoria costruzione sulla quale sono ricadute anche le scelte da lui compiute nell'altro ventennio, quello conclusosi nel '44, quando le sua educazione ideologica e culturale (ma si potrebbe anche dire, sentimentale) si completò all'ombra dell'Unione Sovietica e dello stalinismo nella sua fase suprema: la fase degli «elementi di tirannide» e degli «atti delittuosi e moralmente ripugnanti» come egli fu costretto ad ammettere nell'intervista a Nuovi Argomenti del 1956. «Elementi» e «atti» che non hanno però impedito al Togliatti costruttore di identificare questo modello italiano di democrazia come una fase di transizione verso un più alto sistema politico, quello socialista scaturito dalla rivoluzione leninista del 1917: l'orizzonte storico avanzato e insormontabile della civiltà del Novecento.
Da questa contaminazione storica e teoretica tra una democrazia di tipo occidentale (da elaborare e sperimentare anche alla luce degli antichi ideali egualitari e riformatori del socialismo) e una democrazia da ritenere compiuta soltanto nel momento in cui la classe operaia e il partito comunista, svolgendo fino in fondo la loro «funzione nazionale», prendono il potere, è nata la maggiore difficoltà, per Togliatti, di dare un senso o una reale e pragmatica consistenza all'idea della democrazia da fondare in Italia.
Vedo questa difficoltà non soltanto nel programmatico rifiuto della teoria e della pratica della socialdemocrazia europea (dai dibattiti della Seconda Internazionale fino alle esperienze riformatrici della socialdemocrazia scandinava degli anni Trenta), ma anche nella insufficiente percezione culturale delle straordinarie potenzialità di un pensiero democratico, come allora si diceva, «borghese».
Questa duplice interdizione costrinse Togliatti, il Togliatti dell'ultimo ventennio, a pensare, scrivere, regolare l'azione del partito da lui guidata intorno a un concetto di democrazia che a tratti appariva chiaro e dai contorni definiti, ma più spesso dileguava e sfumava in dichiarazioni di principio e in aggettivazioni la cui legittimazione era solo nel ricorso al linguaggio del razionale «ragionamento» marxistico. Raramente Togliatti usava la parola democrazia senza aggiungervi termini definitori («avanzata», «progressiva», «di tipo nuovo») che, invece di ancorarlo alla realtà sociale e storica dell'Italia, la rendevano appunto indefinita, spostata in avanti, o, meglio, «calata nel profondo» (era questa una sua espressione ricorrente) di un presente slittante però verso un futuro non ben precisato. Intendiamoci, grande è stato il contributo personale di Togliatti (con l'aiuto, non dimentichiamolo, dei Quaderni del carcere di Gramsci) per fare di un partito dove gran parte dei dirigenti aveva, al momento della caduta del fascismo, scarsa dimestichezza con una idea concreta di democrazia, una forza nazionale ancorata anche alle tradizioni storiche dell'Italia risorgimentale. Ma il disegno politico di un socialismo la cui intuizione formale e sostanziale era il comunismo sovietico (con le varianti mondiali: movimenti di liberazione, la Cina, il Terzo mondo, le «democrazie popolari» - anche qui una aggettivazione - dell'Europa dell'Est, e così via) finiva col sovrapporsi ad una ricerca teorica che da molti segni, scritture e testimonianze appare un vero e proprio rovello intellettuale di Togliatti, con scarsa possibilità di soluzione o di superamento.
Togliatti sapeva, fin dall'arrivo in Italia nel 1944, che l'Italia del post-fascismo doveva essere riformata, cioè rinnovarsi attraverso decise riforme istituzionali e sociali. Infatti, la Costituzione repubblicana, alla cui stesura Togliatti collaborò intensamente (al contrario del suo antagonista De Gasperi che, a suo dire, «si astenne deliberatamente e ostentatamente da qualsiasi partecipazione ai lavori dell'Assemblea costituente per la formazione della nuova Costituzione») porta numerosi segni della presenza togliattiana, compreso l´articolo 7 al cui voto, invece, De Gasperi prese parte. Ma, a ben guardare, nel testo della Costituzione la parola «democrazia» non esiste. C'è l'aggettivo «democratica» nell'art. 1 e poi le espressioni «metodo democratico», a proposito dei partiti, e «spirito democratico» a proposito delle forze armate.
