Il Messagero Domenica 29 Giugno 2003
«E’ soltanto nel sogno il grande mistero della coscienza»
di Pietro M. Trivelli
IL CERVELLO è più grande del cielo, il cervello pesa quanto Dio: dice una poesia di Emily Dickinson. Ma l’intuizione artistica che anticipa le neuroscienze ha un titanico precedente in Michelangelo. Il Creatore che domina la Cappella Sistina sembra incorniciato dal profilo di un immenso cervello. Come lo vede l’occhio di un anatomista: nell’immortale gesto di due mani che si sfiorano, Michelangelo fa scattare, a quel contatto, la vita e la coscienza del mondo. Dal dito di Dio al dito di Adamo.
Sta proprio dentro il cranio, la coscienza, vera origine dell’universo? Per Aristotele la coscienza si nascondeva nei polmoni. Kant e Schopenhauer, meglio degli scienziati, intuirono che il mondo che percepiamo non è la realtà “in quanto tale”, bensì una costruzione della mente. «I paradossi sfidano la ragione, e qualche volta la aguzzano», dice il professor Giulio Tononi, neurobiologo, 42 anni, da dodici in America, cattedra di psichiatria all’università del Wisconsin. Sono ora raccolte in volume - Galileo e il fotodiodo (Laterza, 148 pagine, 12 euro) - le conferenze sulla “Natura della coscienza” da lui tenute al Policlinico Gemelli, per le “Lezioni italiane” della Fondazione Sigma-Tau.
Tra paradosso e fantascienza, Tononi immagina che Galileo sia posto di fronte a un fotodiodo, piccolo circuito elettrico a resistenza variabile, in grado di distinguere la luce e il buio. Galileo capisce che ciò non basta a dare “coscienza” allo strumento, e cerca un’altra spiegazione. Scopre che quell’incosciente del fotodiodo riconosce solo “acceso” o “spento”, mentre il cervello discerne miliardi e miliardi di sfumature e tonalità.
«E’ quel che succede non solo da svegli ma anche quando sogniamo, e il cervello ricrea l’universo nel sonno», spiega Giulio Tononi. «Tuttavia il sogno - aggiunge - lungi dall’essere lo specchio del mondo, è la prima dimostrazione che il cervello produce tutto ciò di cui siamo coscienti. Nel sonno senza sogni il mondo non esiste e scompare la coscienza. Mentre se il cervello si riprende e sogna costruisce un mondo che somiglia in modo straordinario a quello della veglia».
Si arriverà, forse, a clonare anche la coscienza? «No - assicura Tononi - la coscienza, diversa da individuo a individuo, non dipende dal contenuto genetico delle cellule cerebrali, ma da come queste sono interconnesse. E’ il risultato dell’evoluzione e dell’esperienza».
Coscienza come reminiscenza? «La coscienza - risponde ancora il giovane neurobiologo, riassumendo la sua teoria che supera ipotesi del passato - è il fenomeno fondamentale entro cui si distinguono memoria, attenzione, immaginazione, volontà. Tutte funzioni del cervello, nel teatro della coscienza: attiva (se, per esempio, ricordiamo i sette re di Roma), passiva (quando contempliamo il cielo) o coscienza di sé (interrogandoci su noi stessi). Ma la coscienza esiste indipendentemente dall’essere coscienti. Pur se non sappiamo perché alla scarica di neuroni che fa distinguere luce e buio corrisponda la “coscienza” di questa variazione».
Finalmente, si svela l’arcano? «Propongo una soluzione scientifica - precisa Tononi - che identifichi la coscienza con la “complessità”, con l’integrazione delle informazioni. Misurando questa integrazione vorrei dimostrare che le uniche strutture cerebrali di cui siamo a conoscenza, in grado d’integrare informazioni di qualità molto elevata, sono la corteccia cerebrale e il talamo su cui riposa: come un letto di neuroni , capaci d’integrare un’enorme quantità di forme, colori, suoni, odori, pensieri, emozioni , in una brevissima frazione di tempo».
La coscienza, come la vita, è solo un sogno? «Ciò che sogniamo è ciò che conosciamo - conclude Giulio Tononi - e ciò che possiamo conoscere è solo ciò che possiamo sognare». Forse è per questo che, nell’“oscuro laberinto” dell’universo (come lo chiama Galileo), il cervello umano visto di profilo somiglia a un punto interrogativo. Più grande del cielo, vicino a Dio.
