martedì 18 maggio 2004

storia:
le streghe nel Comasco

La Provincia di Como 18.5.04
STORIA
L'antica diocesi vide una «caccia» tra le più accanite e feroci COMO non perdonava le povere STREGHE
di Sara Cerrato


Como e la sua antica diocesi "terra d'elezione" per una caccia alle streghe tra le più accanite e feroci che la storia moderna d'Occidente ricordi. È questo il dato, sorprendente per i più, che emerge dagli atti di Streghe, diavoli e sibille, il convegno svoltosi a Como, il 18 e 19 maggio del 2001, ad approfondimento dell'importante mostra omonima allestita, al museo Giovio, tra marzo e giugno dello stesso anno. Il volume, recentemente edito dal Comune di Como Cultura Musei e Biblioteca, con Nodo Libri, fornisce un'interessante carrellata di saggi di studiosi italiani, che affrontano sotto molteplici aspetti, la storia delle "streghe" e delle persecuzioni terribili cui furono sottoposte. e parliamo con Paolo Portone, studioso e autore di numerose pubblicazioni. Portone, negli atti, ha curato il saggio Alcuni documenti inediti del Sant'Uffizio sulla caccia alle streghe nell'antica diocesi di Como durante il XVII secolo. L'esperto ha una predilezione per il nostro territorio, visto che già per la laurea, in Lettere moderne a La Sapienza di Roma, nell'84, discusse una tesi sulla persecuzione contro le streghe nella diocesi di Como. Professor Portone, dal suo intervento, si coglie come, nel XVII, secolo l'area della Lombardia e del Canton Ticino abbiano conosciuto una grave recrudescenza della persecuzione delle donne accusate di stregoneria. I persecutori furono attivissimi nel Comasco. Perché? Occorre fare un passo indietro. Como e il suo territorio dai secoli più remoti erano considerati luoghi di transito e passaggio. Più tardi, nel basso Medioevo, si assiste allo sviluppo potente di una cultura urbana e paleoborghese. Il fenomeno si riflette nella rappresentazione della religione che diventa più razionale e basata su una concezione positiva dell'uomo. Cosa c'entra questo con le streghe? In contrasto con questa religione "razionale" di stampo rinascimentale troviamo però, soprattutto nelle zone più impervie e lontane della diocesi, sacche di arcaico che permane. Si crea così una vera e propria "differenza di potenziale" che genera contrasto. Quindi, la tesi è che proprio nel momento di maggior splendore rinascimentale e come conseguenza di questa stagione, si scatenò la caccia alle streghe? È questa, in effetti, la teoria che ormai ha preso piede tra gli esperti in Europa. Per tutto il Medioevo, al contrario di quanto si crede comunemente, la stregoneria non viene perseguitata in modo sistematico. Esiste certo questo fenomeno, ma l'atteggiamento della Chiesa è sostanzialmente tollerante. Nel Canon Episcopi si scrive che le donne devote a Diana (antesignane delle streghe), fossero delle povere illuse, superstiziose. Questo dipende dalla contaminazione dell'ortodossia ufficiale con la religiosità popolare, a sua volta retaggio della civiltà morente dei "pagi". Cosa accade poi con il fiorire del Rinascimento? Il trasformarsi del rapporto con la religiosità fa in modo che la Chiesa guardi con occhi diversi i riti collettivi e popolari prima tollerati. Una fede ora individualistica e razionale (che per di più mette al centro l'uomo e emargina ancora di più la donna, custode dei segreti della natura e della creazione), porta all'intolleranza, e alla scelta di punire riti fuori dalla liturgia ufficiale. Nel pieno dell'era di Brunelleschi, Michelangelo, Leonardo da Vinci, si vive quindi una dimensione parallela oscura e antirinascimentale? Esattamente. È quello che si potrebbe chiamare il "buio della ragione" o l'ambiguo volto della modernità. Il tentativo di superare le incrostazioni pagane, che poterà anche al fenomeno della Riforma protestante, pone nel mirino la superstizione. Questo avviene anche a Como, che tra XIII e XIV secolo era in pieno sviluppo. Sulle montagne del lago e sulla linea dell'attuale confine italo - elvetico permanevano invece zone depresse e questo contrasto generò la virulenza. Nel XVI secolo il demonologo e inquisitore comasco Bernardo Rategno affermava che Como era già da un secolo e mezzo impegnata nella lotta contro le streghe. Ci sono documenti che dimostrano come a quest'epoca il fenomeno fosse incipiente in tutta la Lombardia. A Milano nel 1390 viene celebrato un processo a Sant'Eustorgio (luogo privilegiato a Milano per questi tristi atti giudiziari). Imputate sono due povere donne, Sibilla e Pierina. Prima vengono arrestate e rilasciate, avendo affermato di partecipare ad un "gioco" non sacrilego. Catturate una seconda volta, vengono torturate e non a caso, da qui compare sulla scena il "diavolo" che le corteggia e diventa loro amante. La sorte è il rogo. Da qui inizia quella che con una definizione esatta è stata identificata come la "fabbrica della strega", un terrificante processo di costruzione giuridica e teologica in cui il demonologo costruisce e l'inquisitore ratifica. Non a caso, nel XV secolo, viene pubblicato il Malleus Maleficarum scritto da due demonologhi inquisitori incaricati dal papa Innocenzo VIII di estirpare la piaga delle streghe in Renania. Cambia l'immagine della strega, rispetto al medioevo? Totalmente. Da illusa superstiziosa, la strega diventa la "quinta colonna del demonio". Personalmente ho una certa difficoltà a definire streghe delle povere donne che a vario titolo, ma sempre innocenti, caddero sotto una persecuzione crudele. Arriviamo dunque al XVII secolo. Lei ha studiato documenti inediti del Sant'Uffizio relativi a Como. Cosa ne è emerso? Va detto che in questo periodo abbiamo una forte differenza tra la zona comasca del territorio, dove la caccia alle streghe era gestita dall'inquisizione e la zona svizzera dove il braccio secolare passava dal clero al braccio secolare. Particolarmente colpite furono la Val Poschiavo e Bianzone, la zona di Lugano, Mendrisio, ma anche Chiavenna, Piuro. La persecuzione fu di virulenza inusitata anche se ormai era giunta l'ora del cambiamento. Cosa accadde a mutare questa condizione? Con l'avvento della Controriforma e la necessità di sconfiggere il protestantesimo, la stregoneria non era più il nemico numero uno. Certo, Carlo Borromeo fu ancora un grande persecutore e nel 1569 portò cinque donne di Lecco davanti all'Inquisizione di Milano a Santa Maria delle Grazie. L'aria però era cambiata e Borromeo, isolato dal Vaticano, non riuscì a esportare la sua lotta. Scipio De Biba, pure ferocissimo persecutore, lo obbligò infatti a trovare il "corpo del delitto". Come avrebbe potuto essere travato qualcosa che non esisteva? Era il momento del cambiamento e paradossalmente le superstizioni tanto temute diventeranno un "alleato" nell'età barocca della miracolistica e della meraviglia.

disturbo ossessivo-compulsivo

Repubblica.it 18.5.04
Si chiama disturbo ossessivo-compulsivo e riguarda un milione di italiani per lo più giovani. Un libro insegna a sconfiggerlo
I maniaci della porta accanto
come guarire dall'assedio dei tic
di LAURA LAURENZI


ROMA - Non riuscire a farne a meno. Lavarsi continuamente le mani, anche sessanta volte al giorno. Andare a controllare che il gas sia spento, alzarsi di notte per controllare di nuovo. Dieci, quindici, venti volte. È chiuso il gas? È spento il ferro da stiro? Chiudere la porta di casa a chiave e tornare indietro per verificare di averla chiusa.
E poi ricontrollare, ok, tutto a posto, ma dopo continuare a pensarci, ancora e ancora, tornare a vedere, in un crescendo d'angoscia. Parcheggiare la macchina e non dormire di notte per il sospetto di non aver tirato il freno a mano, la strada è lievemente in discesa... Camminare contando sempre i passi, senza mai calpestare le connessure, e ogni certo numero di passi, quasi sempre dispari, fare un certo rituale scaramantico.
Gabbie mentali, prigioni, auto-trappole. Quanta gente oggi soffre di queste ossessioni, o manie, o compulsioni? In quanti si avvelenano la vita con atti ripetitivi, con cerimoniali e rituali che scandiscono esistenze sempre più nevrotiche? È una vera e propria malattia psichiatrica, catalogata in medicina come disturbo ossessivo-compulsivo (Doc): una malattia che interessa il due per cento circa della popolazione adulta. Oltre un milione di persone in Italia, tra cui molti bambini e adolescenti, ne soffrono.
Una malattia sottovalutata, misconosciuta, non diagnosticata, liquidata spesso come una banale fisima, una fissazione. E invece il disturbo ossessivo-compulsivo è considerato la quarta patologia psichiatrica più frequente dopo i disturbi fobici, quelli legati a sostanze tossiche come alcol e droghe e la depressione.

più di mille in manicomio

Yahoo! Notizie Martedì 18 Maggio 2004, 16:27
PSICHIATRIA: PIU' DI 1000 PAZIENTI RICOVERATI IN EX-MANICOMI


(ANSA) - ROMA, 18 MAG - Sono ancora piu' di mille i pazienti ricoverati in sette ex ospedali psichiatrici non ancora riconvertiti dopo la legge del 1996. E' quanto emerge da una relazione del ministero della Salute inviata in Parlamento aggiornata al 31 dicembre dello scorso anno.
Il ministero ha calcolato che alla fine del 2003 le strutture che dovevano ancora completare il programma di superamento erano: 2 in Lombardia e in Puglia, e una nel Lazio, in Basilicata e in Sicilia. Dei 1.066 assistiti negli ex manicomi, 188 sono considerati pazienti 'psichiatrici', cioe' soggetti con prevalenti problemi in campo psichiatrico, mentre 878 sono pazienti 'non psichiatrici', cioe' con problemi di disabilita' per patologie neurologiche e geriatriche.
Per tutti i pazienti il processo di superamento degli ex manicomi prevede diversi programmi di inserimento in strutture idonee, in rapporto alla propria patologia prevalente: residenze terapeutico-riabilitative con assistenza 24 ore su 24 e residenze socio-riabilitative a loro volta divise per assistenza giornaliera e con fasce orarie. ''La mancata conclusione di alcuni programmi - dichiara il ministero nella relazione di monitoraggio - e' stata attribuita a una ritardata disponibilita' delle strutture residenziali di destinazione, oltre che a problemi di collocazione del personale''. (ANSA).

presentato in Commissione
il testo Burani Procaccini

Itaca.it venerdì 13 febbraio 2004
Riforma 180: Presentato il nuovo testo Burani Procaccini
di Fabio Della Pietra


L'onorevole Maria Burani Procaccini (Fi) ha presentato ieri pomeriggio, al Comitato ristretto della XII Commissione Affari sociali, la nuova versione della proposta di legge denominata "Prevenzione e cura delle malattie mentali". Il testo è stato depositato ma nessuna discussione è al momento seguita alla presentazione. Il nuovo testo, non ancora unificato ma allo stato di proposta di legge, oltre a contenere delle novità dal punto di vista dei contenuti, è stato co-firmato da altri tre parlamentari appartenenti alla Casa delle Libertà. Oltre all'on. Procaccini, hanno apposto infatti la loro firma gli onorevoli Giuseppe Naro (Udc), Carla Castellani (An) e Guido Milanese (Fi), accorpando così la proposta di legge 3932 su "Disposizioni per la prevenzione, il trattamento e il monitoraggio della depressione", presentata il 29 aprile dello scorso anno proprio da Naro, co-firmatari Castellani e Milanese.