Eppure, se si ripensano quegli anni, fu proprio la parola democrazia, alla pari della parola libertà, a vincere ideologicamente la seconda guerra mondiale. Anzi, a vincerla culturalmente e politicamente perché erano state le riforme sociali dell'America di Roosevelt e del New Deal a mostrare quali fossero le differenze tra una democrazia e i regimi dittatoriali della Germania e dell'Italia; quella democrazia americana, il cui spirito rooseveltiano aleggiava sui nostri costituenti (ma per Togliatti e il suo partito pareva essere una pallida e insidiosa meteora), così come aleggiava lo spirito del keynesismo riformatore anche se non si posò mai né sui liberali conservatori né sui democratici «progressisti» dello schieramento politico italiano di quel tempo; con qualche inascoltata eccezione.
Togliatti, agli esempi come questi, più ravvicinati e, forse, decisivi come modelli di riferimento nell'azione politica da condurre ai livelli più diversi dell´organizzazione economica capitalistica pubblica e privata, e ai sistemi sociali da cambiare, preferì riaprire pagine più antiche della nostra storia delle idee politiche. Erano le pagine scritte da Mazzini e da Antonio Labriola (quest'ultimo, alla fine, un marxista dall'intelligenza democratica, ma misterioso e indecifrabile, al punto che Togliatti non riuscì a completare uno studio che a lui aveva dedicato sulle pagine della sua rivista Rinascita). C'è comunque un elogio di Mazzini che Togliatti fece nel 1946 agli allievi della Normale di Pisa, le cui parole entusiaste superano perfino quelle che in varie occasioni aveva dedicato a Marx o a Lenin.
La figura di Mazzini «giganteggia perché la sua intuizione riformatrice e le sue idee riformatrici sono inserite in una concezione generale del mondo e della vita dalla quale egli ricava una direttiva per l'azione. Per questo egli è grande e lo riconoscono grande tutti gli italiani, anche noi che non siamo d'accordo con la sua posizione ideologica di partenza. Lo riconoscono grande tutti gli italiani, i quali sanno come, con la sua azione, con il suo sforzo di lotta, egli abbia dato un valido contributo alla redenzione del nostro paese». A questo elogio si poteva obiettare che proprio «la posizione ideologica di partenza» di Mazzini era stata la condizione del suo «giganteggiare» come ideale riformatore sociale; ma qui scattava il lapsus anti-riformista e anti-socialdemocratico dell'internazionalista Togliatti, ed evidentemente si svelava la sua difficoltà a percepire le linee, storicamente recuperabili, di una reale democrazia non necessariamente transitabile al socialismo, ma «borghese» nel significato più nobile del termine. E infatti, quando nel 1948 Togliatti volle dedicare un numero speciale di Rinascita al centenario del 1848, il Mazzini riformatore e democratico era sparito dall'orizzonte, la ricostruzione di quell´anno era prevalentemente nell'ottica italiana (e dunque gli albori della democrazia borghese europea erano quasi inesistenti) e il suo articolo di apertura era dedicato ai cento anni del Manifesto di Marx o Engels.
Scelta legittima, ma risposta polemica e politica a Benedetto Croce che sul finire del 1947 aveva paventato l'uso strumentale del 1848 e la possibile commemorazione del Manifesto comunista, per il motivo che «in Italia non penetrò punto e pochissimo, del resto, altrove».
D'altro canto, fino a qualche anno prima della morte, Togliatti restò convinto che «soltanto per il politico ogni storia è veramente e sempre contemporanea», mentre gli storici spesso danno risposte «parziali e inadeguate».

