Contro l'Euro
La sorte del dollaro si gioca a Pechino
Ibrahim Warde
La presenza in Europa, dal 21 al 25 febbraio, di George W. Bush ha«È la nostra moneta, ma il problema è vostro»(1). La celebre espressione di John Connally, ex segretario al Tesoro del presidente Richard Nixon, risale al 1971. Ma potrebbe venire applicata alla politica del dollaro della prima amministrazione di George W. Bush. I dirigenti statunitensi, preoccupati in primo luogo dalla «lotta al terrorismo» e dalla guerra in Iraq, si sono interessati poco alle grandi questioni economiche internazionali. Certo, hanno proclamato di essere legati alla moneta forte, soprattutto per non incitare gli speculatori ad attaccare il biglietto verde, ma nei fatti si sono affidati al «mercato» per meglio occultare la questione dei «deficit gemelli» (di bilancio e commerciale), che sono enormemente cresciuti.
mostrato la volontà del presidente americano di riavvicinarsi ai paesi membri
dell'Unione europea. Se le divergenze persistono, come quelle sull'Iran o sulle
vendite di armi a Pechino, la Casa bianca sa che deve venire a patti con i
dirigenti europei e cinesi. Gli orientamenti di questi ultimi determinano,
almeno in parte, i tassi d'interesse, il cambio del dollaro e l'appesantimento
del deficit commerciale Usa. D'ora in poi la Cina si propone di monetizzare al
meglio, compreso il piano diplomatico, il suo nuovo potere economico e
finanziario.
In materia di bilancio, l'amministrazione Bush ha ereditato degli attivi che sfioravano i 240 miliardi di dollari nel 2000. La recessione del 2001 (che ha provocato una diminuzione delle entrate fiscali), ma anche i ribassi massicci delle imposte approvati dal Congresso repubblicano (sulla base dell'ipotesi che gli attivi fossero diventati strutturali) e il nuovo aumento del bilancio di difesa e sicurezza interna che ha fatto seguito agli attentati dell'11 settembre, hanno trasformato questo surplus importante in un considerevole deficit, che soprattutto in un periodo in cui la crescita stava ripartendo, ha raggiunto 412 miliardi di dollari nel 2004, cioè il 3,6% del prodotto interno lordo (Pil). Parallelamente, il deficit commerciale, che non ha smesso di aumentare per tre anni consecutivi, ha toccato il record storico di 618 miliardi di dollari (5,3% del Pil), in aumento del 24,4% rispetto all'anno precedente.
Tutte le riunioni del G7 (Stati uniti, Giappone, Germania, Francia, Gran Bretagna, Canada, Italia) e altre grandi conferenze internazionali evocano la questione dei «deficit gemelli». Ma le soluzioni abitualmente previste per riequilibrare i conti degli Stati uniti implicano scelte dolorose (aumento delle imposte, calo delle spese militari, incoraggiamento del risparmio) che vanno in senso contrario rispetto ai grandi orientamenti politici dell'amministrazione Bush.
Gli Stati uniti comprano il 50% in più di quanto vendano all'estero.
E sono gli investitori internazionali che, attraverso le acquisizioni di buoni del Tesoro statunitensi, finanziano il livello di vita della prima potenza economica mondiale.
Questo aggiustamento attraverso il dollaro presenta il vantaggio di far ricadere i costi sul resto del mondo, perché significa attingere a una parte della crescita, dell'occupazione e del risparmio di altri.
Un dollaro anemico favorisce la competitività dei prodotti fabbricati negli Usa; rende l'acquisto di azioni statunitensi più attraente per gli investitori stranieri (visto che sono meno care) e svaluta il debito estero, stimato sui 3mila miliardi di dollari.
Non è cosa corrente nella storia che il guardiano della moneta di riserva sia anche il paese più indebitato. Nel 1913, la Gran Bretagna, al culmine della sua espansione imperiale, era contemporaneamente il principale creditore della terra; in seguito si è stremata durante un mezzo secolo per difendere in pura perdita, ma al prezzo di un indebolimento della sua potenza industriale, il valore della sterlina.
