mercoledì 6 aprile 2005

sinistra
Bertinotti e il fronte antigovernativo

L'Unità 6 Aprile 2005
Bertinotti: «Va bene anche così»
«La partecipazione va favorita, ma sulle primarie la decisione spettava a Prodi»
Simone Collini

ROMA Parla della «primavera pugliese» quasi come fosse la primavera di Praga, lega il nome di Vendola a quello di Lula e Chavez. Però non è d’accordo con chi giudica una vittoria di Rifondazione comunista quanto accaduto con il voto di domenica e lunedì. «È la vittoria di un’idea di riforma della politica», spiega Fausto Bertinotti, che ribadisce di non voler fare il ministro in un governo dell’Unione e tanto meno, dice smentendo una voce circolata in queste ore, il presidente della Camera perché, ci tiene a sottolineare, «appartengo alla stagione della militanza fatta con spirito partigiano».
Onorevole Bertinotti, Prodi ha detto che non è più necessario fare le primarie.
«Appunto, è stato Prodi a proporle e Prodi a rinunciare. Io non ho altro da aggiungere».
Lei però si era candidato.
«Noi non le abbiamo chieste. Le abbiamo incoraggiate, questo sì. E continuo a pensare che l’esperienza pugliese ci dice che un sovrappiù di partecipazione democratica rispetto a quella che ordinariamente siamo in grado di produrre è un bene».
Quindi un po’ dispiaciuto che non si facciano le primarie dovrebbe esserlo, o no?
«Ci sono molte forme per far prevalere la partecipazione. Sulla leadership come sul programma, l’importante è che si metta a frutto la lezione della Puglia, che venga introdotta, in modo organico, la democrazia partecipata. Noi siamo del tutto disponibili a discutere le forme, i mezzi, gli ambiti in cui svilupparla».
Come giudica la vittoria di Vendola in Puglia?
«Un grande fatto politico, in sé, ma che costituisce anche l’annuncio di una possibilità. Quanto accaduto in Puglia, da un lato si inserisce nel complesso della crisi di consenso della destra e dell’affermazione dell’alternativa. Per un altro verso, però, è un fenomeno originale, siamo di fronte al dispiegarsi di una primavera pugliese. E dico primavera in senso forte, come è stato usato questo termine in altre occasioni e in altre parti del mondo ogniqualvolta è emerso un fenomeno che modifica profondamente i connotati stessi della politica».
In cosa vede queste modifiche?
«Intanto, nell’emergere della partecipazione democratica e di una nuova alleanza tra una leadership e un popolo. È un fenomeno che in qualche modo è simile alla rinascita della sinistra latinoamericana».
Il Prc chiederà elezioni anticipate?
«No, perché dobbiamo avere particolare cura per una certa deontologia istituzionale. Si è votato per dei governi regionali. Dopodiché, è del tutto evidente, come riconoscono gli stessi esponenti della destra, che vista l’estensione del crollo non si è trattato di un fenomeno circoscrivibile soltanto ai singoli governi locali. Ma questa è una considerazione politica. I cittadini sono stati chiamati al voto per eleggere il governo locale, e a questo bisogna attenersi».
La considerazione politica è fine a se stessa?
«No, perché il governo non ha più il consenso degli elettori. Le forze delle opposizioni oggi sono maggioranza assoluta nel paese. Cosa che non è accaduta neanche con la vittoria del ‘96, dove prevarremmo per la divisione tra Polo e Lega. Dunque lo scacco è particolarmente rilevante. Ma questo costituisce un problema per il governo, non per noi. L’opposizione non deve chiedere alcunché, deve fare il suo mestiere di opposizione, e su questa via proporsi di accentuare la crisi di governo, lavorando a rafforzare ulteriormente questa corrente di opinione che si è rilevata così netta nel paese, e parallelamente accelerando la costruzione di un programma di alternativa».
La vittoria di Vendola sposta l’asse della coalizione a sinistra?
«La vittoria di Vendola mostra che a guidare questa coalizione può essere l’espressione di una qualunque delle sue componenti, che non c’è il monopolio della rappresentanza e che quello che decide non è la collocazione nella geografia politica, ma il grado di rappresentanza autentica che si è in grado di esprimere».
Questo voto arriva dopo quella che alcuni definiscono la svolta governista del Prc, e il risultato è inferiore rispetto alle europee.
«Siamo un po’ indietro rispetto alle europee, ma avanziamo rispetto alle regionali del 2000. In questo, confermando una tendenza che è sempre stata la nostra, e cioè che andiamo meno bene nelle elezioni locali, nelle quali bisogna far valere il rapporto tra una linea politica e un consenso nel territorio. Il combinato disposto europee, regionali, vittoria di Vendola ci incoraggia comunque ad andare avanti su questa strada».