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»
L'ASSOCIAZIONE CULTURALE
domenica 29 giugno 2003
sabato 28 giugno 2003
AMORE E PSICHE, l'orario estivo
DA DOMENICA 29 GIUGNO (COMPRESA) FINO A VENERDì 8 AGOSTO LA LIBRERIA
AMORE E PSICHE
osserverà il seguente orario:
lunedì 15.00-20.00
da martedi a sabato 10.00-20.00
domenica 12.00-22.00
Immagini e parole delle terre che raggiungerete vi aspettano da Amore e Psiche
AMORE E PSICHE
osserverà il seguente orario:
lunedì 15.00-20.00
da martedi a sabato 10.00-20.00
domenica 12.00-22.00
Immagini e parole delle terre che raggiungerete vi aspettano da Amore e Psiche
Modigliani
La repubblica Bari 28.6.03
MODÌ A BARI
Modigliani dipingeva sui volti dei suoi personaggi tagli neri a mandorla come se i globuli oculari fossero assenti
Il mistero degli occhi bui uno sguardo verso l´anima
In meno di vent´anni l´artista nato a Livorno nel 1884 ha eseguito circa 400 dipinti
Sintesi perfette e persino algide. Persone fatte di colori ma con spiccate individualità
Il motivo delle orbite vuote è stato ripreso dalle maschere e dalla scultura arcaica
di Carlo Alberto Bucci
La cecità è, dimostra Tiresia, attributo dei veggenti. Ma quei tagli a mandorla, neri o vuoti, che Amedeo Modigliani ritagliava sui volti dei suoi personaggi, alludono a qualcosa di diverso di uno sguardo avanti nel tempo. Piuttosto uno sguardo rivolto all´interno, come se l´occhio fosse rientrato per scoprire i segreti dell´inconscio.
Nel 1918 l´artista eseguì il ritratto del pittore Léopold Survage, che l´aveva ospitato a Nizza. E all´amico, stupefatto nel vedersi rappresentato con un occhio vivo e un altro accecato, Modigliani rispose: «Ti ho dipinto così perché con uno guardi il mondo, mentre con l´altro guardi dentro di te».
Sottolinea Marc Restellini, nel catalogo Skira della mostra attualmente allestita al Palazzo Reale di Milano, che Modigliani fece questa scelta (dell´occhio aperto e dell´altro vuoto) nei ritratti, in particolare, di scultori, scrittori e poeti: da Henri Laurens a Raymond Radiguet, a Beatrice Hastings. Come a dire che è prerogativa degli artisti il poter scendere con il proprio sguardo a sondare i più segreti recessi dell´Io.
Gli occhi, dunque, secondo l´antica formula, come specchio dell´anima. Sì, ma occhi bui. Sguardi ciechi. Orbite svuotate. Eppure capaci davvero di mettere in contatto la veduta di chi guarda, magari distrattamente, quella figura immortalata sulla tela, e lo sguardo penetrante che il "ritrattato accecato" riesce comunque a restituire.
Modigliani è un´artista toscano. È un pittore che a Parigi, dove giunge nel 1906 e dove muore 14 anni dopo, appena 36enne, si porta dietro, perché ce l´ha conficcata nelle mani, la sintesi della grande tradizione rinascimentale italiana. E Modì, il pittore che abbiamo condannato alla formula stereotipata di artista maudit, respira armonia classica anche quando si immerge completamente nel rigore e nella forza dell´arte primitiva; e anche quando entra in contatto con le sperimentazioni delle avanguardie storiche, e le novità della tecnologia, della capitale francese.
Modigliani non accetta la scomposizione proposta dal cubismo, quella visione contemporanea e sfaccettata della realtà spazio/tempo; certo non il cubismo analitico, ma neanche quello della sintetico. E non sopporta neppure la simualtaneità dei suoi conterranei futuristi, che nel 1912 sbarcano rumorosi a Parigi prendendo per applausi le critiche ricevute. Modigliani, diversamente da Umberto Boccioni, non guarda dalla finestra per cogliere la compenetrazione delle figure nel paesaggio con quelle del balcone. L´artista livornese, per di più, è assolutamente indifferente ai treni, alle auto e alle macchine della realtà moderna. Persino alla realtà tout court. La sintesi della scultura di Brancusi, e la potenza degli idoli scavati nel legno dagli africani, studiati al museo etnologico del Trocadéro di Parigi, sono i modelli di Modigliani.
In meno di vent´anni di attività l´artista nato a Livorno nel 1884 ha eseguito circa 400 dipinti. Molti nudi, solo dal 1917 tuttavia. E solo quattro paesaggi. Tutto il resto, una valanga di ritratti. Ossia il genere che prevede una grande contaminazione con la realtà umana che circonda l´artista. Eppure, davanti alla carne, Modigliani riesce nel difficile equilibrismo di dare corpo a idoli fatti di forma e colore, più che di abiti e pelle.