L'arma del dollaro basso, nuova versione di ciò che il generale de Gaulle chiamò un tempo il «privilegio esorbitante» degli Stati uniti (quello di battere una moneta di cui i paesi stranieri non reclamano la contropartita, dal momento che le loro banche centrali ce l'hanno come riserva) permetterebbe in teoria ai due deficit statunitensi, di bilancio e commerciale, di venire riassorbiti senza dolore.
A questa analisi sono venute ad aggiungersi considerazioni di carattere politico. Con l'avvicinarsi delle elezioni del novembre 2004, i sondaggi indicavano che una maggioranza di elettori considerava il senatore John Kerry più adatto a realizzare il risanamento economico del paese.
Il voto si annunciava molto combattuto, il presidente Bush aveva un enorme bisogno di buoni dati sulla crescita e l'occupazione. Solo un dollaro sottovalutato gli avrebbe permesso di raggiungere questi risultati (2).
Tuttavia, è nelle settimane che hanno fatto seguito alla rielezione del presidente che la caduta del dollaro, già ben avviata, ha conosciuto una forte accelerazione. Nel corso del mese di dicembre del 2004, il dollaro ha battuto quasi ogni giorno nuovi record al ribasso, per raggiungere alla vigilia di Natale il livello storico di 1,35 dollari per un euro. Complessivamente, tra il 2002 e il 2004, il biglietto verde ha perso il 20% del valore rispetto all'euro. Le previsioni di fine anno, rituali e non sempre affidabili, hanno rivelato un consenso tra banchieri ed economisti: il 2005 avrebbe segnato un crollo ancora più spettacolare della moneta statunitense.
Chi sostiene l'opulenza Usa Vari fattori permettono di capire questo pronostico. La riconferma di George W.Bush lascia presagire che sia l'avventurismo in politica estera che il lassismo di bilancio proseguiranno. Tanto più che il presidente, malgrado un margine modesto di voti nella rielezione (tre punti in più del suo rivale), ha dichiarato di aver ricevuto un «mandato» per intraprendere delle riforme ad un tempo audaci e costose. E si è detto pronto a «intaccare il proprio capitale politico» per realizzare misure controverse, per esempio la parziale privatizzazione del sistema federale delle pensioni (che in un primo tempo costerà varie centinaia di miliardi di dollari al Tesoro statunitense) (3).
La sfiducia nel dollaro si spiega anche con lo scacco della politica di riduzione del deficit estero «attraverso il mercato». Il dollaro debole dovrebbe favorire gli esportatori statunitensi e penalizzare gli importatori. Ma questa politica, piuttosto che portare a un riequilibrio dei conti, ha contribuito a far crescere i deficit, che hanno sottolineato le fragilità strutturali dell'economia statunitense. Gli operatori finanziari ne hanno concluso che il dollaro non era ancora abbastanza basso. Alcuni suggeriscono persino che, per dimezzare il deficit commerciale, la moneta statunitense dovrebbe perdere il 30% in più e non valere che 0,55 euro...
Di qui l'inquietudine di chi possiede il biglietto verde e in particolare delle banche centrali che fino a questo momento avevano sempre sostenuto il dollaro. Nel 2003, le banche centrali hanno finanziato l'83% del deficit corrente statunitense, assorbendo senza cambiarli i biglietti verdi acquisiti in contropartita degli acquisti degli Stati uniti all'estero. Per esempio, gli averi in dollari delle banche centrali asiatiche avrebbero raggiunto ormai i 2 mila miliardi di dollari.
Perché la Cina, il Giappone e altri paesi hanno accumulato tanti attivi in una moneta che perde valore? Per il fatto che hanno voluto impedire l'apprezzamento delle rispettive divise sui mercati dei cambi, cosa che sarebbe avvenuta se avessero cambiato i biglietti verdi eccedenti. Questi paesi hanno in questo modo privilegiato la competitività delle loro esportazioni. E poiché hanno investito questi dollari in obbligazioni del Tesoro statunitense, hanno contemporaneamente contribuito a mantenere negli Usa dei tassi di interesse molto bassi.
Al termine di questo strano ciclo, i deficit commerciali statunitensi finanziano... l'indebitamento degli Stati uniti e la bassissima propensione al risparmio dei suoi cittadini.