Procede il cammino legislativo della riforma della psichiatria in Italia targato Burani Procaccini. Nessuna anticipazione ufficiale sui contenuti della nuova proposta di legge da parte della segreteria dell'on. Burani Procaccini né da parte dell'ufficio stampa dell'onorevole, anche se alcune anticipazioni sono state fornite dalla stessa relatrice attraverso un lancio Ansa, poi ripreso da Yahoo notizie, nella giornata di mercoledì.
"Agenzie regionali per la psichiatria, un garante per i malati psichiatrichi gravi che hanno avuto un ricovero obbligatorio, la riorganizzazione dei servizi territoriali e una rete di pronto soccorso con presenza di specialisti psichiatri" -riporta il comunicato Ansa-, queste alcune delle novità annunciate dall'on. Burani Procaccini.
"Un testo, ha sottolineato la parlamentare, che raccoglie anche le indicazioni e i suggerimenti di associazioni dei familiari dei malati, associazioni di ex pazienti e specialisti e che prevede -prosegue il testo Ansa- maggiore attenzione da parte delle strutture pure per le malattie emergenti come la depressione".
Prevista anche "l'istituzione di agenzie regionali per la psichiatria che avranno il compito di coordinare la riorganizzazione di tutti i servizi territoriali, compresi quei servizi di prossimità, considerati le antenne sul territorio dei bisogni psichiatrici e che coinvolgeranno le associazioni dei familiari. Ciò a cui si punta, ha spiegato Burani, e' una 'reale tutela dei malati e l'istituzione di una medicina del territorio molto capillare, per prevenire ma anche seguire i pazienti nella cura'. L'obiettivo è, cioé, non lasciare le famiglie da sole, ma sostenerle nella cura dei congiunti con disturbi mentali in modo concreto. Per questo, la proposta di legge prevede una serie di realtà territoriali che supportino l'azione dei nuclei familiari: centri diurni, di riabilitazione, assistenza domiciliare e day-hospital".
Un altro punto importante, non contenuto nel comunicato Ansa, riguarda la possibilità di far accedere le persone con svantaggio psichico al mondo del lavoro. Prevista, infatti, la creazione di strutture produttive mediante ricorso a strategie di finanziamento innovative, per dare lavoro a pazienti cronici attraverso le Cooperative. In tale maniera tutte le aziende che hanno l'obbligo di assumere personale dalle agenzie di collocamento potranno fare riferimento alle Cooperative sociali.
Prossimo appuntamento nella settimana tra il 23 ed il 27 febbraio, presumibilmente ancora al Comitato ristretto della XII Commissione Affari sociali.

domenica 16 maggio 2004


intervista a Ludovica Costantino

«E' stata testè pubblicata su Nuova Agenzia Radicale una intervista di Paolo Izzo a Ludovica Costantino sull'anoressia.
La trovate qui:

 http://www.quaderniradicali.it/agenzia/index.php?op=read&nid=919»



 

donne dell'Islam

Le Monde Diplomatique
Confronto tra donne all'interno dell'Islam

Accesso all'istruzione, in particolare a quella superiore, presenza nel mercato del lavoro, controllo delle nascite: nel corso di pochi decenni la condizione delle donne è profondamente cambiata nei paesi islamici. D'altro canto ogni conquista incontra resistenze e le mentalità sono più difficili da cambiare che le leggi. Divisi in molte correnti, laiche, liberali, islamiste, i movimenti di donne, dal Marocco all'Iran contestano tradizioni ancestrali, rivendicano più diritti, rileggono il Corano e la storia musulmana, a volte nella dispersione, a volte in una stupefacente unità.
di Wendy Kristianasen