Sintesi perfette e persino algide di forme umane, le sue. Eppure, comunque, persone fatte di colori ma dotate di spiccata individualità. È al teatro, che pure amava, oltre che alla statuaria dei primitivi, che Modigliani ha strappato l´immagine della maschera per applicarla sui visi. E, con essa, ha portato e reinterpretato quel magnifico vuoto oltre il taglio degli occhi. Il profondo sguardo dell´arte.
MODÌ A BARI
Modigliani dipingeva sui volti dei suoi personaggi tagli neri a mandorla come se i globuli oculari fossero assenti
Il mistero degli occhi bui uno sguardo verso l´anima
In meno di vent´anni l´artista nato a Livorno nel 1884 ha eseguito circa 400 dipinti
Sintesi perfette e persino algide. Persone fatte di colori ma con spiccate individualità
Il motivo delle orbite vuote è stato ripreso dalle maschere e dalla scultura arcaica
di Carlo Alberto Bucci
La cecità è, dimostra Tiresia, attributo dei veggenti. Ma quei tagli a mandorla, neri o vuoti, che Amedeo Modigliani ritagliava sui volti dei suoi personaggi, alludono a qualcosa di diverso di uno sguardo avanti nel tempo. Piuttosto uno sguardo rivolto all´interno, come se l´occhio fosse rientrato per scoprire i segreti dell´inconscio.
Nel 1918 l´artista eseguì il ritratto del pittore Léopold Survage, che l´aveva ospitato a Nizza. E all´amico, stupefatto nel vedersi rappresentato con un occhio vivo e un altro accecato, Modigliani rispose: «Ti ho dipinto così perché con uno guardi il mondo, mentre con l´altro guardi dentro di te».
Sottolinea Marc Restellini, nel catalogo Skira della mostra attualmente allestita al Palazzo Reale di Milano, che Modigliani fece questa scelta (dell´occhio aperto e dell´altro vuoto) nei ritratti, in particolare, di scultori, scrittori e poeti: da Henri Laurens a Raymond Radiguet, a Beatrice Hastings. Come a dire che è prerogativa degli artisti il poter scendere con il proprio sguardo a sondare i più segreti recessi dell´Io.
Gli occhi, dunque, secondo l´antica formula, come specchio dell´anima. Sì, ma occhi bui. Sguardi ciechi. Orbite svuotate. Eppure capaci davvero di mettere in contatto la veduta di chi guarda, magari distrattamente, quella figura immortalata sulla tela, e lo sguardo penetrante che il "ritrattato accecato" riesce comunque a restituire.
Modigliani è un´artista toscano. È un pittore che a Parigi, dove giunge nel 1906 e dove muore 14 anni dopo, appena 36enne, si porta dietro, perché ce l´ha conficcata nelle mani, la sintesi della grande tradizione rinascimentale italiana. E Modì, il pittore che abbiamo condannato alla formula stereotipata di artista maudit, respira armonia classica anche quando si immerge completamente nel rigore e nella forza dell´arte primitiva; e anche quando entra in contatto con le sperimentazioni delle avanguardie storiche, e le novità della tecnologia, della capitale francese.
Modigliani non accetta la scomposizione proposta dal cubismo, quella visione contemporanea e sfaccettata della realtà spazio/tempo; certo non il cubismo analitico, ma neanche quello della sintetico. E non sopporta neppure la simualtaneità dei suoi conterranei futuristi, che nel 1912 sbarcano rumorosi a Parigi prendendo per applausi le critiche ricevute. Modigliani, diversamente da Umberto Boccioni, non guarda dalla finestra per cogliere la compenetrazione delle figure nel paesaggio con quelle del balcone. L´artista livornese, per di più, è assolutamente indifferente ai treni, alle auto e alle macchine della realtà moderna. Persino alla realtà tout court. La sintesi della scultura di Brancusi, e la potenza degli idoli scavati nel legno dagli africani, studiati al museo etnologico del Trocadéro di Parigi, sono i modelli di Modigliani.
In meno di vent´anni di attività l´artista nato a Livorno nel 1884 ha eseguito circa 400 dipinti. Molti nudi, solo dal 1917 tuttavia. E solo quattro paesaggi. Tutto il resto, una valanga di ritratti. Ossia il genere che prevede una grande contaminazione con la realtà umana che circonda l´artista. Eppure, davanti alla carne, Modigliani riesce nel difficile equilibrismo di dare corpo a idoli fatti di forma e colore, più che di abiti e pelle.