Liberazione 8.12.04
Da domani a Roma un convegno della Fondazione Gramsci. Parla lo storico Aldo Agosti
«Togliatti, il critico della socialdemocrazia»
di Tonino Bucci

Togliatti vive la fase di nascita del movimento comunista internazionale, all'indomani della Rivoluzione d'Ottobre, partecipa alla fucina teorica e politica del Comintern - nel quale ricopre ruoli autorevoli - e nel dopoguerra è l'artefice principale della costruzione del più grande partito comunista di massa dell'Occidente. A questi due momenti della sua biografia politica - la collocazione nel movimento comunista internazionale e il ruolo nella storia italiana - è dedicato il convegno internazionale di studi "Togliatti e il suo tempo", organizzato dalla Fondazione Istituto Gramsci (da domani fino a sabato all'Aula magna dell'Università degli studi Roma Tre, dove sono in mostra anche dei volumi della biblioteca personale del dirigente acquistati dall'ateneo. Interverranno, tra gli altri, Giuseppe Vacca, Angelo d'Orsi, Lucio Villari, Silvio Pons, Gaetano Arfè, Gabriele De Rosa, Giulio Andreotti e Giorgio Napolitano. Ma è, in particolare, nella sessione di lavoro di domani pomeriggio, che sarà affrontato con la relazione dello storico Aldo Agosti il lungo periodo trascorso da Togliatti come dirigente dell'Internazionale comunista. Si tratta, anzitutto, di affrontare due letture prevalenti: nell'una, Togliatti appare un politico dotato di scarsa autonomia nei confronti di Mosca; nell'altra, invece, come dirigente di un partito che fu socialdemocratico senza saperlo, costretto solo per opportunità a collocarsi nel movimento comunista internazionale.

La politica nazionale e la collocazione nel comunismo internazionale: come coesistono questi due momenti in Togliatti?
Penso che sia sbagliato contrapporre o giustapporre questi due momenti della biografia togliattiana che sono tutto sommato inestricabilmente uniti. E' abbastanza ovvio che il suo percorso biografico lo porta per un periodo lungo 18 anni a essere lontano dall'Italia, più legato alla dimensione del movimento comunista internazionale. Nel periodo successivo, invece, con il ritorno in Italia nel '44, c'è un maggiore sviluppo di una linea politica nazionale - pur tra arretramenti e incertezze. Ma io credo che Togliatti sia dall'inizio alla fine un uomo di quella stagione in cui la dimensione internazionale del comunismo è comunque decisiva.

Togliatti è tra i protagonisti della Terza Internazionale, ne attraversa varie fasi. Possiamo sostenere che i suoi contributi più originali al dibattito interno del Comintern riguardino l'analisi del fascismo?
Sono d'accordo. Il problema è quanto sia stata recepita questa forte originalità e profondità dell'analisi togliattiana del fascismo. Non c'è dubbio che la sua analisi sia più avanzata - fatta eccezione per alcune intuizioni acute nella prima fase del Comintern, più libero da una disciplina rigida, per esempio Clara Zetkin, Radek, lucidi interpreti dei fascismi italiano e tedesco. Ma sarà Togliatti, dopo, a recare il maggiore contributo. Ha il merito d'aver sottolineato che il fascismo italiano ha comunque una specificità legata alla situazione nazionale e non può essere usato come passepartout, come categoria interpretativa sotto la quale ricondurre tutte le altre forme di fascismo. Fin dall'inizio - e almeno fino a una certa fase - fa dei tentativi molto sottili per distinguere opportunatamente le caratteristiche del fascismo italiano da quello tedesco prima e da quello spagnolo poi. Tuttavia, non saprei dire quanto di queste analisi sia diventato parte integrante dell'arsenale interpretativo dell'Internazionale nel suo complesso. Certo, qualcosa è passata, ma in forma più semplificata. Lo stesso Togliatti, almeno in una fase della sua esperienza politica, si è anche uniformato a queste interpretazioni più riduttive del fascismo.