Il premio Nobel per la pace assegnato a Shirin Ebadi - il primo a una donna musulmana - potendo essere considerato come il simbolo di un certo progresso in Iran, ha richiamato l'attenzione mondiale sulla lotta delle iraniane per l'uguaglianza dei diritti. Ma il presidente Mohammad Khatami ha ridimensionato l'assegnazione del premio definendolo «non molto importante» e aumentando così la delusione degli iraniani, già scontenti dell'incapacità dei riformatori di promuovere una società più democratica. Del resto, le elezioni legislative del 20 febbraio 2004 hanno confermato il fallimento del tentativo, durato sette anni, di riformare la rivoluzione teocratico - islamica (1).
Anche il Marocco all'inizio dell'anno, ha adottato una nuova legge sulla famiglia (moudawana). Una riforma storica, perché l'uguaglianza tra uomini e donne entra a far parte della legislazione. Il Marocco è il secondo paese arabo musulmano, dopo la Tunisia, a compiere questo passo. Tuttavia, dietro un'apertura di facciata, il re Mohamed VI, salito al trono nel 1999, esercita un potere assoluto e, a parte questa legge sulla famiglia, le concessioni democratiche sono limitate.
La popolazione marocchina ha un atteggiamento simile a quello degli iraniani: spoliticizzato e sfiduciato nei confronti del potere. Non è il solo punto in comune. Come l'Iran, anche il Marocco è uno stato islamico. Il re è insieme capo dello stato e capo religioso, «protettore dei credenti» (Amir al-Mouminin). L'osservanza dei riti islamici è obbligatoria per i musulmani, anche se l'anno scorso il mancato rispetto del ramadan è costato un semplice avvertimento, invece della multa prevista. Il paese resta profondamente conservatore, perché tradizioni e islam si rafforzano a vicenda.
In Iran come in Marocco, il rinnovamento nasce all'interno stesso del contesto islamico attraverso l'ijtihad (studio individuale delle fonti religiose) e il tafsir (esegesi del Corano). In entrambi i paesi le donne hanno svolto un ruolo attivo. Si definiscono militanti dei diritti delle donne: la maggior parte di loro, soprattutto in Marocco, rifiuta il termine «femminista» che considera limitativo in quanto legato a un tempo e un luogo non loro; queste donne rappresentano un ampio ventaglio della società che va dal polo islamico a quello laico - altra parola che mette a disagio molte di loro in tutti e due i paesi.
La legge sulla famiglia La riforma della legge marocchina sulla famiglia è il frutto di un lungo processo, incentivato soprattutto dal re e da un movimento di donne molto forte e combattivo, condotto all'interno stesso della sharia (legge islamica). Le donne ormai dispongono di uno statuto legale identico a quello degli uomini; possono iniziare una pratica di divorzio, condividono i diritti all'interno della famiglia e non sono più sotto la tutela di uno dei parenti (padre, fratello o marito); sono libere e indipendenti. Ma hanno dovuto accettare dei compromessi.
La poligamia, ad esempio, esplicitamente autorizzata dal Corano, non ha potuto essere abolita, anche se praticarla è diventato pressoché impossibile.
Tuttavia, tradurre i principi della riforma in articoli di legge si è rivelato arduo. Un precedente progetto di riforma, il «Piano per l'integrazione delle donne nello sviluppo», era stato proposto, nel 1999, dal primo ministro socialista Abderrahman Youssoufi che lo aveva poi presentato alla Banca mondiale. L'iniziativa aveva suscitato le critiche del ministro degli affari islamici, Abdelkebir Alaoui M'Dghari. Il dibattito era poi diventato pubblico, il governo aveva fatto marcia indietro e si erano così formati due schieramenti: da un lato, le militanti dei diritti della donna riunitesi nella Primavera dell'eguaglianza, dall'altro, gli islamisti e i loro alleati conservatori.
A Rabat, il 12 marzo 2000, alla vigilia della Giornata internazionale delle donne, le manifestazioni di sostegno al Piano hanno richiamato dalle 100.000 alle 200.000 persone, con la partecipazione di gruppi di donne, movimenti dei diritti umani e partiti politici (e almeno sei ministri in carica). Alcuni chiedevano addirittura una riforma più audace. Ma a Casablanca, una contro - manifestazione islamista, che denunciava il Piano come pro - occidentale e anti - musulmano, ha mobilitato una folla nettamente più numerosa.
A questo punto il re ha nominato una commissione di quindici membri per rivedere il progetto e renderlo conforme alla legge islamica.
Una delle tre donne della commissione è Nouzha Guessous, non schierata politicamente, 50 anni, professore alla facoltà di medicina e farmacologia di Casablanca e tra i fondatori dell'Organizzazione marocchina per i diritti umani (Omdh). Si dichiara femminista, «ma, precisa, in senso ampio: considero il mio percorso personale inserito in un contesto universale, e non credo che ciò sia in contraddizione con i principi fondanti dell'islam». A suo giudizio, la denuncia del preteso carattere anti - musulmano del Piano ha obbligato «gli intellettuali marocchini e le organizzazioni delle donne a elaborare argomenti molto solidi, basati sulla cultura musulmana, proprio per dimostrare che le loro proposte non sono dettate dalle organizzazioni internazionali o dalle culture occidentali, ma sono invece ben ancorate nel patrimonio arabo-musulmano.
E questo, secondo me, è il cambiamento tattico più importante nelle lotta delle donne». La lettura del discorso con cui il re ha annunciato la nuova legge è esemplare: il contenuto è identico a quello proposto nel 2000, ma ogni singola riforma è legittimata da un riferimento al Corano e alle tradizioni profetiche.
In qualche modo, i cinque attentati - suicidi che il 16 maggio 2003 hanno ucciso 45 persone a Casablanca hanno accelerato la decisione.
Il fatto senza precedenti ha profondamente traumatizzato la popolazione.
Se i terroristi appartengono alla jihad salafista, legata ad al Qaeda, allora molti marocchini addossano la responsabilità degli attentati al movimento islamista originario, il cui referente parlamentare è il Partito per la Giustizia e lo sviluppo (Pjd). In conseguenza, quest'ultimo si è affrettato ad approvare il nuovo progetto.
Come spiega la Guessous, «i fatti del 16 maggio sono stati un campanello d'allarme circa il rischio di derive estremiste e hanno costretto tutti a prendere posizione, compreso lo stato marocchino. Che lo ha fatto, affermando solennemente che il Marocco non intende rimettere in discussione la scelta di costruire uno stato democratico, aperto, tollerante. Gli avvenimenti hanno dimostrato che il potere deve tener conto della situazione generale del paese, in particolare sul piano socioeconomico, e hanno confermato la necessità di ribadire che siamo in perfetta sintonia con i principi dell'islam».
Il politologo marocchino Mohamed Tozy considera rivoluzionaria la riforma del codice di famiglia. Ma pensa che dovrà essere accompagnata da un grande lavoro di educazione e da profondi cambiamenti sociali.
Della stessa opinione è Leila Rhiwi, insegnante di comunicazione all'università di Rabat e coordinatrice del movimento Primavera dell'uguaglianza, la quale esprime una preoccupazione molto diffusa nel paese: «Questa legge è di capitale importanza; mette l'uguaglianza al posto della sottomissione. Ma ho paura che nella pratica, nei vari tribunali sparsi per il Marocco, non venga applicata. I magistrati hanno una libertà eccessiva. C'è ancora molto lavoro da fare». E aggiunge: «Sono musulmana dal punto di vista dell'apporto culturale dell'islam, ma scelgo la laicità. Non rifiuto di essere considerata una "femminista laica". Soprattutto dopo il 16 maggio, si è cominciato a mettere insieme laicità e democrazia...».
Consulente di management e segretaria generale del Forum verità e giustizia, un'organizzazione che difende i diritti umani, Khadija Rouissi, 40 anni, si definisce una femminista assolutamente laica.
Anche lei è preoccupata del fatto che «giudici e magistrati non rispettino la nuova riforma; sono tutti uomini, non conoscono altro che la discriminazione».
Vediamo cosa ne pensano le donne islamiste, come Nadia Yassin, portavoce di Jama'a al-Adl wal-Ishan (Giustizia e carità), il cui padre, lo sceicco Ahmad Yassin, 76 anni, fondatore del movimento, ha scritto in un libro, intitolato La Révolution à l'heure de l'Islam, che bisogna «islamizzare la modernità e non modernizzare l'Islam». Nadia Yassin si considera una «militante sociale neo-sufista» e rifiuta il termine di femminista, a suo avviso «troppo revanscista». Ammette che la decisione di manifestare contro la riforma, nel 2000, è stato «un errore tattico. Era un gesto politico, destinato a mostrare la forza degli islamisti. Ma ci opponevamo alla riforma anche perché era emersa dalla conferenza di Pechino (2), ed era imposta dall'esterno. Forse la nostra società è malata, ma siamo noi a dover trovare i rimedi.
Le donne occidentali, che non avevano alcun diritto, hanno dovuto lottare per conquistarli. Da noi, è successo esattamente l'opposto: poco a poco ne siamo state private».
Ma al di là di tutto, pensa che «il nostro mondo è spirituale per natura. Per noi, i diritti delle donne comportano tre poli: gli uomini, le donne e Dio. Leggiamo e rileggiamo i testi sacri: nella nostra società il periodo nero per le donne è stata l'epoca del califfo Mou'awiya (3) quando diventarono schiave. Rivendichiamo nuovi diritti, ma solo per una migliore armonia tra tutti i membri della famiglia.
I diritti delle donne possono diventare deleteri e portare alla disgregazione della famiglia, e questo va evitato». Critica poi le insufficienze della riforma: «La nuova legge dovrebbe offrire di più e accordare alle donne il diritto di decidere in prima persona a quali condizioni accettare la poligamia e il ripudio. Inoltre non viene toccato per niente il problema dell'eredità delle donne».
Il suo movimento, Al-Adl wal-Ihsan, ha una notevole influenza, in particolare nelle città e nelle università (4): comunica una speranza di cambiamento a tutti i livelli spirituale, politico, culturale.
Contesta lo status quo del re e trae la sua legittimità da un reale sostegno popolare. Poiché rifiuta di transigere sui suoi principi, resta fuori dal sistema politico. La maggior parte dei suoi sostenitori vota Pjd, partito religioso conservatore che piace ai marocchini più legati alla tradizione. Secondo Hakima Mukatry, una delle responsabili di al-Adl wal-Ihsan a Rabat: «Le nostre idee sono molto diverse da quelle del Pjd. Loro accettano il gioco politico, noi no».
Molte donne che hanno sofferto sotto la vecchia moudawana sono attratte da Al-Adl wal-ihsan, ad esempio Najia Rahman, 44 anni, che viene da Oujda, nell'est del paese. Era una ribelle: rifiutava di coprirsi i capelli o di pregare. Si è sposata. Pessima scelta. Dopo anni di maltrattamenti, consacrati unicamente ai figli e al lavoro, scopre gli scritti dello sceicco Ahmad Yassin: «Mi sono detta: questi sono concetti nuovi; non come Hassan al-Banna o Sayyid Qotb (5). Subito è scattata in me una molla e ho aderito. Questo avveniva 18 anni fa. I militanti mi hanno incoraggiata a divorziare, a riprendere la mia carriera, ma soprattutto a riflettere. Ora preparo il dottorato in psicologia». La legge sulla famiglia ? «Non mi aiuterà a ottenere gli alimenti. Il problema non sta nella legge, ma nella mentalità, nella corruzione, nella scarsa preparazione di chi siede nei tribunali di prima istanza».
Riuniti in casa di uno di loro a Casablanca, i membri del movimento si scambiano liberamente le proprie opinioni sui più vari argomenti in presenza di una o due donne (Al-Adl wal-Ihsan è favorevole alla promiscuità) e sotto la presidenza di Nadia Yassin. Sono convinti che sia necessario «demistificare la storia musulmana, reinterpretarla, cambiare la gente rieducandola dalla A alla Z». Si dicono «pronti a entrare nella politica, ma solo se non è truccata, cosa che il palazzo non è in grado di garantire». E aggiungono di «non volere soltanto una riforma elettorale, ma una reale riforma costituzionale.
Il potere sa che ne contestiamo la legittimità. Ma contestiamo anche i privilegi del movimento delle donne laiche: sono delle élite francofone».
Le donne marocchine sono dunque divise in due fazioni monolitiche, che si detestano e non si incontrano quasi mai.
In Iran, la situazione è completamente diversa e le alleanze sono sorprendenti (6). Per definirsi, le militanti usano un numero straordinario di categorie: da tradizionali a moderne, da islamiste a laiche, da conservatrici a di sinistra, passando per le centriste liberali con infinite varianti. Tuttavia, molte di loro, almeno all'inizio, si identificavano col movimento riformatore guidato da Mohammad Khatami, con il suo discorso sulla società civile, la libertà di espressione e l'importanza del diritto, contrapposto all'opposizione forte, talvolta violenta, dei «duri» della teocrazia conservatrice. Di fatto, le donne e la loro richiesta di uguaglianza sono una delle chiavi di volta del movimento per le riforme democratiche.
I successi sono però modesti, dal momento che le leggi votate dal parlamento possono essere annullate dal consiglio dei Guardiani, che ha diritto di veto. Per esempio, dal 29 novembre 2003, le madri iraniane divorziate possono mantenere la custodia dei figli maschi fino all'età di sette anni (contro i due anni della legge precedente).
Avevano già quella delle figlie fino ai sette anni, grazie ai tenaci sforzi di Shirin Ebadi che nel 1997 aveva richiamato l'attenzione su questo problema, difendendo la madre divorziata di una bambina di sei anni, Aryan, morta a causa dei maltrattamenti che le infliggevano la matrigna e il fratello nella casa paterna. Dopo vent'anni di oscurantismo, questa piccola apertura è sembrata un notevole progresso.
Nel giugno 2002, alla fine di un cammino altrettanto lungo, l'età minima per sposarsi è passata a tredici anni per le ragazze e a quindici per i ragazzi. Un compromesso. La legge votata dal parlamento, nell'agosto 2000, prevedeva infatti rispettivamente quindici e diciotto anni.
Dal 2001, ogni donna che abbia più di diciotto anni ha il diritto di andare all'estero senza autorizzazione, a meno che non sia sposata, nel qual caso deve ottenere il permesso del marito (7). Ma altre leggi votate dopo il 2000 dal parlamento (nel corso della Sesta majlis) sono state annullate: la riforma delle leggi su stampa e divorzio, il divieto di tortura nelle prigioni, l'adesione alla Convenzione sull'eliminazione di qualsiasi forma di discriminazione contro le donne (Cedaw). Il dato di base resta identico: la vita di una donna vale comunque meno di quella di un uomo. Così il «prezzo del sangue» (la compensazione pagata in caso di incidente o di morte) continua ad essere la metà di quello pagato per un uomo (allo stesso modo, il seguace di una religione minoritaria vale la metà di un musulmano).
Educare gli uomini C'è poi la questione della hidjab, il codice dell'abbigliamento obbligatorio per un musulmano (non rispettarlo può comportare fino a 74 frustate).
Dopo anni di silenzio, la questione è stata finalmente sollevata, sotto Khatami, da vari religiosi riformatori che hanno espresso il loro pensiero in diverse pubblicazioni. Il più noto fra loro è l'ex ministro dell'interno, Abdollah Nuri, il quale è stato condannato a cinque anni di carcere per avere spiegato che la sharia obbliga la donna credente a coprirsi la testa e il corpo, ma non dice niente in relazione alle non credenti (8).
I nuovi argomenti in discussione circolano grazie alla rivista mensile Zanan (Donne), fondata nel 1992 da Shahla Sherkat, resa celebre dal suo femminismo impegnato, ma non troppo lontano dall'islam. Zanan rappresenta di gran lunga la maggiore tiratura della stampa femminile, vende infatti fino a 40.000 copie, contro le sole 5.000 della sua concorrente diretta. «Quando ho lanciato Zanan, racconta Shahla Sherkat, volevo solo rendermi utile con i mei dieci anni di esperienza sui problemi delle donne. C'è voluto un certo coraggio. La parola "femminista" era un'ingiuria. Non volevo passare per una sostenitrice del femminismo, volevo solo parlarne. Il femminismo da noi è un fenomeno del tutto nuovo: può dare alle donne il coraggio di mettersi insieme per protestare contro le diseguaglianze tra sessi. È per questo che rifiuto di aggiungervi un qualsiasi aggettivo, come "islamico" o "laico". Non mi preoccupo molto delle etichette. Sono semplicemente femminista».
Durante un dibattito a Berlino, nel 2000, Shahla Sherkat ha pubblicamente criticato le regole della hidjab. Erano presenti altri noti riformatori e tutti sono stati puniti, Shahla Sherkat ha avuto sei mesi di carcere con la condizionale, Shahla Lahiji, militante dei diritti umani e da vent'anni direttrice delle edizioni Roshangran (premiate con il Pen International negli Stati uniti e con il Pandora Prize nel Regno unito) si è invece presa quattro anni e mezzo di carcere duro (pena ridotta a sei mesi) per aver parlato della censura.
«La questione femminile è un tema ancora molto scottante, spiega Shahla Lahiji. L'espressione "femminista islamica" pone dei problemi: la gente pensa che tu ti senta superiore agli uomini e che te ne vada in giro tutta nuda. Il problema è che la religione si è mescolata alla vita privata: abbiamo bisogno di separare la religione dallo stato. Loro [i mullah] vorrebbero approfondire la segregazione con giardini pubblici e autobus riservati alle donne, ecc.. Ma quello di cui abbiamo veramente bisogno è educare gli uomini». A Lahiji è proibito parlare in pubblico. Accetta la regola, come tutti in Iran. Rispetta la hidjab «perché così vuole la legge. Anche se non amo quel che c'è dietro, cioè "Voi donne, siete l'essenza del peccato"».
Ma non è amareggiata. Al contrario è molto ottimista. E ricorda gli effetti della guerra contro l'Iraq negli anni '80: «Ci sono state donne che sono diventate capofamiglia, e questo ha dato loro fiducia.
Era l'inizio. Oggi, la nuova generazione fa cose straordinarie. Ci sono così tanti talenti nel nostro paese. Guardi il cinema ! Non ci sono molti ruoli femminili e non ci può essere contatto fisico tra i sessi, ma tanti registi di primo piano sono donne! E tutte le laureate: ragazze sui banchi delle facoltà a studiare matematica o tecnologia dell'informazione. L'anno scorso, oltre il 62% degli studenti del primo anno erano donne. Con tutti i limiti che ci vengono imposti, è semplicemente un miracolo».
Islam e democrazia Noushin Ahmadi Khorasani, 35 anni, è un'altra personalità aperta e laica. Pubblica un trimestrale, Fasl Zanan (La Stagione delle donne) ed è una militante dei diritti umani. Dirige, con Parvin Ardalan, il Centro culturale delle donne. Dal 1999, nonostante la guerra di logoramento a cui sono sottoposte da parte delle autorità, allestiscono spettacoli in pubblico. Dopo due anni di fatiche sono riuscite a creare un'associazione non governativa, ma non hanno alcuno dei vantaggi o finanziamenti ai quali hanno diritto le associazioni non laiche.
Ahmadi Khorasani e Ardalan si definiscono esplicitamente femministe: «E siamo laiche. Non abbiamo bisogno di dirlo. In Iran, questo è implicito nell'espressione "diritti umani", che sottintende la separazione tra religione e stato. Fino a due anni fa, anche la parola femminista era sinonimo di laicità. All'epoca la stessa Shirin Ebadi non si dichiarava femminista».
Dal canto suo, Azam Taleqani, direttrice della rivista riformatrice Payam-e-Hajer (Il Messaggio di Hajer) attualmente proibita, è una militante della vecchia scuola, iscritta alla corrente nazional-religiosa.
Figlia di un celebre ayatollah, è anziana e malata, ma sempre circondata da grande rispetto. «Gli uomini dovrebbero rivalutare la condizione delle donne, ma io mi preoccupo dell'insieme della società, non solo del mondo femminile». Malgrado le sue precarie condizioni di salute, si è candidata alle ultime elezioni presidenziali, «per mettere alla prova la costituzione: non c'è alcuna ragione per cui una donna non possa presentarsi». Nell'estate 2003, ha protestato da sola, esponendosi per tutto il giorno ad un caldo soffocante, contro la morte in prigione, avvenuta il 12 luglio, della giornalista irano-canadese Zahra Kazami arrestata per aver fotografato la prigione di Evin. Come si definisce questa donna indomabile? Sorride: «Se lo sapessi, sarei senza dubbio più efficace. Spero di scoprirlo prima di morire».
Mahboubeh Ommi Abbasqolizadeh, 44 anni, dirige dal 1993 il trimestrale Farzaneh (Saggio), prima rivista iraniana dedicata a studi femministi (women's studies). Dirige anche varie organizzazioni, alcune governative, altre no. Il suo successo, si dice, dipenderebbe dal fatto che ha saputo restare vicina all'establishment islamico. Racconta il suo percorso: «Ero islamista all'epoca della rivoluzione. Poi, negli anni '80, ho studiato in Egitto, anche le problematiche di genere.
Sono diventata femminista islamista, il che significa militare a favore di rinnovamenti particolarmente importanti attraverso quello che chiamiamo lo "djihad dinamico". Ma oggi sono cambiata ancora, mi definisco femminista musulmana e faccio riferimento al movimento degli intellettuali religiosi».
Tra questi ultimi (9), una delle personalità più rispettate, Hamidreza Jalaeipour, professore di sociologia all'università di Tehran, spiega: «Sono musulmano, ma non islamista. Non credo all'islam in quanto ideologia. Noi intellettuali religiosi crediamo in una "laicità obiettiva", alla separazione tra religione e stato in quanto istituzioni, ma non in termini culturali». Afferma che, «l'Iran è passato attraverso una fase fondamentalista: molti di noi sono diventati dei "post-fondamentalisti" e ci auguriamo un islam minimale». Un esempio di «laicità obiettiva»?
«Forse quella che si avvicina più di tutti è la Turchia, sotto l'attuale governo di Giustizia e sviluppo».
Mahboubeh Abbasqolizadeh osserva: «Poiché manchiamo di laicità, essa rappresenta per noi la democrazia. Credo sia possibile riconciliare islam e democrazia. La difficoltà nasce quando si tratta di applicare questo principio alle donne. È un'idea del tutto nuova».
Donne come Shirin Ebadi hanno un compito importante da svolgere.
Nella sua modesta abitazione a Tehran, foulard di un blu sgargiante sui capelli, questo avvocato di 56 anni, militante dei diritti delle donne e dei bambini, continua a credere che riforme e islam siano compatibili. «In ogni caso, la costituzione prevede di poter essere rivista, quando se ne avverta la necessità: è infatti indicata una procedura referendaria con possibilità di modifica della legge. Dunque, le riforme non sono impossibili». Per quanto riguarda le donne, afferma: «Il movimento delle donne è ogni giorno meglio organizzato e più solidale. Le donne iraniane sono sufficientemente istruite, non hanno bisogno di capi. Sono unite, coraggiose, consapevoli. E continueranno a lottare per l'uguaglianza dei diritti».
Shirin Ebadi si dice musulmana. Come Nouzha Guessous, in Marocco, sa che bisogna cercare un punto di intesa in cui l'islam possa coesistere con i diritti universali e la democrazia.

note:

(1) È vero che il consiglio dei Guardiani della rivoluzione ha bocciato 2.500 candidati riformatori. Altri si sono ritirati. Alla fine i riformatori, che nel 2000 avevano ottenuto il 70% dei seggi, ne hanno totalizzati solo 43 su 289, mentre al secondo turno verranno attribuiti 64 seggi contesi da 128 candidati. La partecipazione alle elezioni è stata solo del 28% a Tehran e ha raggiunto il 50,6% nell'insieme del paese. Si legga Bernard Hourcade «Iran, il lungo risveglio della repubblica islamica», Le Monde diplomatique/il manifesto, febbraio 2004.