Sintesi perfette e persino algide di forme umane, le sue. Eppure, comunque, persone fatte di colori ma dotate di spiccata individualità. È al teatro, che pure amava, oltre che alla statuaria dei primitivi, che Modigliani ha strappato l´immagine della maschera per applicarla sui visi. E, con essa, ha portato e reinterpretato quel magnifico vuoto oltre il taglio degli occhi. Il profondo sguardo dell´arte.
il "Satiro danzante" a Roma ancora per una settimana
La Repubblica 28.6.03
Il "Satiro danzante" gratis per una settimana
Il "Satiro danzante" tornerà presto a "casa", in Sicilia. Prima però, di dare l´arrivederci a Roma, la statua ripescata cinque anni fa nel Canale di Sicilia potrà essere ancora ammirata, gratuitamente, dal pubblico nella sua ultima settimana di permanenza nella capitale.
La decisione è stata presa dal sindaco Walter Veltroni e dall´assessore alla cultura Gianni Borgna. Il "Satiro danzante", in esposizione nella Sala Orazi e Curiazi dei Musei capitolini, potrà essere visitato gratis dalle 9 alle 20 a partire da martedì 1 fino a domenica 6 luglio.
Il "Satiro danzante" gratis per una settimana
Il "Satiro danzante" tornerà presto a "casa", in Sicilia. Prima però, di dare l´arrivederci a Roma, la statua ripescata cinque anni fa nel Canale di Sicilia potrà essere ancora ammirata, gratuitamente, dal pubblico nella sua ultima settimana di permanenza nella capitale.
La decisione è stata presa dal sindaco Walter Veltroni e dall´assessore alla cultura Gianni Borgna. Il "Satiro danzante", in esposizione nella Sala Orazi e Curiazi dei Musei capitolini, potrà essere visitato gratis dalle 9 alle 20 a partire da martedì 1 fino a domenica 6 luglio.
il congresso dell´International Society for Adolescent Psychiatry a Roma
La Repubblica 28.6.03
Gli psichiatri e l´adolescenza, Un convegno a Roma
Se un ragazzo non si esprime forse merita maggiore attenzione di chi dichiara problemi
di Massimo Ammaniti
Ogni volta che ci accostiamo ai comportamenti degli adolescenti si ha spesso l´impressione che ci sfugga qualcosa: si tratta con ogni probabilità delle nostre maglie concettuali, che spesso sono dei pregiudizi, che non riescono a coglierne la complessità e la contraddittorietà, ma soprattutto la mutevolezza. In un recente dibattito sui Giovani e l´Europa i relatori, tutti adulti, si affannavano a trovare dei percorsi per facilitare la scoperta da parte dei ragazzi dell´Europa, come entità politico-amministrativa, dimenticando che per gli adolescenti i confini sono molto più labili, possono infatti dialogare a distanza con i giovani di tutto il mondo con le chat-line oppure possono attraversare i vari paesi europei con un biglietto ferroviario illimitato, l´InterRail, col quale incontrano giovani di paesi diversissimi, dormendo uno accanto all´altro, dentro al proprio sacco a pelo.
Ma queste difficoltà a mettere a fuoco il mondo degli adolescenti non riguardano solo gli adulti e i genitori, anche gli stessi psicologi e gli psicoanalisti sono costretti a riformulare le proprie teorie dell´adolescenza. Rileggendo oggi il famoso caso Dora, un´adolescente affetta da isteria trattata da Freud circa 100 anni fa, e che ha rappresentato un paradigma per gli sviluppi successivi della psicoanalisi dell´adolescenza, ci appare troppo lontano dall´esperienza degli adolescenti di oggi che vivono in un contesto familiare, sociale e tecnologico profondamente diverso.
Ancora una volta la sfida, potremmo dire concettuale, dell´adolescenza verrà raccolta dalle centinaia di clinici e studiosi di tutto il mondo che partecipano a Roma al Congresso dell´International Society for Adolescent Psychiatry che, iniziato giovedì, terminerà domani. Sfogliando il programma del Congresso, e come viene anche ribadito dal nuovo Presidente della Società Scientifica, lo psicoanalista italiano Enrico De Vito, si avverte lo sforzo di uscire fuori dai percorsi più tradizionali confrontandosi con le nuove frontiere del mondo degli adolescenti, che hanno a che fare, in primo luogo, con un corpo in via di trasformazione e che genera ansie di perdere il controllo di sé. Restrizioni alimentari devastanti, piercing e forme di automutilazione come i tagli ripetuti di parti del corpo, ingestione di alcol e di droga per modificare le sensazioni corporee rappresentano comportamenti tipici di questa fase che stravolgono i genitori, spesso incapaci di capire. E allora si ricorre al clinico che deve aiutare l´adolescente, ma non può trascurare lo sconcerto e le sofferenze dei familiari, che possono costituire una risorsa importante nel trattamento del giovane. Si tratta di realizzare trattamenti combinati, non solo l´aiuto psicoterapeutico all´adolescente ma anche ai familiari che vanno sostenuti in questa fase di transizione e se è necessario si possono utilizzare gli psicofarmaci, che possono modulare le risposte emotive che spesso sono eccessive e fuori misura.