Ma in risposta al crollo del dollaro, un certo numero di banche centrali ha deciso di ridurre gli acquisti di dollari a vantaggio di altre monete, l'euro in particolare.
Questa svolta strategica è spiegabile: subire qualche perdita per favorire le vendite all'estero è una cosa, fare le spese di uno sbandamento continuo è un'altra. Il 19 novembre, Alan Greenspan, il presidente della Federal Reserve, ha creato scompiglio ricordando che gli investitori esteri un giorno si stancheranno dell'accumulazione dei deficit e che una «perdita di appetito per gli attivi in dollari» è inevitabile (4).
Qualche giorno dopo, Yu Yongding, membro del comitato monetario della banca centrale cinese, ha indicato che la Cina non aveva «diminuito la parte relativa delle proprie riserve di cambio conservate in buoni del Tesoro Usa, ma non il loro montante assoluto, per premunirsi contro la debolezza del dollaro». Questa tendenza è stata confermata da un sondaggio realizzato presso 67 banche centrali, elaborato da Central Banking Publications: nel corso degli ultimi quattro mesi del 2004, più dei due terzi degli istituti interrogati hanno diminuito, nei rispettivi portafogli, la parte relativa del dollaro (che resta enorme, vicina al 70% del totale, ma una trentina di anni fa era dell'80%). Per Nick Carver, uno degli autori dello studio, «l'entusiasmo delle banche centrali per il dollaro sembra raffreddarsi. Gli Stati uniti non devono più contare su un loro sostegno incondizionato» (5). Anche i paesi produttori di petrolio che dirigono una buona parte dei loro acquisti verso la zona euro, non sono contenti di vedere il rialzo dei corsi della loro materia prima ampiamente intaccato dal calo del valore della moneta in cui viene fatturata. Tra l'altro, alcuni stati arabi temono che un giorno o l'altro i loro averi negli Stati uniti vengano congelati in nome della lotta al terrorismo.
La politica di cambio è una scienza inesatta che rigurgita di effetti perversi. Al di là di una determinata soglia, gli effetti negativi di una svalutazione prendono il sopravvento sui vantaggi. I dirigenti statunitensi, incapaci di frenare il crollo della loro divisa, scoprono che l'arma del dollaro potrebbe rivoltarsi contro di loro. Gli Stati uniti, per mantenere il valore della propria moneta hanno bisogno di un apporto quotidiano di 1,8 miliardi di dollari. E quando la credibilità cede, il dollaro cessa di essere semplicemente «il problema degli altri». L'anticipazione di un indebolimento continuo può in effetti scatenare delle reazioni a catena: gli investitori esteri reclamano rendimenti più alti per acquisire o conservare dollari, o per sottoscrivere dei buoni del Tesoro. Più il rischio di un calo è alto, più questo premio, sotto forma di tassi di interesse, deve essere alto. Ma un forte rialzo dei tassi ha degli effetti preoccupanti sugli investimenti e sui consumi, in particolare negli Stati uniti dove l'acquisto a credito è più diffuso che altrove. Ci sarebbe per esempio un rischio di crollo del mercato immobiliare, finora favorito da tassi di interesse storicamente bassi. E l'intreccio tra i sistemi economici e monetari è tale che una recessione statunitense avrebbe conseguenze per l'economia mondiale.
L'Europa, e in misura minore il Giappone, si sono trovati quasi da soli a pagare il prezzo della caduta del dollaro. In Europa, il forte rialzo dell'euro è andato a vantaggio di pochi anche se il primo presidente della Banca centrale europea (Bce), Wim Duisenberg, aveva adottato l'emblema «un euro forte per un'Europa forte» (6). La prima parte di questo auspicio è stata realizzata... Ma adesso il suo successore, Jean-Claude Trichet, si lamenta del crollo «brutale» del dollaro, che ha gravemente colpito la produttività delle industrie del vecchio continente. Nel 2004, la crescita della zona euro è stata una delle più deboli al mondo. Gli ottimisti inveterati hanno tuttavia potuto intravedere un vantaggio dell'euro forte: la riduzione dell'impatto della fiammata dei prezzi del petrolio, negoziato in dollari. Nicolas Sarkozy, quando era ministro delle finanze francese, aveva per esempio affermato nel novembre 2004 che la sopravvalutazione della moneta dell'Unione «non è solo una sfortuna».