(2) Conferenza internazionale sui diritti delle donne sotto l'egida dell'organizzazione delle nazioni unite che si è svolta a Pechino nel 1995.

(3) Primo califfo della dinastia degli Ommeyadi (657-680).

(4) Nadia Yassine afferma che il movimento conta centinaia di migliaia di simpatizzanti, mentre l'islamista marocchino Mohamed Tozy ritiene si tratti di diecimila, massimo ventimila persone.

(5) Rispettivamente fondatore dei Fratelli musulmani nel 1928 e uno dei loro teorici giustiziato da Nasser nel 1965.

(6) Si legga, in particolare, Azadeh Kian, «Le donne iraniane contro il clero», Le Monde diplomatique/il manifesto, novembre 1996.

(7) Tra il 1980 e il 1990 sono state introdotte alcune riforme: le donne sono state autorizzate a studiare argomenti in precedenza proibiti, l'acceso al planning famigliare e alla contraccezione sono stati liberalizzati, le leggi sul divorzio sono state emendate e alcune donne sono state nominate magistrati consulenti (la Ebadi aveva perso la carica di magistrato nel 1979).

(8) Si legga: Ziba Mir-Hosseini, «The Conservative-Reformist Conflict over Women's Rights in Islam», International Journal of Politics, Culture and Society, n° 16
(1), Boston, autunno 2002; «Debating Women: Gender and the Public Sphere in Post-Revolutionary Iran», in Amyn Sajoo (ed.), Civil Society in Comparative Muslim Contexts., I. B.
Tauris & Institute of Ismaili Studies, Londra, 2002; Islam and Gender: the Religious Debate in Contemporary Iran, Princeton University Press, 1999 e I. B. Tauris, Londra, 2000.

(9) Tra i quali si contano anche Abdolkarim Sorush e Alireza Alavitabar.

(Traduzione di G.P.)

donne e uomini:
«a ciascuno il suo lobo»

La Gazzetta del Mezzogiorno 16.5.04
Al maschio il sinistro alle femmine il destro
di e. ann.


In genere nell'uomo prevale il cervello sinistro, mentre nella donna c'è più equilibrio o addirittura prevale quello destro. Il lobo parietale inferiore nell'uomo è più grande del 5%. Quest'area sarebbe fortemente correlata con le abilità matematiche, le relazioni spaziali e la percezione del tempo e della velocità. Nella donna, due aree dei lobi frontale e parietale collegate al linguaggio hanno un volume maggiore fino al 23% rispetto all'uomo. Finora queste caratteristiche sembrano avere influenze generali, più predisposizioni che veri talenti innati.
L'evoluzione sarebbe la responsabile dello sviluppo delle capacità empatiche nelle donne e sistematizzanti negli uomini per garantirsi maggiore possibilità di riproduzione e di sopravvivenza. Il maschio poco empatico e molto sistematico si costruisce utensili, si sa orientare nella foresta, caccia, combatte, capisce qual è il suo posto nella gerarchia sociale e sa scalarla senza scrupoli nei confronti dei suoi simili. Una donna più empatica è maggiormente in grado di soddisfare i bisogni della prole perché ha molti amici su cui contare ed è in grado di intuire e capire i bisogni dei piccoli finché essi non sono in grado di esprimersi. Finché è durata la vita primitiva, maschi sistematici e femmine empatiche avrebbero avuto maggiori possibilità di trasmettere i primi geni rispetto ad individui più «equilibrati» (e perciò meno competitivi).

Gregory Bateson

La Stampa 15.5.04
A CENTO ANNI DALLA NASCITA, UNA LEZIONE DI RIGORE E IMMAGINAZIONE, ATTUALE E PREZIOSA

BIOLOGO, ANTROPOLOGO MARITO DELLA MEAD, ECOLOGO, HA RIPENSATO LA CONDIZIONE UMANA NELL’ERA PLANETARIA, IL NOSTRO ESSER PARTI DI PIÙ AMPI SISTEMI NATURALI E SOCIALI, HA INSEGNATO A VEDERE «LA STRUTTURA CHE CONNETTE», A CONOSCERE QUEL CHE GIÀ SIAMO, A COLTIVARE «LE DANZE INTERATTIVE» DELLA VITA
di Sergio Manghi

Non cesseremo di esplorare
E il fine di ogni nostra esplorazione
Sarà là dove siamo partiti
E sapremo il luogo per la prima volta.
T.S. Eliot

NELL’AUTUNNO del 1979, lo stesso anno in cui uscì Mente e natura, Gregory Bateson fu invitato a tenere una conferenza all'Institute of Contemporary Arts di Londra. Era nato 75 anni prima a Grantchester, nei pressi di Cambridge, UK. Dagli Anni 30 viveva negli Stati Uniti, dov'era approdato nel momento più intenso delle sue esplorazioni antropologiche, dopo l'incontro intellettuale e sentimentale con Margaret Mead. Non era la prima volta che rimetteva piede sulla sua terra natale, ma questa era un'occasione del tutto particolare. Gli avevano chiesto di pronunciare quella che gli sarebbe piaciuto definire la sua last lecture. Bateson decise di rispondere a questa richiesta con un excursus autobiografico e insieme (ovviamente, per lui) metabiografico. L'incipit del testo preparatorio, pubblicato solo vari anni dopo, ripete quasi alla lettera alcuni versi dei Quattro quartetti di Eliot: «Torno al luogo da cui sono partito e conosco il luogo per la prima volta». L'anno precedente aveva dovuto interrompere il lavoro su Mente e natura a causa di un grave cancro al polmone. Aveva potuto portarlo a termine solo grazie all'aiuto della figlia, Mary Catherine. Sarebbe morto nell'estate del 1980. Nella sua last lecture, Bateson ripercorreva l'avventura straordinaria della propria vita in chiave circolare: partito dalle scienze biologiche, vi ritornava; partito dalla Gran Bretagna, vi ritornava. Ma le scienze biologiche e la Gran Bretagna a cui ritornava apparivano diverse ai suoi occhi - conosceva il luogo per la prima volta. In mezzo, tra la partenza e il ritorno, i viaggi e gli spaesamenti antropologici, l'impresa esaltante della cibernetica, gli studi sulla natura relazionale della schizofrenia e più in generale della comunicazione animale e umana, le riflessioni epistemologico-ecologiche culminate in quella "svolta" dei tardi Anni Sessanta in cui maturò il progetto del celebre Verso un’ecologia della mente (1972). La biologia dalla quale - per raffinata e devota cultura familiare - era partito (il padre, William, era stato tra i precursori della genetica), appariva ora ai suoi occhi una porzione di una più ampia biologia: l'ecologia della mente, appunto, dove la ragione non era più separata dal cuore, dove l'io non era più separato dagli altri e dal contesto, dove l'universo antropologico non era più separato dal più ampio universo creaturale in evoluzione incessante, imprevedibile, creativa.
E la Gran Bretagna che aveva lasciato - così racconta - per sottrarsi al frustrante disinteresse che essa nutriva riguardo ai presupposti del suo stesso sistema sociale e riguardo all'estetica dei suoi rituali costitutivi, era ora una porzione di un mondo sociale molto più grande. Un mondo globalizzato, diremmo oggi. Un mondo, soprattutto, chiamato con urgenza a saper guardare a se stesso con occhi nuovi - a conoscere il luogo per la prima volta. Il linguaggio "ecologico" creato da Bateson, in particolare a partire dagli Anni Sessanta, va annoverato fra i tentativi più alti compiuti nel XX secolo per ripensare la condizione umana nell'era planetaria. Ovvero, per interrogare in profondità il nostro esser parte di più ampi sistemi, interpersonali, sociali e naturali, in un tempo di impetuosa unificazione dell'umanità e di crescente fiducia mitologica nelle virtù salvifiche della Tecnica: fede nel primato della finalità cosciente, per dirla con la felice formula contenuta nelle due cruciali conferenze del 1968. Mente e natura si proponeva di dare all'ecologia della mente una forma più esplicita, coerente e articolata di quella elaborata in Verso un'ecologia della mente. In sede teorica, la "mossa-chiave" di Bateson consiste nel porre la mente - una sua precisa quanto inusuale idea "sistemica" di "mente" - nel cuore stesso della storia naturale, nella grammatica autogenerativa dei processi viventi e delle loro incessanti, stupefacenti metamorfosi: «Se volete comprendere il processo mentale, guardate l'evoluzione biologica, e viceversa, se volete comprendere l'evoluzione biologia, guardate il processo mentale», ammonisce nel memorandum per i Regents della University of California, dei quali faceva parte, posto in appendice a Mente e natura. Con questo spiazzante ossimoro, Bateson immette nello stesso campo del sapere fenomeni che siamo abituati a pensare come eterogenei e distanti (l'anatomia dell'ameba, i rituali del sacro, la comunicazione tra le focene, l'apprendimento a "disabituarsi", la corsa agli armamenti, la crisi ecologica...). Le sue "domande impertinenti" (Rieber 1989) ci inducono a osservare con occhi nuovi, capaci di stupirsi di se stessi, la nostra stessa idea di "mente". Ci invitano, in altri termini, a vedere in wider perspective - in una prospettiva più vasta, come amava ripetere - quelle nostre inerziali abitudini di pensiero che ci spingono a descrivere la mente come un apparato logico-cognitivo per l'elaborazione di informazioni (input-elaborazione-output), o all'opposto, vitalisticamente, come un ineffabile quid soprannaturale - secondo il codice binario, illuministico-romantico, che disciplina ancor oggi, del resto, tanta parte del nostro moderno immaginario, anche nella più fluida variante postmoderna. Il libro, sappiamo, non ebbe l'accoglienza sperata, e Bateson ne fu amareggiato. Nel mondo scientifico, del quale non cessava di sentirsi coerentemente parte (in quanto "manovale impegnato nelle scienze occidentali"), incontrò scarso interesse, o addirittura diffidenza. E l'entusiasmo suscitato, all'opposto, in numerosi esponenti della controcultura "californiana", gli appariva dettato da disinvolte trasfigurazioni "soprannaturalistiche" delle sue parole.
E tuttavia, è proprio nel cuore di questa "doppia incomprensione", e cioè nel cuore della sua irriducibile, creativa resistenza bifronte verso il rigore privo di immaginazione e verso l'immaginazione priva di rigore, che risiede la fecondità della lezione batesoniana. A maggior ragione dopo che gli sviluppi, negli ultimi decenni, delle riflessioni sulla biologia della conoscenza, sui sistemi complessi, sull'evoluzionismo post-darwiniano, sul carattere relazionale della natura umana, sulle escalation comportamentali che innescano violenze e follìe, sulle svolte epistemologiche dell'antropologia, sul posto centrale della metafora nella nostra comunicazione, e di molte altre riflessioni ancora, hanno ampiamente confortato le idiosincratiche esplorazioni, suggestioni e costruzioni batesoniane. Il "metodo della descrizione doppia", come lo chiama Bateson (proprio in Mente e natura, parte V), continua a lanciare alle nostre obsolete abitudini di pensiero una sfida radicale. La sfida a riconoscere il "profondo panico epistemologico" (Dove gli angeli esitano) che cova sotto il nostro bisogno di certezze, di quelle scientiste come di quelle antiscientiste. La poesia Il manoscritto, che Bateson scrisse dopo aver consegnato all'editore il manoscritto, appunto, di Mente e natura, si conclude così:
«Queste son cose da predicatori
da ipnotisti, terapeuti e missionari.
Essi verranno dopo di me
e useranno quel po' che ho detto
per tendere altre trappole
a quanti non sanno sopportare
il solitario
scheletro
della verità».
Quella di Bateson non è solo una lezione di teoria: è anche, inseparabilmente, una lezione di stile. Di estetica del conoscere. Per questo, anche nel proporci un'opera relativamente sistematica come Mente e natura, Bateson non ci invita a far nostre, letteralmente, le sue formule teoriche, per diventare finalmente "batesoniani". Ci invita a coltivare, nell'ambito dei contesti piccoli e grandi in cui viviamo, la nostra personale sensibilità alle concrete "danze interattive", meravigliose e terribili, cui prendiamo parte per vie comunicative in ogni caso largamente inconsapevoli.
Lezione ancor più preziosa oggi, XXI secolo, dopo che la rapida mondializzazione dell'economia liberista e i travolgenti progressi nelle tecnologie della vita, degli armamenti e della comunicazione hanno così potentemente accelerato, nel bene come nel male, la necessità di una coscienza dell'esser parte di contesti relazionali in ogni caso grandi e misteriosi: in quanto persone, in quanto gruppi, in quanto popolazioni, in quanto generi, in quanto specie. È la necessità di prenderci cura della nostra sensibilità alla struttura cui connette (responsiveness to the pattern which connects), come recita la bella espressione di Mente e natura. Necessità, suggerisce Bateson nel "metalogo" con Mary Catherine che conclude il volume, inseparabilmente razionale, estetica e religiosa. Necessità vitale, che l'avrebbe condotto a dedicare gli ultimi mesi della sua vita a quell'epistemologia del sacro, anticipata nel "metalogo", che vedrà la luce soltanto dopo la sua morte, in forma di frammenti ricostruiti e integrati dalla figlia (Dove gli angeli esitano, 1987). In quell'autunno londinese che sarebbe stato l'ultimo della sua vita, Bateson faceva balenare con eleganza, attraverso le parole di Eliot, quel che di più prezioso, e insieme di più difficile, possiamo apprendere dall'incontro con la sua opera: non a conoscere di più - più di prima, più degli altri - le presunte leggi nascoste delle "danze" che veniamo danzando, piccole e grandi, effimere e durevoli, sociali e naturali. Ma a conoscere noi stessi e il mondo in cui viviamo in un altro modo. Un modo autoriflessivo e partecipe, che possa rivelarci - ponendola di continuo in wider perspective - la straordinaria vicenda di quel che già sappiamo, di quel che già siamo, nel bene come nel male, e insieme la sua inesauribile, sorprendente novità.