E´ interessante che in una recente ricerca realizzata dall´Università di Roma siano emersi dei risultati piuttosto sorprendenti. Il campione era costituito da più di 1000 studenti dei Licei e dei Centri di Formazione Professionali, ossia con livelli culturali e sociali diversi che dovevano rispondere a dei questionari che valutavano il funzionamento emotivo e adattativo e l´immagine di sé. Si è visto che i ragazzi dei licei presentano maggiori problemi per quanto riguarda sintomi somatici oppure stati ansioso-depressivi e allo stesso tempo manifestano comportamenti aggressivi più accentuati. Ugualmente anche per quanto riguarda l´immagine di sé, rispetto alla famiglia, i giovani liceali mettono in luce maggiori problemi e conflitti. Una possibile ipotesi riguarda il fatto che i giovani liceali, che hanno avuto maggiori risorse familiari e culturali, siano maggiormente in grado di esprimere e riconoscere le proprie difficoltà, mentre i giovani che hanno avuto un percorso scolastico più travagliato mettano in atto dei meccanismi di difesa che tendono a negare e a silenziare le proprie difficoltà personali, forse perché hanno imparato che nessuno era in grado, intorno a loro, di ascoltarli e di prenderli in considerazione. Il grande privilegio in adolescenza è quello di poter esprimere se stessi, facendo emergere i conflitti e i contrasti che in alcuni momenti possono essere tumultuosi, ma che in definitiva aiutano a staccarsi dalla famiglia e a ricercare un proprio percorso personale. Gli altri ragazzi, ossia quelli provenienti da ambienti scolastici più limitati, assumono, invece, una postura difensiva rigida che riduce le possibilità di arricchimento personale e di elaborazione. Le implicazioni di questa ricerca sono molte, forse bisognerebbe prestare maggiore attenzione all´adolescente che non si esprime e che nasconde il proprio malessere rispetto all´adolescente, potremmo dire, difficile che si impone in virtù dei propri problemi.
Un´ultima considerazione sul fenomeno sempre più importante dei giovani immigrati, che provengono da paesi lontanissimi e cercano di inserirsi nel nostro paese. In una recente ricerca, realizzata sempre dall´Università di Roma, si è visto che nonostante le grandi difficoltà del viaggio e dell´inserimento questi giovani riferiscono che si trovano molto bene in Italia (41%), abbastanza bene (30%) e bene (25%). Un buon numero di questi giovani è in grado, nonostante il breve tempo di permanenza, di comprendere la lingua italiana (35%) e di parlarla (30%). Indubbiamente la scuola è per la maggior parte di questi giovani (61%) la grande occasione per entrare nel mondo culturale e sociale del nostro paese e quello che è più interessante è il fatto che il 26% ha già moltissimi amici italiani, il 21% molti e solo il 20% pochi.
Sono dati che fanno riflettere perché ci fanno vedere che durante l´adolescenza, nonostante le difficoltà di transizione all´età adulta, si hanno a disposizione grandi potenzialità: ci si guarda intorno con curiosità, si stabiliscono nuove relazioni, si entra in mondi diversi come è il caso degli adolescenti immigrati che sono in grado, spesso, di trovare una buona integrazione fra la propria appartenenza etnica e l´assimilazione della cultura del nuovo paese in cui ci si sta inserendo. Forse anche gli adulti potrebbero vivere meglio se riuscissero a mantenere delle caratteristiche proprie dell´adolescenza, in primo luogo la curiosità e l´entusiasmo, che forse eviterebbero atteggiamenti difensivi rigidi e discriminatori che sono alla base del razzismo e dell´intolleranza.