La Stampa 6.4.05
NON SONO INCOMPATIBILI COME QUATTRO ANNI FA: IL GOVERNO DEL CAVALIERE E LA POLITICA ESTERA DI BUSH HANNO RIDOTTO LE DIFFERENZE
La voglia di battere Berlusconi avvicina sempre più le due sinistre
di Riccardo Barenghi

LA notte elettorale del 1996, quando Prodi sconfisse Berlusconi e si aprì la stagione dell’Ulivo, quella notte fu contrassegnata dal tormentone di Bruno Vespa. Man mano che arrivavano i dati, l’assillo del conduttore era dimostrare che, senza Rifondazione, Prodi non avrebbe avuto i numeri per governare. Finché da Botteghe Oscure non intervenne D’Alema chiudendo la discussione con queste parole (più o meno): «Bertinotti o non Bertinotti, il dato politico è un altro: Berlusconi ha perso e Prodi ha vinto. L’Italia avrà un governo di centrosinistra». In quel momento aveva ragione il segretario dei Ds, due anni dopo avrebbe avuto ragione Vespa. Quando cioè Rifondazione uscì dalla maggioranza, Prodi cadde, gli subentrò D’Alema, cadde pure D’Alema e gli subentrò Amato che alla fine venne sostituito da Berlusconi che nel frattempo aveva vinto le elezioni. Quei voti di Bertinotti furono dunque decisivi, prima per Prodi e poi contro Prodi e tutti gli altri ex alleati.
La domanda che alcuni si pongono oggi, e che molti esponenti del centrodestra usano per provocare i vincitori delle regionali, è appunto come farà l’Unione a restare unita. Come cioè, ammesso che vinca anche le elezioni politiche, riuscirà a tenere insieme le idee di Bertinotti e quelle di D’Alema, le proposte di Pecoraro e quelle di Rutelli, l’antiamericanismo di Diliberto e l’atlantismo di Fassino. In parole povere, se esistano ancora le famose (o famigerate) due sinistre e se siano tra loro compatibili.
La teoria delle due sinistre (cara sia a D’Alema sia a Bertinotti, un’intesa per spartirsi il campo) nasce in realtà come teoria de «Le due destre», saggio di Marco Revelli per Bollati Boringhieri, datato appunto 1996. In cui la prima destra è quella di nome e di fatto, Berlusconi e i suoi alleati, «populista e plebiscitaria»; mentre la seconda destra, «tecnocratica ed elitaria», ha finito per sussumere anche la ex sinistra. Oppure, per essere più buoni di Revelli, non una destra ma una sinistra, magari moderata o di governo o riformista e via aggettivando ma pur sempre sinistra. L’incontro e soprattutto lo scontro tra questa sinistra e quella che adesso si chiama radicale ha contrassegnato la seconda metà degli anni novanta e l’inizio del nuovo millennio.
Due sinistre che si sono dimostrate incompatibili alla prova dei fatti, una sposava il libero mercato l’altra sosteneva l’intervento pubblico nell’economia; una metteva al primo posto il risanamento, l’altra pretendeva più spesa sociale; una faceva la guerra «umanitaria» in Kosovo, l’altra le si opponeva frontalmente; una apriva la strada al lavoro flessibile (e precario), l’altra chiedeva garanzie, diritti e posti fissi; una induriva la mano contro gli immigrati, l’altra voleva aprire le frontiere. Una infine che ha voluto il sistema maggioritario e puntava sul premierato, l’altra che amava (e ama) il proporzionale tanto quanto osteggia l’idea del premier forte.
Oggi queste due sinistre ci sono ancora e si vedono a occhio nudo. Ma forse – forse perché solo i fatti lo diranno, e i fatti si chiamano governo – non sono più tanto incompatibili. Intanto perché negli ultimi quattro anni qualcosa in Italia e nel mondo è accaduto. Per esempio ha governato Berlusconi, facendo cose che hanno convinto anche gli occhi più estremisti della sinistra che non si potesse più stare in finestra a guardare ma si dovesse fare qualsiasi cosa, anche appunto stringere un patto di sangue con l’altra sinistra, pur di sconfiggerlo. Oppure che sulla scena è arrivato Bush, poi il terrorismo islamico, dunque la filosofia della guerra preventiva e infine la guerra concreta, convincendo anche i più moderati della sinistra che da quella parte non si poteva stare. Oppure, ancora, che il capitalismo moderno non crea solo opportunità ma anche molti danni, tanto che lo stesso D’Alema un paio di anni fa ha aperto una riflessione autocritica sul neoliberismo. E anche che, tornando alla sinistra radicale, la questione del governo non sia più una sorta di tabù (vedi il caso Nichi Vendola). E qualsiasi dirigente politico, Bertinotti per primo, sa perfettamente che governare un paese non è una manifestazione né un pranzo di gala.
Passi avanti dunque, che convergono sull’ipotesi di rendere queste due sinistre compatibili ne sono stati fatti da una sinistra e dall’altra. Che tuttavia restano diverse, a volte anche divergenti, non solo nell’azione della politica ma soprattutto nell’ispirazione culturale che questa azione dovrebbe guidare. Resta da vedere se e come queste differenze anche profonde troveranno una loro composizione. La troveranno certamente nel mitico programma che prima o poi l’Unione riuscirà a partorire, ma i programmi si fanno e si disfano come nulla fosse. Non è affatto detto invece che riusciranno a trovarla quando saranno al governo, se mai ci saranno. Perché prima le due sinistre devono vincere le elezioni politiche, quasi come se fossero una sola.