la biblioteca di Alessandria

Repubblica 16.5.04
INDIVIDUATO IL SITO
RITROVATA LA BIBLIOTECA DI ALESSANDRIA


IL CAIRO - Il sito dell´antica biblioteca di Alessandria, risalente a sedici secoli fa e forse il più antico centro di studi del mondo, è stato riportato alla luce da un´equipe di archeologi egiziani e polacchi. Lo ha annunciato il ministero egiziano del Turismo. Gli studiosi hanno ritrovato 13 sale attrezzate per ricevere 5.000 studenti, ha detto il segretario del Consiglio superiore del mondo antico, Zahi Hawwas. Le sale, che avevano dimensioni e sistemazioni interne simili, si trovano in prossimità di un teatro che era stato già riportato alla luce e che si ritiene sia appartenuto al complesso della biblioteca. Un auditorium a forma di U, costruito su un piano sopraelevato, era utilizzato per le conferenze. Tra i frequentatori del leggendario centro di studi anche Archimede ed Euclide. La nuova biblioteca di Alessandria è stata inaugurata nel 2002 non lontano dall´area di quella antica.

il potere dei papi

La Stampa Tuttolibri 15.5.04
Il potere temporale dei papi: la leggenda e la propaganda
Lo storico Vian ripercorre la donazione di Costantino e i rapporti fra il Trono e l'Altare, fino al '900
di Silvia Ronchey


L’influenza politica del papato di Roma non ha eguale nelle altre confessioni cristiane. Prova ne sia che catalizza l'ostilità musulmana più di ogni altra. Tre anni dopo la caduta di Costantinopoli, nel 1461, Enea Silvio Piccolomini, un avventuroso, disincantato, coltissimo intellettuale prestato alla politica ecclesiastica, propose al sultano Mehmet II «di convertirsi e di ricevere da lui la corona di Costantino». Enea Silvio era deluso dall'imperatore Federico III, di cui pure era stato segretario e al quale doveva la folgorante carriera che lo aveva portato al soglio pontificio con il nome di Pio II. L'impero tedesco era in quel periodo riottoso ad assecondare il suo progetto militare di salvataggio o parziale recupero nel seno di Pietro della civiltà cristiano-bizantina, dettato da una prospettiva geopolitica peraltro chiaroveggente, che vedeva nell'occupazione islamica del Mediterraneo orientale l'inizio di un insanabile e devastante scontro di civiltà. Ma con quale autorità Piccolomini, per cercare di attenuarne le conseguenze, avrebbe potuto attribuire il titolo di Costantino a colui che aveva usurpato nel sangue il trono di Costantinopoli? Paradossalmente, proprio in base alla leggendaria donazione con cui il primo imperatore cristiano-bizantino, al momento di trasferire la capitale dell'impero alla neofondata Costantinopoli, avrebbe conferito a papa Silvestro I la sovranità su Roma, il suo senato, le sue dignità e ogni regno estraneo alla sfera d'influsso di Bisanzio. In realtà, spiega Giovanni Maria Vian nel bellissimo libro intitolato appunto La donazione di Costantino, la formazione del potere temporale dei papi è un fenomeno storicamente inverso, non causa ma conseguenza del venire meno dell'autorità imperiale in Italia tra il V secolo e la metà dell'VIII, e non certo per una rinuncia di Costantino, all'apogeo della sua potenza. Inversione che basta a giudicarla "storicamente mitica". Sul carattere apocrifo della donazione non è stato in effetti mai necessario attendere l'opera, polemica quanto filologicamente esemplare, di Lorenzo Valla, il quale non trovò del resto particolare ostilità in Vaticano. Arnaldo da Brescia aveva denunciato il falso già nel 1152. I dubbi non erano e non sarebbero mancati mai, riguardo non solo alla sua autenticità ma anche alle modalità della sua invenzione. Che avvenne forse nelle cancellerie vaticane quando i longobardi stringevano i possedimenti pontifici da Nord e da Sud, consigliando alla Chiesa l'alleanza con Carlo Magno e la sua incoronazione a imperatore d'occidente. O forse proprio in ambiente ecclesiastico franco, poiché non fu mai chiaro a quale dei due poteri quell'incoronazione convenne. La leggenda narra che Costantino, malato di lebbra e pronto a mondarsi del suo male in una piscina di sangue di fanciulli sgozzati, secondo gli empi consigli dei sacerdoti capitolini, fosse fermato da Silvestro e consegnato alla "piscina della grazia" con un battesimo che subito lo guarì - anche se in realtà sarebbe avvenuto venticinque anni più tardi, sul letto di morte. La conversione avrebbe portato alla legittimazione del culto cristiano, poi divenuto religione di stato, ma soprattutto alla dichiarazione del primato di Roma sulle altre sedi vescovili e infine alla donazione. Grande illustrazione di questa leggenda sono mosaici e affreschi dell'XI e XII secolo eseguiti a Roma, soprattutto nella loggia del Laterano e ai Santi Quattro Coronati, dove l'iconografia della cerimonia enfatizza nei simboli il primato del papa sul sovrano. Dice bene Vian: a Roma la donazione non è solo "una storia di testi, ma anche di splendida propaganda artistica". Dando conto della polemica mai sopita tra costantiniani e illuministi sino alla fine del potere temporale dei papi, Vian non trascura il contesto internazionale ma privilegia la storia d'Italia: la più segnata dalla donazione, in quanto fonte di legittimità del potere temporale del papato. Da Napoleone a Pio VII, ma soprattutto da Gioberti a Cavour fino ai Patti Lateranensi e al "Tevere più largo" di Spadolini, da Roncalli a Montini fino a Luciani e Wojtyla, la storia d'Italia e dei "papi non più re" viene ripercorsa e rivisitata, e ogni sua ideologia riesumata e sottoposta a una puntuale, autoptica, ostinata revisione, e la dialettica tra pensiero laico e cattolico illuminata, grazie all'indomita filologia di Vian, da più di una rivelazione.

Joan Mirò

La Stampa Tuttolibri 15.5.04
JOAN MIRO’ Il calligrafo del cielo stellato
di Marco Vallora


GRANDE, grandissimo Mirò. Proprio perché sempre libero, arioso, nocchiere superbo ed insieme umìle dei propri grandiosi «vuoti» dipinti, che sino alla sua scomparsa, quasi centenaria, veleggiarono spumeggianti sulle ciglia cedevoli e stupefatte delle pareti del mondo. Senza mai un intoppo fastidioso, un irrigidimento ideologico, una sclerosi del gusto, parola che i soloni della surrealtà spesso ostentano ancora di disprezzare. È questo, soprattutto, che stupisce in lui, se lo si compara ad altri maestri del moderno, che invece hanno subito inciampi e cadute vertiginose nella torpida vecchiaia, irrigimentata o mercantile (basterebbe pensare a Max Ernst l'onirizzato, o talvolta a Derain e soprattutto a Chagall). Mirò no. Da buon metafisico e meditatore orientale, da calligrafo del cielo dipinto-stellato, non smette mai di rigenerarsi e di snellire i propri commerci con la realtà ed i dialoghi generosi con il proprio inconscio. Un subconscio altamente bambino, che non vuole, bretonianamente o freudianamente, sapere, insegnare, indottrinare. Lasciatemi «sporcare» quella parete, sembra ripetere ogni volta, palazzeschianamente, questo palombaro di nuvole dell'immaginario e di un formicolante pre-conscio, narrativo ed insieme poetico. Perché, come capita in questa bella rassegna parigina para-cronologica e musicale, senza troppa zavorra documental-filologica, per lasciar meglio staccare da terra questi aerostati in forma di tela, a materializzarsi sono come dei frammenti vaganti d'una lunga trama di stoffa interiore, che ogni tanto l'immaginario felice di Mirò «stacca» e confeziona. E non importa che le tele debbano essere immensi tappezzamenti celesti, slacciati da ogni gomèna della realtà, oppure piccoli frammenti di juta, scritta dalla sua febbrile grafia onirica, senza indossare mai la museruola soffocante del Surrealismo. No, non ci sono rapporti di valore e tabelle di tonalità, in questo suo viaggiare libero e notturno, quietamente ventoso e sempre cordiale (quale lezione per i nostri astrattisti respiranti e anti-geometrici, i Licini e i Soldati, i Melotti e i Novelli!). Così come non ci sono gerarchie di arti alte o minori, nobili od applicate. E se non sapessimo come vanno le cose delle arti, e le leggi inesorabili del far mostre, potremmo anche scegliere la via della benevolenza e pensare che Como abbia pensato di partire proprio là dove finiva Parigi, mostrando intanto e soprattutto l'ultimo periodo del maestro di Barcellona, quello più lirico e «scritto» (su cui curiosamente il Pompidou un po' troppo sorvola). Ma poi in particolare, Como, la città della seta, abbonda festosa in ceramiche, arazzi, affiches e tessuti (ovviamente molto più facili da ottenere) però non è il caso questa volta di storcere il naso, perché Mirò è grande («fare questa serie come d'un sol fiato») ogni volta che il suo polso-mentale si piega a sfiorare una superficie, una qualsivoglia «stoffa», sforbiciata dall'inesauribile pezza della sua fantasia. Ecco: chissà perché già dire «sforbiciato» suona termine troppo rude e violento, per quella sua lievità gentile e parigina. Talvolta ci si può domandare, sbagliando, come un artista così aereo e sopra-celeste possa fuoriuscire dalla tradizione scura e penitenziale dei Cervantes, degli El Greco, di Goya, insomma essere spagnolo. Ma è un errore, ovviamente, intanto perché Mirò sta piuttosto dalla parte cristallina dei Pedro Salinas, degli Azorin, dei Planetts e di Lorca e d'un musicista disincarnato come Mompou, poi non dimentichiamo quanta ferocia gongoresca ci sia pure in lui, anti-franchista ed anarcheggiante. E non solo nei suoi primi, feroci, ritratti di famiglia, «crudele opera di dissezione», quasi cubisteggiante, per dirla con lo studioso Roland Penrose (amico di Picasso, da cui Mirò si sentiva talvolta distaccato e polemico). Anche in certe sue partiture astratte, burrascose e martellate (ma lui non ama la parola astratto e prende le distanze dal «concreto», diciamo così «pelato», di Arp e Brancusi) per esempio la Ballerina che ascolta l'organo in una cattedrale gotica, o Gente nella notte guidata dalle tracce fosforescenti delle lumache, l'Interno Olandese I (che è un ovvio sfottò al gelido neo-plasticismo di Mondrian, ritornando verso le stanze musicali di Steen e von Ostade, ma popolandole di bruchi alla Bosch) oppure la Scala della fuga, così poco alla Klee, ci si rende conto che l'ispanità di Mirò risale molto più a monte degli scurori di Zurbaran e Velazquez. Verso le tracce prestoriche delle sculture iberiche od i resti dell'arte romanica catalana, tanto amata. E così si spiegano le anatomie poli-occhiute, i «capitipèdes», ovvero le sue teste pluri-piedate, le almanaccate «mitologie» della sua calligrafia celeste. Unico precetto «quello di Jarry, che si sia in queste tele un grande humour e grande poesia».