Gli psichiatri e l´adolescenza, Un convegno a Roma
Se un ragazzo non si esprime forse merita maggiore attenzione di chi dichiara problemi
di Massimo Ammaniti
Ogni volta che ci accostiamo ai comportamenti degli adolescenti si ha spesso l´impressione che ci sfugga qualcosa: si tratta con ogni probabilità delle nostre maglie concettuali, che spesso sono dei pregiudizi, che non riescono a coglierne la complessità e la contraddittorietà, ma soprattutto la mutevolezza. In un recente dibattito sui Giovani e l´Europa i relatori, tutti adulti, si affannavano a trovare dei percorsi per facilitare la scoperta da parte dei ragazzi dell´Europa, come entità politico-amministrativa, dimenticando che per gli adolescenti i confini sono molto più labili, possono infatti dialogare a distanza con i giovani di tutto il mondo con le chat-line oppure possono attraversare i vari paesi europei con un biglietto ferroviario illimitato, l´InterRail, col quale incontrano giovani di paesi diversissimi, dormendo uno accanto all´altro, dentro al proprio sacco a pelo.
Ma queste difficoltà a mettere a fuoco il mondo degli adolescenti non riguardano solo gli adulti e i genitori, anche gli stessi psicologi e gli psicoanalisti sono costretti a riformulare le proprie teorie dell´adolescenza. Rileggendo oggi il famoso caso Dora, un´adolescente affetta da isteria trattata da Freud circa 100 anni fa, e che ha rappresentato un paradigma per gli sviluppi successivi della psicoanalisi dell´adolescenza, ci appare troppo lontano dall´esperienza degli adolescenti di oggi che vivono in un contesto familiare, sociale e tecnologico profondamente diverso.
Ancora una volta la sfida, potremmo dire concettuale, dell´adolescenza verrà raccolta dalle centinaia di clinici e studiosi di tutto il mondo che partecipano a Roma al Congresso dell´International Society for Adolescent Psychiatry che, iniziato giovedì, terminerà domani. Sfogliando il programma del Congresso, e come viene anche ribadito dal nuovo Presidente della Società Scientifica, lo psicoanalista italiano Enrico De Vito, si avverte lo sforzo di uscire fuori dai percorsi più tradizionali confrontandosi con le nuove frontiere del mondo degli adolescenti, che hanno a che fare, in primo luogo, con un corpo in via di trasformazione e che genera ansie di perdere il controllo di sé. Restrizioni alimentari devastanti, piercing e forme di automutilazione come i tagli ripetuti di parti del corpo, ingestione di alcol e di droga per modificare le sensazioni corporee rappresentano comportamenti tipici di questa fase che stravolgono i genitori, spesso incapaci di capire. E allora si ricorre al clinico che deve aiutare l´adolescente, ma non può trascurare lo sconcerto e le sofferenze dei familiari, che possono costituire una risorsa importante nel trattamento del giovane. Si tratta di realizzare trattamenti combinati, non solo l´aiuto psicoterapeutico all´adolescente ma anche ai familiari che vanno sostenuti in questa fase di transizione e se è necessario si possono utilizzare gli psicofarmaci, che possono modulare le risposte emotive che spesso sono eccessive e fuori misura.
E´ interessante che in una recente ricerca realizzata dall´Università di Roma siano emersi dei risultati piuttosto sorprendenti. Il campione era costituito da più di 1000 studenti dei Licei e dei Centri di Formazione Professionali, ossia con livelli culturali e sociali diversi che dovevano rispondere a dei questionari che valutavano il funzionamento emotivo e adattativo e l´immagine di sé. Si è visto che i ragazzi dei licei presentano maggiori problemi per quanto riguarda sintomi somatici oppure stati ansioso-depressivi e allo stesso tempo manifestano comportamenti aggressivi più accentuati. Ugualmente anche per quanto riguarda l´immagine di sé, rispetto alla famiglia, i giovani liceali mettono in luce maggiori problemi e conflitti. Una possibile ipotesi riguarda il fatto che i giovani liceali, che hanno avuto maggiori risorse familiari e culturali, siano maggiormente in grado di esprimere e riconoscere le proprie difficoltà, mentre i giovani che hanno avuto un percorso scolastico più travagliato mettano in atto dei meccanismi di difesa che tendono a negare e a silenziare le proprie difficoltà personali, forse perché hanno imparato che nessuno era in grado, intorno a loro, di ascoltarli e di prenderli in considerazione. Il grande privilegio in adolescenza è quello di poter esprimere se stessi, facendo emergere i conflitti e i contrasti che in alcuni momenti possono essere tumultuosi, ma che in definitiva aiutano a staccarsi dalla famiglia e a ricercare un proprio percorso personale. Gli altri ragazzi, ossia quelli provenienti da ambienti scolastici più limitati, assumono, invece, una postura difensiva rigida che riduce le possibilità di arricchimento personale e di elaborazione. Le implicazioni di questa ricerca sono molte, forse bisognerebbe prestare maggiore attenzione all´adolescente che non si esprime e che nasconde il proprio malessere rispetto all´adolescente, potremmo dire, difficile che si impone in virtù dei propri problemi.