Dopo che la Cina ha ancorato nel 1994 la propria moneta (il renminbi, «moneta del popolo», nome ufficiale dello yuan) al biglietto verde, fa causa comune monetaria con gli Stati uniti. Il crollo del dollaro ha così permesso alla Cina di mantenere la propria competitività di fronte agli Stati uniti e di accrescerla nei confronti del resto del mondo. L'asimmetria dei rapporti sino-statunitensi colpisce: il deficit con la Cina ha raggiunto i 207 miliardi di dollari (più di un terzo del totale) (7). Negli Stati uniti, alcuni sono contenti per l'afflusso di prodotti a prezzi che sfidano qualsiasi concorrenza: il gigante della distribuzione Wal Mart, che è anche il più grosso datore di lavoro del paese, importa fino al 70% dei propri prodotti dalla Cina.
Ma un numero crescente di imprese, di lavoratori e di dirigenti politici statunitensi vedono in ciò una forma di concorrenza sleale e chiedono al governo di esigere che la Cina lasci fluttuare la propria moneta.
Vent'anni fa, la politica monetaria e commerciale di Washington era ossessionata dal Giappone, dalle sue esportazioni di automobili e di prodotti elettronici, dal corso dello yen...
La posizione ufficiale dei dirigenti statunitensi, più volte ribadita, è che lo yuan sarebbe sottovalutato del 40% e che la Banca centrale cinese dovrebbe intervenire con forza per regolare l'evoluzione della moneta cinese. La risposta di Pechino è ambigua: anche se il dibattito pare ben avviato nei circoli del potere, i segnali che ne provengono sono ancora contraddittori. Alcuni dirigenti assicurano che la Cina lavora per rendere più flessibili i propri mercati di capitali, con l'obiettivo di allentare, se non addirittura di sopprimere, l'ancoraggio fisso tra dollaro e yuan. Secondo il vice-primo ministro, Huang Ju, Pechino intende procedere a tappe «per riformare il regime di cambio dello yuan», ma senza però annunciare un calendario specifico, poiché si tratta prima di tutto di creare «un ambiente macro-economico stabile per stabilire un meccanismo di mercato e un sistema operativo sano».
(8) Altri scartano qualsiasi ipotesi di cambiamento di politica. Secondo Yi Gang, direttore del dipartimento di politica monetaria dell'istituto di emissione, Pechino proseguirà la propria «politica monetaria di un regime di tassi di cambio unificati e di fluttuazioni controllate» per «preservare la stabilità e promuovere la crescita dell'economia cinese». Il governatore della Banca centrale cinese, Zhou Xiaochuan, invitato ad esprimersi di fronte ai ministri delle finanze del G7, il 4 febbraio scorso, ha chiuso il dibattito, rifiutando di rispondere alla domanda che continua a tenere in agitazione i mercati.
Pechino, difatti, intende far valere il proprio diritto alla sovranità monetaria. I suoi tassi eccezionali di crescita (9,5% di media annuale tra il 1997 e il 2004) e il gigantesco potenziale di un mercato di 1,3 miliardi di abitanti, ne fanno un eldorado per tutte le multinazionali.
Il paese, diventato una vera e propria potenza economica, rappresenta ormai il 4% dell'economia mondiale, contro solo l'1% nel 1976. Alcuni ritengono che prima del 2020 la Cina peserà per circa il 15% della produzione della terra.
Più che la fabbrica del mondo, il paese vuole essere una locomotiva dell'economia internazionale, per non dire una vera e propria potenza tecnologica e scientifica. Si trova già al centro di tutte le questioni economiche, dalle delocalizzazioni, all'aumento dei prezzi delle materie prime, passando per la ripresa dell'economia giapponese.
L'acquisizione da parte del gruppo cinese Lenovo della divisione dei personal computer del gigante statunitense Ibm chiarisce quali siano le ambizioni di uno stato che ha già lanciato con successo più di 40 satelliti nello spazio e che prevede voli spaziali con persone a bordo ogni due anni, oltre a un programma lunare.