venerdì 14 maggio 2004

alessitimia

Yahoo Notizie - Adnkronos Salute Venerdì 14 Maggio 2004, 18:40
Salute: 16% Italiani Non Trova Parole Per Spiegare Emozioni


Roma, 14 mag (Adnkronos Salute) - Sedici italiani su cento non trovano le parole per spiegare le loro emozioni. E non sanno dire come e perche' stanno male. Colpa dell'alessitimia, questo il nome scientifico del disturbo. A descriverlo sono i medici internisti italiani, riuniti al congresso Fadoi, in corso a Roma. ''L'alessitimia - spiega il professor Dario Manfellotto, Dirigente del Centro dell'ipertensione dell'ospedale Fatebenefratelli Isola Tiberina di Roma - e' presente nel 55% dei pazienti colpiti da ipertensione, con una percentuale che cresce con l'aumento della pressione arteriosa. Ma a soffrire di questo disturbo e' anche il 33% dei malati psichiatrici. Considerando la popolazione italiana nella sua totalita', il dato piu' preoccupante e' che l'alessitimia interessa 16 persone su cento''. Manfellotto, che ha condotto uno studio sul rapporto ipertensione-alessitimia, presentato al Congresso, afferma anche che questa malattia crea grandi problemi nei pazienti che non riescono a spiegare al medico i loro disturbi e quindi cominciano le terapie piu' tardi. I soggetti con alessitimia vedono aumentato il rischio di conseguenze anche gravi. Uno studio americano ha evidenziato che un soggetto con alessitimia colpito da infarto chiede aiuto piu' tardi rischiando maggiormente la vita. Al congresso Fadoi si e' anche parlato della depressione che si nasconde in corsia. Sono stati presentati i risultati di uno studio pilota condotto in Sicilia - coordinato dal professore Salvatore Di Rosa e condotto dal dottor Salvatore La Carrubba di Palermo - che ha interessato tremila pazienti, ricoverati in 32 divisioni di Medicina Interna. I dati definitivi, presentati al Congresso, hanno evidenziato che i soggetti maggiormente depressi al momento del ricovero nelle divisioni di medicina interna sono donne, anziani e pazienti affetti da malattie cerebrovascolari. Non sono emerse significative differenze tra ospedali grandi e piccoli. Lo studio e' attualmente in fase di follow-up: si stanno controllando i pazienti, a distanza di tempo dalla dimissione. Si vuole conoscere lo stato di salute di questi pazienti per valutare se la depressione e' legata a un peggioramento delle malattie preesistenti o all'insorgenza di nuove patologie. (Red-Ife/Adnkronos Salute

storia:
chi fu veramente Nerone, ricordato come il folle e feroce persecutore dei cristiani...

Il Gazzettino 14.5.04
NERONE. DUEMILA ANNI DI CALUNNIE E FALSITÀ


Con grandi strombazzamenti è annunciato per il 23 e il 24 maggio il kolossal televisivo "Nerone", prodotto dalla Lux, che andrà in onda su Rai Uno. Dalle anticipazioni, piene zeppe di errori anche puerili, si può star certi che si tratta della solita "patacca" che segue, sia pur con qualche aggiustamento, la "leggenda nera" di questo imperatore.
Sono tali e tante le fandonie e le sciocchezze circolate su Nerone che per smentirle tutte ci vorrebbe un libro. Io l'ho scritto, nel 1993, e si intitola "Nerone. Duemila anni di calunnie".
Cominciamo dalle più grosse. Non fu Nerone a incendiare Roma. Nessuno storico serio, né antico né, tantomeno moderno, lo ha mai sostenuto. Da quell'incendio, che fu casuale, Nerone, che si appoggiava soprattutto sul favore della plebe, aveva solo da perdere perché l'imperatore di Roma era considerato comunque il nume tutelare della città. È vero invece, come ammette lo stesso Tacito, che Nerone si impegnò con tutte le sue forze per domare l'incendio guidando personalmente i soccorsi con operazioni degne di una moderna protezione civile. E ricostruì Roma, che era una selva di pericolanti grattacieli in legno, in pietra ignifuga e secondo un piano che è il primo piano urbanistico organico per una grande città dell'antichità. Nerone non perseguitò i cristiani in quanto tali. In fatto di religione era tollerantissimo, secondo la migliore tradizione romana. Il fatto è che i cristiani, che allora erano dei fanatici estremisti, ebbero la cattiva idea di gioire per l'incendio (per loro Roma era Sodoma) e alcuni di metterci anche una manina per attizzarlo meglio. Per quello che le autorità avevano qualche ragione di ritenere un atto terroristico (il più grave di tutti i tempi), dei circa 3000 cristiani presenti a Roma ne furono inquisiti 300, un terzo venne assolto, gli altri condannati. Nel resto dell'Impero nessun cristiano fu toccato. Non si trattò quindi di una persecuzione religiosa.
Nerone non uccise, ubriaco, la moglie Poppea, incinta, con un calcio nel ventre. Nerone amava teneramente la moglie e desiderava ardentemente un figlio. Un atto autolesionista del genere è inimmaginabile in un uomo che - si vada a vedere la Domus Aurea - aveva una concezione solare e serena della vita.
E si potrebbe continuare. Ma il punto non è nemmeno questo. La realtà è che Nerone fu un grande uomo di Stato. Durante i quattordici anni del suo regno l'Impero conobbe un periodo di pace (due sole guerre, risolte più con l'appeasement che con le armi) di prosperità, di dinamismo economico e culturale, quale non ebbe mai né prima né dopo di lui. La sua politica si sviluppò su tre direttrici. Un riequilibrio sociale fra la classe dei senatori, proprietari di terre grandi come province e che non volevano far nemmeno la fatica di governare (Nerone li accuserà, in un famoso discorso, di "assenteismo"), la plebe diseredata e i cavalieri, vale a dire i mercanti, i banchieri, i finanzieri, che costituivano il ceto emergente e di cui Nerone favorì il dinamismo. La creazione, utilizzando i liberti, di una efficiente burocrazia che costituirà, sino alla sua caduta, l'ossatura dell'Impero.
Fu infine l'artefice di una arditissima rivoluzione culturale con la quale intendeva dirozzare i romani e indirizzarli verso la mentalità e i costumi ellenistici molto più civili e raffinati. Uomo colto dai gusti sceltissimi, quasi barocchi, portò nell'anfiteatro, al posto dei massacri fra gladiatori, la musica, la poesia, il teatro, il balletto: ci avrebbe infilato anche il cinema se fosse esistito. In questo quadro va intesa anche la sua partecipazione personale, come citaredo e come attore che avvenne comunque solo dieci anni dopo l'inizio del suo rinnovamento culturale. Che tutto ciò sia definito "arte degenerata" da un contemporaneo come Tacito è comprensibile, ma che almeno questo non sia apprezzato da una sensibilità moderna è sorprendente

antidepressivi

una segnalazione di Sergio Grom

Repubblica 14.4.05
In Italia i farmaci del "sistema nervoso" sono al quarto posto tra le classi di medicinali pagati dal Ssn. Oggi le cifre nel convegno all´Istituto Superiore di Sanità
Pillole della felicità, è record allarme per bimbi e adolescenti
Antidepressivi, boom di prescrizioni: in 2 anni consumi quintuplicati
Il mercato degli psicofarmaci è arrivato a 25 dosi giornaliere ogni mille abitanti
(ma.re.)


ROMA - Vi sentite depressi? Niente paura, basta una pillola e tornerete a vedere tutto rosa. Siete ansiosi? Nessun problema, esistono farmaci miracolosi. Malgrado gli appelli di molti farmacologi, il mercato marcia a gonfie vele. E coinvolge anche bambini e adolescenti.
Il punto sulla situazione verrà fatto oggi, nella sede dell´Istituto Superiore di Sanità. Nel corso del convegno, organizzato dalla Farmacap, l´agenzia delle farmacie comunali, ricercatori, psicologi e docenti universitari illustreranno il rapporto tra "i farmaci e la salute mentale". Comunque le cifre parlano chiaro. In Italia i farmaci del «sistema nervoso centrale», come vengono chiamati dagli esperti, sono al quarto posto tra le classi di medicinali pagati dal Sistema sanitario nazionale. Vanno alla grande gli antidepressivi di seconda generazione, pubblicizzati come meno tossici, ma che danno effetti collaterali devastanti: aumento di peso corporeo, diabete e dipendenza. E non basta. Malgrado le scarse prove raccolte sull´efficacia e la non nocività dei nuovi farmaci su bambini e adolescenti, la prescrizione di antidepressivi continua a crescere. Dal 2000 al 2002 il consumo è aumentato di cinque volte, complici anche le prescrizioni "allegre" di molti medici. I nuovi prodotti agiscono sulla "serotonina", che diminuendo provocherebbe la depressione. Ma sugli effetti collaterali i dubbi aumentano con il passare dei mesi: primo fra tutti quello di favorire comportamenti autolesionistici, fino al suicidio. A nulla sembra servire l´allarme lanciato dagli esperti. I risultati sono preoccupanti: nel 2003 il 6.4 per cento della popolazione italiana ha fatto uso di antidepressivi, mentre è salito a 25 dosi giornaliere per mille abitanti il consumo nazionale di psicofarmaci. E se in Italia le percentuali di bambini con forme depressive sono attorno al 2 per mille, negli Stati Uniti le statistiche del Mental Health Institute parlano del 2.4 per cento della popolazione in età evolutiva e dell´8.3 degli adolescenti. E nel 2000 oltre un milione hanno fatto uso di psicofarmaci. Tutti medicinali «off label», ossia non sperimentati sui bambini e quindi senza alcuna sicurezza scientifica sugli effetti collaterali e l´efficacia terapeutica.

Repubblica 14.4.05
L'INTERVISTA
Le accuse del direttore dell´Istituto Mario Negri di Milano
Garattini: "Ricette troppo facili senza pensare ai gravi rischi"
Si è scoperto che venivano nascosti gli studi negativi sui bambini
Negli anziani questo tipo di medicine porta a un pericolo di ictus tre volte superiore
di MARIO REGGIO


ROMA - «Gli ansiolitici vengono usati spesso senza ricetta medica con la compiacenza di alcuni farmacisti per controllare le malattie psicosomatiche, dimenticando che portano alla dipendenza. Gli antidepressivi di seconda generazione sono stati pubblicizzati senza rendere noti i gravi effetti negativi, tradendo la fiducia dei medici e dei pazienti».
Le accuse del professor Silvio Garattini, direttore dell´Istituto Mario Negri di Milano, sono pesanti.
Vuol essere più preciso?
«Molti dimenticano che gli ansiolitici hanno effetti collaterali e soprattutto inducono una particolare forma di dipendenza, per cui quando si smette il trattamento compaiono disturbi che sono peggiori di quelli per i quali si è assunto il farmaco. Gli antidepressivi vengono utilizzati non solo per curare la depressione, una grave malattia che richiede una terapia, ma per alleviare stati depressivi che dipendono dalle circostanze della vita, come la morte di una persona cara, una difficoltà economica. Casi che richiedono un aiuto psicologico e non farmaci».
Lei parla di psicofarmaci di seconda generazione.
«Una formula che implica un concetto migliorativo: più efficace e meno tossico, in accordo con una campagna promozionale e pubblicitaria condotta con grande scaltrezza e dovizia di mezzi. Mezzi resi disponibili dai considerevoli guadagni dovuti all´alto costo di questi prodotti. Purtroppo anche il prezzo alto ha il suo fascino su medici e pazienti: "se costa di più, vuol dire che sarà meglio"».
Ma è così?
«Alcune recenti conoscenze gettano molti dubbi sulle ottimistiche prospettive. È vero che i nuovi farmaci antipsicotici danno probabilmente meno "effetti motori" rispetto ai vecchi, ma la propaganda non ha mai fatto sapere che i nuovi prodotti provocano l´aumento di peso, con la relativa crescita dei rischi di malattie cardiovascolari e diabete. Negli anziani, nei casi di perdita di memoria accompagnata da disturbi comportamentali, non solo non danno benefici, ma provocano un rischio di ictus tre volte superiore ed il raddoppio delle possibilità di decesso».
C´è dell´altro?
«Per quasi tutti questi farmaci, forse un po´ meno per la fluoxetina, l´interruzione del trattamento deve essere graduale, per evitare disturbi depressivi che richiedono la ripresa della terapia».
Creano problemi anche a bambini e adolescenti?
«Le conseguenze sono ancora più gravi. Nonostante i dubbi che si dovrebbero avere nel prescrivere psicofarmaci ai bambini che sono in fase di sviluppo, le prescrizioni sono numerose. Si è scoperto che venivano pubblicati solo gli studi positivi, mentre quelli negativi venivano nascosti, perché, come ad esempio è riportato in un memorandum della società produttrice della "paroxetina", "avrebbero peggiorato il profilo del farmaco". Alla fine si ottengono risultati che mostrano non solo l´inefficacia, ma addirittura un peggioramento per quanto riguarda la tendenza al suicidio. E questo vale per la paroxetina, setralina, citalopram e venlafaxina. La mancata pubblicazione dei dati negativi, una pratica non rara, configura gravi responsabilità che vanno denunciate».

nel tempo delle biotecnologie: cambia, la nascita?