Un´ultima considerazione sul fenomeno sempre più importante dei giovani immigrati, che provengono da paesi lontanissimi e cercano di inserirsi nel nostro paese. In una recente ricerca, realizzata sempre dall´Università di Roma, si è visto che nonostante le grandi difficoltà del viaggio e dell´inserimento questi giovani riferiscono che si trovano molto bene in Italia (41%), abbastanza bene (30%) e bene (25%). Un buon numero di questi giovani è in grado, nonostante il breve tempo di permanenza, di comprendere la lingua italiana (35%) e di parlarla (30%). Indubbiamente la scuola è per la maggior parte di questi giovani (61%) la grande occasione per entrare nel mondo culturale e sociale del nostro paese e quello che è più interessante è il fatto che il 26% ha già moltissimi amici italiani, il 21% molti e solo il 20% pochi.
Sono dati che fanno riflettere perché ci fanno vedere che durante l´adolescenza, nonostante le difficoltà di transizione all´età adulta, si hanno a disposizione grandi potenzialità: ci si guarda intorno con curiosità, si stabiliscono nuove relazioni, si entra in mondi diversi come è il caso degli adolescenti immigrati che sono in grado, spesso, di trovare una buona integrazione fra la propria appartenenza etnica e l´assimilazione della cultura del nuovo paese in cui ci si sta inserendo. Forse anche gli adulti potrebbero vivere meglio se riuscissero a mantenere delle caratteristiche proprie dell´adolescenza, in primo luogo la curiosità e l´entusiasmo, che forse eviterebbero atteggiamenti difensivi rigidi e discriminatori che sono alla base del razzismo e dell´intolleranza.
venerdì 27 giugno 2003
"prima o poi il caldo passerà"...
La Repubblica Salute 26.6.03
"E per la salute mentale vanno evitati gli stress"
Il calore eccessivo può allentare le inibizioni e scatenare l’aggressività
di Pier Luigi Scapicchio*
Il caldo gli ha dato alla testa. Quante volte abbiamo sentito pronunciare questa frase? Tutti, a livello di semplice buon senso, sono convinti che il caldo influisca negativamente sul nostro equilibrio psichico. Effettivamente due eventi critici come il colpo di sole ed il colpo di calore presentano, nel loro quadro clinico, sintomi psichici di una certa gravità (agitazione psicomotoria, delirio, stato confusionale) che rafforzano questa convinzione comune. Ma il legame tra il caldo e la sofferenza psichica è più complesso di quanto sembri. Oltre al fattore termico in sé, che agisce direttamente sul cervello, come nel colpo di sole e nel colpo di calore, occorre considerare anche il ruolo di "stressor" aspecifico che assume il caldo eccessivo e l’influenza della stagione estiva sulla ciclicità di alcune gravi patologie psichiche.
Agendo come un potente fattore di stress il caldo è responsabile di comportamenti aggressivi e impulsivi tipici di ogni circostanza stressante, che allenta i nostri poteri critici, le nostre inibizioni, le nostre capacità di controllo rispetto a tutti gli stimoli ambientali negativi. In queste condizioni è assai più facile che si verifichino i cosiddetti raptus: la parola latina significa strappo e rende molto bene l’idea di una lacerazione che si verifica in un continuo esistenziale tranquillo o almeno ben compensato, che si scompensa per il peso di uno stress ambientale o personale insostenibile. Lo stress termico incide sull’equilibrio critico e comportamentale anche indirettamente, attraverso la perdita di sonno ed il sovvertimento dei nostri ritmi biologici. Dormire male non significa soltanto dormire poco ma anche subire un’alterazione della qualità del sonno che, per essere davvero ristoratore, ha bisogno di conservare la concatenazione delle sue fasi naturali, la cosiddetta architettura del sonno.
La stagione calda, che il corpo riconosce attraverso i suoi sensori biologici e non certo dalla lettura del calendario, rappresenta anche un fattore di vulnerabilità per importanti patologie cicliche legate alla stagionalità; non per tutti i soggetti è l’estate la stagione di maggior rischio, ma a chi rientra in tale categoria va prestata attenzione particolare proprio perché la terapie preventive sono modulate in funzione della variabile ambientale e non delle valutazioni cronologiche.