I dirigenti cinesi sono coscienti dei rischi che farebbe correre all'economia del paese una nuova situazione monetaria. I segnali di instabilità si moltiplicano: inflazione, speculazione immobiliare, debolezza del settore bancario, sottosviluppo dei mercati dei capitali.
Se teniamo conto della crescita delle ineguaglianze sociali e dell'assenza di democrazia, possiamo farci un'idea delle possibilità di un'esplosione politica (9). È comprensibile la prudenza delle classi dirigenti, preoccupate soprattutto di evitare un rallentamento improvviso della crescita, con conseguenze economiche e politiche incalcolabili, compresi i rapporti con gli Stati uniti. Difatti viene dimenticato troppo spesso che su numerose questioni sensibili: Iran, Corea del nord, Taiwan la Cina continua ad opporsi a Washington.
Dall'ossessione per il Giappone a quella per la Cina Tutti, salvo forse gli speculatori, si rendono conto che una gestione concertata delle monete è preferibile alla politica dell'ognuno per sé. La maggior parte delle analisi sulla situazione monetaria internazionale suggeriscono però una logica di scontro. È questione di «equilibrio del terrore monetario», di alleanza tra l'Europa e il Giappone per interventi comuni sui mercati dei cambi, oppure di «una grandissima alleanza» che opporrebbe la Cina e gli Stati uniti al resto del mondo, in virtù della quale gli Usa acquisterebbero alla Cina i prodotti, mentre la Cina finanzierebbe i deficit statunitensi (10). La possibilità che alcuni paesi trasformino in azione le loro minacce - che il Giappone ceda una parte significativa del proprio portafoglio di buoni del Tesoro statunitensi o che gli Usa prendano misure di ritorsione contro la Cina - periodicamente dà uno scossone agli operatori dei mercati finanziari.
Degli interventi concertati dei «quattro grandi» (Stati uniti, Europa, Cina, Giappone) possono frenare la speculazione e ridurre le turbolenze, sul modello dell'accordo del Plaza, che aveva segnato una svolta nelle relazioni monetarie internazionali. Il 22 settembre 1985, i ministri delle finanze e i governatori delle banche centrali dei paesi membri del G5 (Stati uniti, Giappone, Gran Bretagna, Francia, Repubblica federale tedesca) si erano riuniti in questo albergo di New York e avevano deciso che «era auspicabile un nuovo apprezzamento ordinato delle divise diverse dal dollaro». Avevano fatto sapere «che si tenevano pronti a cooperare più strettamente per incoraggiarlo, qualora apparisse utile». Questo linguaggio in codice fu il preludio a un calo coordinato del dollaro, sotto il controllo di James Baker, segretario al Tesoro del presidente Reagan (11). Ma oggi un accordo di questo tipo è poco probabile. Sia l'unilateralismo predominante che le diverse considerazioni «ideologiche» militano contro il principio stesso della concertazione. Ma, soprattutto, nessun dirigente economico attuale è in grado di svolgere il ruolo che allora aveva svolto Baker. Vent'anni fa il dipartimento del Tesoro godeva di un'influenza internazionale che oggi non ha più. Paul O'Neill, il primo titolare di questa carica scelto da George W. Bush, è stato in fretta licenziato, a causa della sua indipendenza. In un libro dove racconta la sua esperienza a Washington, descrive l'attuale presidente come ignorante delle realtà economiche e - con il suo gabinetto - «un cieco circondato da sordi» (12). Dalla guerra in Iraq, Bush, preoccupato dalle grandi crociate per la libertà, si interessa ancora meno a queste questioni pratiche...
La rielezione del novembre 2004 ha d'altronde rafforzato la preferenza di Bush a circondarsi solo di yes men. La qualità essenziale per una nomina politica sembra essere la lealtà, non la competenza. Il segretario al Tesoro, John Snow, è ecclissato nel processo di decisione dai consiglieri politici del presidente. Per quanto riguarda Alan Greenspan, a 79 anni ha intrapreso l'ultimo anno di presidenza della Federal Reserve. La battaglia per la successione è aperta. I pretendenti devono realizzare l'impossibile: ottenere la fiducia assoluta del presidente (che sceglie il titolare), che li obbliga a difendere con fervore delle scelte economiche difficilmente giustificabili, e al tempo stesso quella dei «mercati»! (13). Di fronte a questa sorta di vacanza del potere economico, quelli stessi che sono riusciti a «vendere» la guerra in Iraq e ad assicurare la rielezione del presidente, si sforzano di convincere il pubblico della sensatezza della politica di bilancio e finanziaria.