Repubblica 14.5.04
COME CAMBIA LA NASCITA NELL'ERA DELLE BIOTECNOLOGIE


ROMA - «Nascere nell´era delle biotecnologie», è il tema principale dell´ultimo numero di Richard e Piggle (sottotitolo "Studi psicoanalitici del bambino e dell´adolescente"), la rivista diretta da Vincenzo Bonaminio che pubblica Il Pensiero Scientifico. Ieri sera la rivista è stata presentata presso la Fondazione Olivetti di Roma, con interventi delle psicoanaliste Paola Marion e Malde Vigneri, della ginecologa Isabella Coghi, del filosofo e bioetico Sebastione Maffettone. I relatori hanno sottolineato come la recente approvazione al Senato della discussa legge sulla fecondazione assistita richiami l´attenzione sull´effetto che le innovazioni tecnologiche hanno sulla psicologia degli individui.

giovedì 13 maggio 2004

la rassegna dei film di Marco Bellocchio a Roma

IL MESSAGGERO, 12.5.2004 - Pag. 45 cronaca di Roma
BELLOCCHIO, LA STORIA DI UN ALTRO ITALIANO
di Francesco Alò


Buongiorno Bellocchio, il regista che ha cambiato il cinema italiano. Parte oggi alla SalaTrevi Alberto Sordi (Vicolo del Puttarello, 25; tel 066781206) una retrospettiva completa della sua filmografia che terminerà il 22 maggio quando verrà proiettato il diciottesimo lungometraggio Buongiorno notte (2003). La organizza il Centro Sperimentale di Cinematografia, dove il piacentino Bellocchio studiò da regista. Nella sala d'essai romana intitolata a Sordi, geniale autore di una storia dell'italiano medio, arriva la storia di un altro italiano che in 40 anni di pellicole, polemiche, dogmi e ripensamenti ha tracciato un percorso personale e collettivo altamente significativo. Dalla rabbia giovane che lo portò a far uccidere al suo protagonista la madre Italia nell'esordio antiborghese I pugni in tasta (1965) alla pacificazione dell'intellettuale riflessivo che associa alla figura di Aldo Moro qualla di un padre (la scelta dell'attore Roberto Herlitzka nel ruolo di Moro fu motivata dalla somiglianza con il padre del regista) che Bellocchio sogna passeggiare per una Roma deserta, libero dalla follia omicida di figli confusi e rabbiosi. Dalle pellicole a tesi con cui attaccava l'istituzione cattolica (Nel nome del padre, 1972), l'esercito (Marcia trionfale, 1976) e il cinismo dei mass-media (Sbatti il mostro in prima pagina, 1972), all'invincibilità laica del sorriso del protagonista de L'ora di religione (2002), dove l'ironia prende il posto dell'indignazione. Bellocchio regista, intellettuale e militante in continuo movimento. Dalle collaborazioni con l'altrettanto imprendibile Silvano Agosti (Matti da slegare - Nessuno o tutti, 1975; splendido manifesto del pensiero psichiatrico di Basaglia), al rapporto di amore e odio con Nanni Moretti, passando per il difficile cinema autoanalitico elaborato con lo psicanalista Massimo Fagioli (quattro film "insieme": da Diavolo in corpo a Il sogno della farfalla). La definizione di lui più bella forse l'ha data il figlio Piergiorgio (in sala come soggettista, attore e produttore di un grande film di guerra problematico e bellocchiano: Radio West) quando l'ha descritto come "il regista del cambiamento". Perché un vero artista, prima di inventare il mondo, deve essere sempre in grado di reinventare se stesso.

pesce e schizofrenia

Repubblica Salute 13.5.04
PRIMO PIANO
Il buonumore nasce in cucina, decisivi carboidrati e pesce
Un pasto ricco di amidi e povero di carni favorisce la produzione di serotonina, molecola antidepressiva. Il deficit di acidi "omega 3" può indurre schizofrenia


Ciò che mangiamo può influenzare l'umore e l'attività mentale? Potrebbe apparire una domanda esagerata, ma non lo è. Sono sempre più numerosi gli studi che documentano una influenza del cibo e dello stato dell'intestino sul cervello. Una linea di indagine riguarda la serotonina, nota molecola antidepressiva, sintetizzata a partire dall'aminoacido triptofano.
L'anno scorso Richard J. Wurtman, direttore del Centro di ricerche cliniche del Massachusetts Institute of Technology, sull'American Journal of Clinical Nutrition, ha ulteriormente dimostrato che la composizione di un pasto, se a prevalenza di carboidrati o di proteine, influenza la quantità dell'aminoacido triptofano disponibile per la sintesi di serotonina cerebrale. Sono oltre trent'anni che lo scienziato americano studia questo argomento reiterando le medesime conclusioni: a causa della competizione con altri aminoacidi abbondanti nella carne, il triptofano passa nel cervello in quantità superiori se il pasto è ricco di carboidrati e povero di proteine.
Ma la serotonina non sta solo nel cervello. Anzi, quasi il 95 per cento di tutta la serotonina del nostro organismo viene prodotto dalle cellule cromaffini dell'intestino, dove regola i movimenti e l'attività digestiva e, al tempo stesso, serve come segnale al cervello: segnali positivi, come la sazietà, o negativi, come la nausea.
Recentemente, Michael Gershon ha proposto una spiegazione della concomitanza di problemi intestinali e disordini depressivi. La serotonina circolante - scrive su Reviews in Gastroenterological Disorders - va tenuta sotto controllo perché un suo eccesso può risultare molto pericoloso (shock anafilattico), per questo le cellule hanno elaborato sistemi di riassorbimento della molecola. In caso di infiammazione intestinale si produce un eccesso di serotonina che satura i sistemi di riassorbimento e desensibilizza i recettori: ciò può causare un blocco della peristalsi con costipazione. Da altri studi sappiamo che l'infiammazione attiva enormemente l'enzima che demolisce la serotonina e quindi si può avere, nel tempo, a livello cerebrale, un forte deficit della molecola con conseguente depressione. Infiammazione, alterazione intestinale e depressione possono essere manifestazioni dello stesso processo.
Sempre in tema di depressione, gli anni recenti hanno messo in primo piano il ruolo del pesce. Alcuni studi controllati, di cui si è già scritto su Salute, hanno mostrato l'efficacia dell'aggiunta di olio di pesce al trattamento antidepressivo standard. Altri recenti studi, sull'animale, dimostrano che la somministrazione di acidi grassi polinsaturi della serie omega-3, ben presente nel pesce, riducono i livelli di cortisolo (da stress) e il comportamento ansioso, al contrario della somministrazione di acido arachidonico, polinsaturo, serie omega-6, derivato dalla carne.
A proposito del pesce, è tornata alla ribalta l'idea che possa esserci una componente nutrizionale della schizofrenia. O, meglio, che la correzione di un deficit nutrizionale di acidi omega-3, nel quadro di una dieta povera di zuccheri e grassi saturi, possa migliorare la sintomatologia. L'inglese Malcolm Peet, dell'Università di Sheffield, in una recente review, riassume gli esiti degli studi al riguardo. In tutto 5, controllati con placebo, di cui 4 hanno dimostrato che la somministrazione di acido eicosapentenoico (EPA), acido grasso a catena lunga che si trova abbondante nell'olio di pesce, è superiore al placebo nella riduzione dei sintomi tipici della schizofrenia. (f. b.)

psichiatria ed elettrochoc

segnalato da Marco Lucchetti

Repubblica 13.5.04
Lettere
La psichiatria e il tabù dell´elettrochoc
CORRADO AUGIAS


Caro Augias, sono uno "psichiatra di campagna" passato da una realtà romana a una di provincia altrettanto difficile; il tutto all'interno del Servizio sanitario nazionale. Apprezzo il suo interesse per la psichiatria, perciò sottolineo quella che a mio avviso è una pericolosa generalizzazione così riassumibile: la psichiatria in Italia non va bene perché la riforma non è stata bene applicata. È una parte della verità, non tutta, che ignora un'evidente realtà: anche in psichiatria, come in ogni branca della medicina, ci sono meccanismi sconosciuti, dunque casi incurabili. Se così non fosse non ci sarebbero centinaia di modelli psicoterapeutici e migliaia di farmaci e noi psichiatri faremmo tutti le stesse cose.
Il problema sono proprio i casi incurabili la cui caratteristica è spesso la non consapevolezza della malattia. Chi sostiene che questo drammatico ostacolo alle cure sia superabile con opportune tecniche è in malafede e spaccia illusioni. Chi non sa di essere malato non può essere curato se non contro la sua volontà: la collettività si assume così la drammatica responsabilità di intervenire violando la libertà dell'individuo per il suo bene, curandolo suo malgrado con un "Trattamento sanitario obbligatorio". A volte si riesce, a volte si fallisce. La normativa italiana finge con ipocrisia forse ideologica che i fallimenti non esistano e abbandona la loro gestione a familiari disperati e a operatori spesso impotenti.
L'abolizione dell'ospedale psichiatrico (che non necessariamente è un "manicomio") è una peculiarità tutta italiana, nessun altro avendoci seguito. Comporta l'abolizione (e l'abbandono) di una fascia di malati non guaribili che nessuno, per legge, può curare più che tanto.
Fare questo discorso è considerato disdicevole ma è soprattutto doloroso per chi è in buona fede e ha anche la convinzione di essere di sinistra: è doloroso perché ancora non si può fare senza essere bollati di fascismo, come fasciste sono anche certe cure. Ho visto coi miei occhi migliorare pazienti altrimenti irrecuperabili con un trattamento elettro convulsivante: devo fare autocritica come ai tempi della "banda dei quattro" di Pechino o devo smettere di considerarli strumenti utili per non tradire l"ortodossia"
Lo vede lei un gastroenterologo dare del nazista a un suo collega perché invece di curare coi farmaci un'ulcera gastrica ritiene più utile in quel caso un intervento chirurgico?

