martedì 12 aprile 2005

Roberto De Simone e il tempo

Il Messaggero 11 Aprile 2005
Intervista
Roberto De Simone parla del teatro, della musica e della televisione E di quegli “eroi del nulla” che raccontano in diretta la finzione della realtà
«Questi sono i tempi del tempo perduto»
di RITA SALA

«MI considero un artista della vecchia scuola, uno di quelli che mette in scena le proprie opere. Forse, con questo mio lavoro, cerco di recuperare la nobile realtà teatrale, oggi divenuta eccessivamente televisiva, cerco binari più schietti e umili, un teatro di tutti e per tutti».
Roberto De Simone, musicista, regista, antropologo, legato ad eventi teatral-musicali ormai storici (uno per tutti, La gatta Cenerentola), tiene oggi a Tor Vergata una lectio doctoralis sul tema : “Il tempo nel teatro e in musica”. Solitario e aristocratico, il maestro attualmente lavora al Socrate immaginario di Paisiello, con il quale sta per debuttare al San Carlo di Napoli. Un paio di mesi fa, a Prato, ha allestito il suo Re Bello, su libretto di Siro Ferrone dall’omonimo racconto di Aldo Palazzeschi.
Il tempo. Un tema, maestro, che le è familiare, caro, una specie di amata ossessione...
«Sì, è vero. Ma per quanto io lo coltivi, il teatro in genere, al di fuori si me, sembra prescinderne. Per questo voglio parlarne ancora. E’ diventato un’urgenza, una delle cose da tener presenti sempre».
Come è mutato, il concetto di tempo, nel teatro attuale?
«Sono cambiati la rappresentazione e il suo svolgersi. Se prima esisteva la cosiddetta “convenzione teatrale”, cioè un tempo non reale, ma più vero del Vero, dentro il quale i valori, i sentimenti, le figure hanno una dimensione oggettiva, oggi tutto tende al reality show . Il tempo televisivo pretende essere la Realtà, invece è uno spazio mistificato e mistificabile in cui diventa spettacolo il succedersi di azioni e reazioni nella loro contingenza. La realtà, con la lettera minuscola, si trasforma in materia gastronomica per gli occhi e gli orecchi, senza alcun legame con le dimensioni universali del sentire umano».
I colpevoli di tale degenerazione?
«I media, naturalmente. Sono i mistificatori del tempo per eccellenza. Prendiamo un esempio ancora caldo: la morte del Pontefice. Il reality show è cominciato il Giovedì Santo, consumando la dipartita del Papa prima che avvenisse. E quando Giovanni Paolo II è spirato, i media non hanno fissato il Dolore nella sua naturalità e nell’eternità dei grandi sentimenti, ma si sono dedicati ad annegare nella confusione la miriade di reazioni registrabili nel mondo. Il compianto non è appartenuto alla universalità delle cose, alla Verità. Si è trasformato in contingenza, in dinamismo spicciolo, composito, in flusso di avvenimenti che passano».
La convenzione teatrale è dunque irreversibilmente in crisi?
«Non c’è dubbio. Il tempo della rappresentazione, insisto, è oggi quello televisivo: una affabulazione continua e costante, una eucarestia masticata prima di essere ricevuta».
E il Teatro, come si difende?
«Era l’unico luogo della realtà interiore, dove passato, presente e futuro si coagulavano nel tempo dell’attore (colui che agisce). Sta forzatamente abdicando, schiacciato dalla finta realtà dell’affabulazione televisiva. Tanto per tornare alla celebrazione planetaria della morte del Pontefice: ore e ore di spettacolo senza alcuna contrazione del tempo, senza scarti, senza vere sublimazioni del Dolore. Nulla che sia riuscito ad assomigliare all’essenza dell’accaduto. Nulla che abbia rappresentato oggettivamente la mentalità e la sofferenza collettive, come riescono ancora a fare certi riti pasquali del Sud del Mediterraneo, pensiamo alla Settimana santa nella Spagna meridionale, o alla nostra Madonna dell’Arco...».
Chi sono, i protagonisti della nuova teatralità, gli affabulatori odierni?
«Quelli che non sanno cantare, suonare uno strumento, ballare, recitare, leggere... Quelli che parlano e parlano “in diretta”, eroi del fittizio da spacciare per vero. Incapaci di interpretare, demandare, assumere. Lontani dall’essere uno e tutti al tempo stesso, come avviene quando una spettacolarizzazione risponde alle leggi della convenzione teatrale e diventa luogo del tempo interiore della collettività».
E il tempo della musica?
«Non è certo il battito delle discoteche o il tempo cadùco di una canzonetta. Dovrebbe essere il tempo che subisce contrazioni improvvise, scarti, lacune. Un tempo “doppio” che faccia corrispondere, o interagire, il tempo tecnicamente musicale e quello emotivo. Penso alla morte di Don Giovanni in Mozart, al Commendatore, agli ultimi istanti del seduttore...».
Il tempo convenzionale ma verissimo di cui parla, maestro, non rischia di essere un concetto troppo arduo per quei “tutti” ai quali lei dice di tendere?
«Il tempo teatrale “si sente”, non si comprende. E’ un’esperienza prima etica che estetica, come spiega anche Rousseau nella sua Lettera sugli Spettacoli. La società felice si autorappresenta e capisce perfettamente cosa stia dicendo e facendo, cosa voglia sublimare e oggettivizzare. La confusione mediatica, al contario, genera il vuoto, lo sconcerto, la nullità. Rende protagonisti dei dongiovanni cui la voce del Commendatore giunge straniera e flebile».