Quando nel '26 Togliatti si trasferisce a Mosca come rappresentante del partito nell'Esecutivo dell'Internazionale trova in Bucharin un interlocutore che apprezza le sue analisi...
Togliatti è stato un dirigente che ha visto crescere il suo prestigio e la sua autorevolezza internazionale all'ombra e sotto la "protezione" di Bucharin. E naturalmente ha risentito poi della disgrazia politica di quest'ultimo. Questo lo ha portato a essere molto prudente in seguito.

Dal '29, sotto la guida di Molotov, prevale nel Comintern la tesi del "socialfascismo", secondo cui fascismo e socialdemocrazia sono entrambi espressioni della reazione capitalistica. Togliatti anticipa quella che nel '34 sarà la svolta dei fronti popolari?
Sono convinto che nonostante tutto Togliatti nel '34 non sia un precursore della svolta dell'Internazionale: è stato troppo scottato in precedenza, si muove con estrema lentezza, si riconverte con una certa gradualità. Questo non ha a che fare con l'analisi del fascismo ma con la tattica. Nel giudizio sulla socialdemocrazia, sui socialisti italiani e sulla galassia dell'antifascismo democratico in Italia, Togliatti si muove con prudenza. Matura una presa di posizione più netta e precisa solo alla fine del '34 dopo essere stato in missione per conto dell'Internazionale in Francia e in Belgio. E comunque mantiene qualche piccola riserva. Tra l'altro, esistono altre due lezioni delle cosiddette Lezioni sul fascismo che non sono mai state pubblicate dato lo stato dei microfilm. L'una è dedicata alla socialdemocrazia italiana, l'altra alla socialdemocrazia internazionale e risalgono al gennaio del '35. Entrambe denotano una posizione molto critica. Insomma, Togliatti seguirà la svolta di Dimitrov di cui ha molta stima, ma non la precede.

Questo non significa che venga meno la convinzione togliattiana di dover ingaggiare con i socialisti una lotta per l'egemonia. O no?
Bisogna distinguere la tesi della socialdemocrazia come nemico principale - che Togliatti abbandona ben prima - dalla consapevolezza di un progetto politico autonomo e diverso da quello dei socialisti. Alla migliore cultura comunista appartiene l'idea della lotta per l'egemonia con la socialdemocrazia, sia sul terreno delle opzioni generali sia su quello delle rivendicazioni pratiche. Anche nella politica del fronte unico c'è quest'intento di misurarsi con i socialisti e dimostrare la superiorità dei partiti comunisti.

Con i fronti popolari si coniano nuove parole d'ordine per rivendicazioni immediate e obiettivi transitori, ad esempio la «democrazia di nuovo tipo». Ma non sarebbe fuorviante desumere da qui un Togliatti socialdemocratico che rinuncia alla prospettiva del socialismo in Occidente?
Mai si trova un giudizio positivo sulla socialdemocrazia. Altro conto è dire che dopo il '44 Togliatti accetta come orizzonte dell'azione politica dei partiti comunisti il sistema democratico-borghese. Lo accetta però come orizzonte dentro il quale organizzare l'organizzazione politica di classe e far accumulare dei cambiamenti quantitativi fino al punto in cui la quantità si muta in qualità.

La lotta per la democrazia progressiva sul terreno nazionale, la lotta per il socialismo nel movimento comunista internazionale. Come si tengono assieme i due momenti?
C'è senz'altro un rapporto coerente e questo è vero fino all'ultimo giorno della vita di Togliatti. Non c'è mai il dubbio che quel sistema socialista di cui pure vede tutte le contraddizioni, non sia in sé intrinsecamente superiore al sistema della democrazia borghese.