Luciano Delzotti, Roma
delzot51@liberoadsl.it


Questa lettera non è politicamente corretta, al contrario va decisamente contro la dottrina prevalente in Italia. La sua evidente onestà, basata su un'esperienza d'ospedale, la rende conturbante proprio perché controcorrente. Quando, grazie all'insegnamento della "nuova psichiatria", i "manicomi" sono stati aboliti, abbiamo anche tolto di mezzo l'ospedale psichiatrico. Per di più non abbiamo mai finito di completare quella rete di presidi che avrebbero attutito l'impatto di una riforma radicale e repentina.
Il risultato sono le tragedie di cui ogni tanto si legge nelle cronache. Non entro nel merito degli argomenti per manifesta incompetenza, tanto meno sulla cura "elettroconvulsivante" che, se capisco bene, sarebbe l'elettrochoc. So solo questo: il problema esiste, nessuno se ne cura, è una delle vergogne nazionali.

un libro

ricevuto da P. Cancelliri

nutrimenti newsletter 12 maggio 2004  
Mio padre è un chicco di grano
Luana De Vita


Nel maggio del 1978 il Parlamento approva la legge 180, nota come legge Basaglia. Una legge nata con l‘obiettivo di restituire una dignità ai malati mentali e di chiudere definitivamente i conti con l‘istituzione manicomio, affidando a strutture territoriali il destino dei malati. Ma chi ha vissuto in prima persona questa vicenda sa che non è andata così. Molte famiglie sono rimaste sole e impotenti a fronteggiare le continue emergenze del rapporto con un malato mentale. Luana De Vita è una donna come tante, una delle tante che hanno vissuto sulla propria pelle la delega delle responsabilità da parte delle istituzioni. "Mio padre è un chicco di grano" è la storia autobiografica di una battaglia dura e aspra, contro l‘indifferenza, spesso l‘arroganza di molti psichiatri, contro l‘ottusità della burocrazia, contro il cinismo e la mancanza di sensibilità di molti impiegati delle strutture sanitarie. Ma è soprattutto il racconto vero, forte, a tratti spietato, di un rapporto difficile, quello di una figlia con il proprio padre malato: una storia di corse affannose e di sveglie notturne, di ricoveri e violenze, di risentimenti e ostilità, la storia di un amore intenso a tal punto da trasformarsi a volte in odio.

mercoledì 12 maggio 2004

il pensatoio di Repubblica
nazismo irrazionalità normalità

una segnalazione di Sergio Grom

Repubblica 12.5.04
MA NOI NON SIAMO VITTIME
Un saggio sulle radici delle atrocità della shoah
Se vogliamo dare un senso alla parola pace bisogna allargare la comunità morale ed estendere i diritti
L'autrice, Marcella Ravenna, è figlia di un deportato ad Auschwitz Gli stessi orrori si ripetono quando il gruppo dominante esclude l´"altro"
di UMBERTO GALIMBERTI


Leggo, riportato da Marcella Ravenna, autrice di Carnefici e vittime. Le radici psicologiche della Shoah e delle atrocità sociali (Il Mulino pagg. 396, euro 24) che «un numero imprecisato di prigionieri talebani nel tragitto fra Kunduz e la prigione di Sheberghan sono stati ammassati in grandi container sigillati e lasciati sotto il sole a morire asfissiati. Tutti gli operatori per i diritti umani e funzionari afgani confermano di aver ascoltato la stessa versione dei fatti», peraltro riportati da Repubblica il 19 agosto 2002 in un articolo dal titolo «Afghanistan una guerra sporca. Gli Usa lasciarono sterminare migliaia di prigionieri».
Marcella Ravenna, figlia di un deportato ad Auschwitz a cui sterminarono tutta la famiglia, accosta questo episodio ad altre atrocità analoghe, verificatesi in epoca nazista, e si domanda come mai, in contesti diversi, con motivazioni diverse, con ideologie diverse, o addirittura senza neppure bisogno di ideologie, succedono le stesse cose, ossia la sospensione delle norme che generalmente inducono le persone a non danneggiare altri esseri umani e a prestare loro aiuto in caso di bisogno e di necessità. Se avesse potuto, l´autrice avrebbe raccontato anche le torture nella prigione irachena di Abu Ghraib.
Follia collettiva? No. Esclusione, maltrattamento, atrocità ed eccidi non dipendono dall´irrazionalità o dalla psicopatologia di chi li attua, ma da una serie di processi psicologici «normali» che caratterizzano il modo in cui le persone funzionano nella vita sociale ordinaria. Così, ad esempio, nessuno può vivere se non raggiunge un adeguato concetto di sé che gli psicologi chiamano «identità». L´identità, a sua volta, si costruisce attraverso il riconoscimento che uno ottiene. Hegel arriva a dire che mentre gli animali uccidono per alimentarsi, gli uomini uccidono per essere riconosciuti. Per «onore» quindi, per salvaguardare la propria «identità», non per fame.
E come i bambini, misconosciuti in famiglia o a scuola, si associano in bande per trovare nel cerchio ristretto di appartenenza il riconoscimento della loro identità, così particolari contingenze storiche e sociali possono attivare analoghi processi sociopsicologici in grado di trasformare le condizioni di disagio vissute da una popolazione in ostilità nei confronti di altri gruppi. Se poi su tali sentimenti di ostilità intervengono ideologie o forme di propaganda il passo a considerare legittimo l´uso della forza, fino agli esiti estremi e alle atrocità più incredibili, il passo è non breve, brevissimo.
Si comincia da piccoli con l´esclusione dalla comunità morale degli animali a cui non si riconosce alcuna affinità psicologica, per cui è possibile attuare nei loro confronti quel processo di esclusione che li visualizza come esseri inferiori, quando non addirittura come oggetti d´uso da sfruttare a proprio vantaggio. Passare poi dagli animali, agli stranieri, ai barboni, ai vecchi, ai malati di mente, agli zingari, agli ebrei e non di rado anche alle donne, non è difficile quando è innescato il meccanismo che separa il gruppo di appartenenza (In Group), da cui si attende il riconoscimento della propria identità, dagli altri gruppi (Out Group) che vengono esclusi dalla comunità morale, per ragioni che vanno dall´ideologia alla religione, dall´appartenenza di genere a quella etnica, dal colore della pelle all´età, alle capacità cognitive, agli stili di vita.
Basterebbe questo per chiudere tutte le scuole private, non perché promuovono o bocciano, ma perché «separano», perché coloro che le frequentano provengono e cementano un gruppo di appartenenza che porta inevitabilmente con sé delle procedure di esclusione che, nei momenti drammatici della storia, producono effetti che, quando non sono di atrocità, sono di indifferenza, menefreghismo, egoismo, perché a suo tempo non si è avuta la possibilità di sperimentare il «diverso» come «prossimo tuo».
La scuola pubblica, ritrovo delle differenze, questa opportunità la offre. Ed educarsi alla frequentazione del diverso è la prima condizione che dispone psicologicamente a intendersi con chi non è nato nella stessa culla dove siamo nati noi. Questa disposizione psicologica eviterà in seguito di escludere dal proprio universo morale stranieri, avversari, membri di gruppi svantaggiati, e indurrà a riconoscere a loro gli stessi obblighi morali che sentiamo per i nostri familiari e amici.
Se vogliamo dare un contenuto concreto alla parola «pace», questo consiste nell´allargamento della comunità morale, in modo da considerare titolare di diritti non solo gli appartenenti al proprio gruppo con cui condividiamo alcuni orientamenti di fondo, ma tutti i «remoti» della terra da cui ci sentiamo psicologicamente distanti. Dove la distanza non è solo quella che ci separa dalla Cecenia, dall´Afghanistan o dall´Iraq, ma il pianerottolo che ci separa dal vicino di casa.
Voci nel deserto (Guerini & Associati, pagg. 262, euro 18) li chiama Pietro Kuciukian i giusti non armeni che, in occasione dei massacri del 1915, hanno salvato la vita di uomini, donne, bambini armeni che non rientravano nel loro gruppo di appartenenza, ma non erano esclusi dal loro scopo di giustizia. Tra i «giusti» rientrano anche i «testimoni» che non hanno taciuto, rincantucciandosi nel silenzio dell´indifferenza, ma hanno denunciato il genocidio, raccolte le prove che furono poi trasmesse ai figli e ai figli dei figli, fino a ottenere, alla fine del secolo scorso, il riconoscimento del genocidio armeno da parte di tutte le nazioni occidentali, con la sola esclusione della Turchia e di Israele.
Se il genocidio degli armeni e poi quello degli ebrei, degli zingari, degli omosessuali, dei malati di mente avvenuto nella Seconda guerra mondiale appartengono al passato, non appartiene al passato l´atteggiamento che assumiamo di fronte alle immagini televisive che ci fanno vedere profughi in fuga dai loro paesi per fame o per ragioni politiche, bambini africani che muoiono di fame o di Aids, cadaveri nei fiumi, volti contorti nello strazio e nella disperazione.
Spesso decidiamo consciamente di evitare queste informazioni, qualche volta non sappiamo neppure quanto escludiamo e quanto accettiamo. Il più delle volte assorbiamo tutto e restiamo passivi. E se il diniego politico è cinico, calcolato ed evidente, il nostro diniego, quello che si muove tra consapevolezza e inconsapevolezza, è disastroso, perché toglie ogni speranza a una possibile reazione e inversione del corso degli eventi.
Prima dell´ideologia, prima della propaganda è il linguaggio, quello che ognuno di noi ha a disposizione, il grande alleato del diniego che può essere letterale: «non è successo niente», «non c´è stato alcun massacro», «non sarebbe potuto succedere senza che noi lo sapessimo»; interpretativo: per cui la pulizia etnica si chiama «scambio di popolazioni», un massacro civile «danno collaterale», una deportazione «trasferimento di popolazione», una tortura «pressione fisica», una guerra «missione di pace». Oppure, ed è il più diffuso, il diniego può essere implicito e ciò avviene quando non si negano i fatti, si esclude solo che questi fatti interpellino proprio noi.
I bambini che muoiono di fame in Somalia, gli stupri di massa delle donne in Bosnia, i massacri di Timor Est, i senzatetto nelle nostre strade sono fatti riconosciuti, ma non sono percepiti come un elemento di disturbo psicologico o carichi di un imperativo morale ad agire. Il diniego implicito che qui scatta è lo stesso per cui, di fronte a un incidente stradale, i testimoni si dileguano, perché «il fatto non ha niente a che fare con loro» perché «ci penserà qualcun altro».
Ogni tipo di diniego comporta una falsificazione della nostra condizione psicologica. Nel diniego letterale non si vuol sapere ciò che si sa; in quello interpretativo si vuole evitare, attraverso una riformulazione di comodo dei fatti, di essere interpellati legalmente o moralmente; in quello implicito si visualizzano i fatti come estranei alla propria competenza, in modo da sentirsi esonerati da un pronto intervento. Per arrivare a queste conclusioni è necessaria una falsificazione del nostro apparato cognitivo (non riconoscere i fatti che si conoscono), emozionale (non provare sentimenti di fronte a fatti che li sollecitano), morale (non riconoscere nei fatti alcuna valenza di ingiustizia o di responsabilità), e di azione (non agire in risposta a quanto conosciamo).
Qui scatta quella che Marcella Ravenna definisce la «morale dell´appartenenza» che tende a difendere il gruppo familiare o comunitario e a ignorare tutto il resto. Ma oggi che i mezzi d´informazione ci fanno conoscere quanto accade in tutto il mondo, il persistere della morale dell´appartenenza non ci consente di vivere all´altezza del nostro tempo, se non a colpi di diniego, che può assumere o la forma dell´indifferenza per tutte le disgrazie che accadono lontano da noi, o la forma dell´insensibilità dovuta al fatto che fondamentalmente i miei bambini non muoiono e non moriranno di fame, e che io non sono stato né sarò cacciato da casa mia dopo aver visto mia moglie uccisa a colpi di machete.
Se non allarghiamo i confini della nostra comunità morale, e non estendiamo lo scopo di giustizia oltre il nostro gruppo d´appartenenza, il ruolo di carnefici e vittime, prima o poi finisce con l´invertirsi. E, se non siamo ciechi, già se ne vedono le avvisaglie.

serial killer

un comunicato ricevuto da Paola Franz

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI ROMA "LA SAPIENZA"

“Serial Killer: storie di ossessione omicida a confronto”: investigatori, psichiatri, sociologi, psicologi, scrittori e giuristi in un convegno per tracciare la vita privata dei “mostri”

Conferenza - 13 maggio - ore 9.00
“La Sapienza” – Facoltà Sociologia - Sala conferenze - Via Salaria 113 - Roma


Cosa hanno in comune Jack lo Squartatore, il mostro di Milwaukee e Donato Bilancia? In che modo persone così diverse, per tipologie ed epoche, possono considerarsi simili?
Sociologi, psicologi, psichiatri, investigatori e scrittori percorreranno nel convegno la storia dei 150 anni della criminologia: dalle teorie deterministiche del primo criminologo Cesare Lombroso, alla teoria ecologica di Chicago fino a quelle multifattoriali più recenti sulla definizione di “serial killer” .
Durante il convegno, organizzato dal dipartimento di Sociologia de “La Sapienza”, si analizzeranno specifici casi di alcuni assassini seriali. L’obiettivo è di mettere in luce la relazione tra la biografia dei “mostri” e l’efferatezza del loro modus operandi.

Seguirà un dibattito a cui interverranno:

Paolo De Nardis, docente di Sociologia - “La Sapienza”
Paolo De Pasquali, docente di Psicopatologia forense e Criminologia
Marco Strano, presidente dell’ICAA
Cinzia Tani, scrittrice
Davide De Caprio, avvocato penalista

www.uniroma1.it