150 programmi governativi soppressi Dal 20 gennaio 2005, data ufficiale dell'entrata in funzione della nuova amministrazione Bush, i «deficit gemelli» fanno oggetto di un nuovo discorso e di una nuova strategia. La politica di indifferenza calcolata (benign neglect) di fronte al dollaro è andata troppo lontano; esiste davvero un rischio di caduta libera del biglietto verde. La riduzione dei deficit, viene affermato, non verrà più fatta attraverso la svalutazione del dollaro, ma grazie a una forte crescita, indotta a sua volta da nuovi cali delle imposte. Per il presidente Bush, «a lungo termine, il modo migliore per ridurre i deficit è di far progredire l'economia e per questo prenderemo delle misure per permettere all'economia americana di essere più forte, più innovativa e più concorrenziale».
Il deficit commerciale è ormai interpretato come il riflesso della relativa buona salute dell'economia statunitense. Non richiederebbe quindi un'attenzione particolare: tocca agli altri, agli europei in particolare, rilanciare a loro volta la crescita a casa loro attraverso cali delle imposte e politiche maggiormente propizie all'investimento.
Per John Snow, «il deficit commerciale riflette due cose: la nostra economia conosce un tasso di crescita rapido, più forte di quello dei nostri partner commerciali. Il reddito delle famiglie è in aumento, l'occupazione cresce, abbiamo un maggior reddito disponibile, una parte del quale viene utilizzato per comprare beni ai nostri partner commerciali» (14). Allo stesso modo, Alan Greenspan, che in un primo tempo aveva espresso preoccupazione di fronte all'ampiezza dei deficit, adesso fa il discorso opposto destinato a sostenere il dollaro: «l'accresciuta flessibilità dell'economia statunitense senza dubbio faciliterà un aggiustamento, senza conseguenze gravi per l'insieme dell'attività economica».
Come durante il primo mandato di Bush, la politica ufficiale consiste nell'affermare la necessità di una moneta forte, ma questa volta raramente gli atti puntano ad impedire un nuovo crollo del biglietto verde. Il 2 febbraio 2005, il comitato di politica monetaria della Federal Reserve ha portato il tasso di sconto al 2,5%. L'aumento del rendimento per i piazzamenti negli Stati uniti permette di sostenere il dollaro di fronte all'euro, nel momento in cui il consiglio dei governatori della Banca centrale europea, invece, mantiene il tasso di sconto al 2%.
Per quanto riguarda il bilancio, il presidente Bush riafferma l'intenzione di «dimezzare il deficit» attraverso una politica «di rigore», che deve estendersi a tutti i settori, escluse la sicurezza e la difesa (che otterrà 19 miliardi di dollari in più dell'anno precedente).
Il progetto di finanziaria per il 2006 riduce drasticamente o sopprime più di 150 programmi governativi, giudicati dall'amministrazione «inefficaci, ridondanti o non prioritari». I programmi sociali, in particolare quelli destinati ai bambini o ai poveri, sono dei bersagli, e il loro montante viene ridotto da un anno all'altro in valore assoluto.
Ma l'impalcatura finanziaria della Casa bianca si basa su ipotesi di fantasia ed esclude alcune tra le spese più costose. Le operazioni militari in Iraq e in Afghanistan, vero e proprio abisso per la finanza statunitense, vengono dimenticate (15). Così come i 754 miliardi di dollari in dieci anni, che rappresenta il costo minimo della privatizzazione parziale del sistema pensionistico.
Simultaneamente, l'amministrazione Bush e i suoi alleati parlamentari puntano su un aumento delle entrate, grazie a ... una diminuzione delle imposte. Il presidente statunitense ha quindi proposto di rendere permanenti le enormi diminuzioni delle imposte (dell'ordine di 1.800 miliardi di dollari) votate durante il suo primo mandato, con lo scopo di sostenere i consumi e la crescita. Nel 2004, le entrate fiscali rappresentavano soltanto il 16,3% del prodotto interno lordo, il livello più basso dal 1959, contro il 21% quattro anni prima, in un'epoca in cui il bilancio era ancora in eccedenza...
Secondo alcuni dirigenti, e non tra i meno importanti, è sempre più urgente ridurre le imposte che i deficit di bilancio. Per esempio, il vice-presidente Richard Cheney, che ora intende portare a termine le grandi riforme di politica interna, ne è convinto: «Ronald Reagan ha ben dimostrato che i deficit non hanno nessuna importanza» (16).
note:
* Professore associato alla Fletcher School of Law and Diplomacy (Medford, Massachusetts), autore di The Financial War on Terror, I.B.Tauris, Londra, 2005.
(1) Barry Eichengreen, Globalizing Capital: A History of the International Monetary System, Princeton University Press, 1996, p.136.
(2) Questo non gli impedirà di essere il primo presidente degli Stati uniti dopo Herbert Hoover nel 1932 a riprensentarsi mentre durante il suo primo mandato il saldo dell'occupazione è stato negativo.
(3) Se il progetto viene realizzato, i lavoratori potranno devolvere una parte delle trattenute sui salari alla costituzione di un capitale privato destinato alla pensione. Lo stato, privato di entrate, dovrà far ricorso al prestito per pagare le pensioni degli attuali pensionati (su dieci anni viene evocata la cifra di 754 miliardi di dollari).
(4) Larry Elliott, «Us risks a downhill dollar disaster», The Guardian, Londra, 22 novembre 2004.
(5) Mark Tran, «Move to euro hits Us finances», The Guardian, 24 gennaio 2005.
(6) Willem F. Duisenberg, «The first lustrum of the Ecb», discorso pronunciato nel corso dell'International Frankfurt Banking Evening, Francoforte, 16 giugno 2003: www.ecb.int
(7) David E.Sanger, «Us Faces More Tensions Abroad ad Dollar Slides», The New York Times, New York, 25 gennaio 2005.
(8) William Pesek Jr., «Dollar skeptics in Asia have prominent company», International Herald Tribune, New York, 3 febbraio 2005.
(9) Cfr. il dossier che Le Monde diplomatique/ il manifesto ha dedicato alla Cina, nel settembre 2004.
(10) Cfr. per esempio Eric Le Boucher, «La très grande alliance entre les Etats Unis et la Chine contre le reste du monde», Le Monde, 25 gennaio 2004; Pierre-Antoine Delhommais, «L'équilibre de la terreur monétaire», Le Monde, 5 gennaio 2005.
(11) Il dollaro, che era passato da 4,15 franchi nel primo trimestre del 1980 a 9,96 franchi nel primo trimestre del 1985, non valeva che 7,21 franchi nel primo trimestre del 1986 e 6,13 franchi nel primo trimestre del 1987. Rispetto al marco tedesco, i valori rispettivi furono 1,77 marchi, 3,26 marchi, poi 2,35 marchi e 1,84 marchi. Cfr.
per il valore del dollaro rispetto a 18 monete, trimestre per trimestre, dal 1972 al 2002, Jean-Marcel Jeanneney e Georges Pujals (a cura di), Les économies de l'Europe occidentale et leur environnement international de 1972 à nos jours, Fayard, 2005,
(12) Ron Suskind, The Price of Loyalty: George W.Bush, the White House, and the Education of Paul O'Neill, Simon and Schuster, New York, 2004.
(13)Paul Krugman, «The Greenspan Succession», The New York Times, 25 gennaio 2005.
(14) Elisabeth Becker, «Trade Deficit At New High, Reinforcing Risk to Dollar», The New York Times, 13 gennaio 2003.
(15) Diverse ipotesi di finanziaria vengono sottoposte separatemente al Congresso nel corso dell'anno. La più recente reclamava 81 miliardi di dollari, non contabilizzati nel bilancio, per finanziare la presenza statunitense in Iraq e in Afghanistan.
(16) Ron Suskind, op. cit.
(Traduzione di A. M. M.).