Gli accorgimenti per fronteggiare questi rischi sono molteplici ma si rifanno quasi esclusivamente ai noti precetti igienici per difendersi dal caldo in generale. Lo psichiatra può aggiungere qualche consiglio specifico, raccomandando di evitare il ricorso a tranquillanti e sonniferi, che peggiorerebbero la situazione astenica e aggiungerebbero così un’ulteriore "stressor" al caldo. E’ molto importante adeguare i livelli prestazionali alla sensazione soggettiva di fatica; non affrontare, possibilmente, situazioni conflittuali o affrontarle valutando attentamente ogni potenziale espressione di aggressività in esse contenuta; evitare, sempre nei limiti del possibile, di esporsi contemporaneamente ad altri "stressor". Prima o poi il caldo passerà.
* Past President Società Italiana di Psichiatria
"E per la salute mentale vanno evitati gli stress"
Il calore eccessivo può allentare le inibizioni e scatenare l’aggressività
di Pier Luigi Scapicchio*
Il caldo gli ha dato alla testa. Quante volte abbiamo sentito pronunciare questa frase? Tutti, a livello di semplice buon senso, sono convinti che il caldo influisca negativamente sul nostro equilibrio psichico. Effettivamente due eventi critici come il colpo di sole ed il colpo di calore presentano, nel loro quadro clinico, sintomi psichici di una certa gravità (agitazione psicomotoria, delirio, stato confusionale) che rafforzano questa convinzione comune. Ma il legame tra il caldo e la sofferenza psichica è più complesso di quanto sembri. Oltre al fattore termico in sé, che agisce direttamente sul cervello, come nel colpo di sole e nel colpo di calore, occorre considerare anche il ruolo di "stressor" aspecifico che assume il caldo eccessivo e l’influenza della stagione estiva sulla ciclicità di alcune gravi patologie psichiche.
Agendo come un potente fattore di stress il caldo è responsabile di comportamenti aggressivi e impulsivi tipici di ogni circostanza stressante, che allenta i nostri poteri critici, le nostre inibizioni, le nostre capacità di controllo rispetto a tutti gli stimoli ambientali negativi. In queste condizioni è assai più facile che si verifichino i cosiddetti raptus: la parola latina significa strappo e rende molto bene l’idea di una lacerazione che si verifica in un continuo esistenziale tranquillo o almeno ben compensato, che si scompensa per il peso di uno stress ambientale o personale insostenibile. Lo stress termico incide sull’equilibrio critico e comportamentale anche indirettamente, attraverso la perdita di sonno ed il sovvertimento dei nostri ritmi biologici. Dormire male non significa soltanto dormire poco ma anche subire un’alterazione della qualità del sonno che, per essere davvero ristoratore, ha bisogno di conservare la concatenazione delle sue fasi naturali, la cosiddetta architettura del sonno.
La stagione calda, che il corpo riconosce attraverso i suoi sensori biologici e non certo dalla lettura del calendario, rappresenta anche un fattore di vulnerabilità per importanti patologie cicliche legate alla stagionalità; non per tutti i soggetti è l’estate la stagione di maggior rischio, ma a chi rientra in tale categoria va prestata attenzione particolare proprio perché la terapie preventive sono modulate in funzione della variabile ambientale e non delle valutazioni cronologiche.
Gli accorgimenti per fronteggiare questi rischi sono molteplici ma si rifanno quasi esclusivamente ai noti precetti igienici per difendersi dal caldo in generale. Lo psichiatra può aggiungere qualche consiglio specifico, raccomandando di evitare il ricorso a tranquillanti e sonniferi, che peggiorerebbero la situazione astenica e aggiungerebbero così un’ulteriore "stressor" al caldo. E’ molto importante adeguare i livelli prestazionali alla sensazione soggettiva di fatica; non affrontare, possibilmente, situazioni conflittuali o affrontarle valutando attentamente ogni potenziale espressione di aggressività in esse contenuta; evitare, sempre nei limiti del possibile, di esporsi contemporaneamente ad altri "stressor". Prima o poi il caldo passerà.
* Past President Società Italiana di Psichiatria
cosa fa la SPI? patobiografia con Synaptica (sic!)
La Repubblica Salute 26.6.03
Conosci la personalità
e curi i mali del corpo
Lo psicoanalista Fabrizio Franchi spiega cos’è la "patobiografia"
di Claudia Spadazzi
Da qualche tempo gli psicoanalisti nutrono un interesse crescente per il corpo e per le patologie somatiche. Per capire cosa c’è dietro questa nuova tendenza, in tempi in cui del termine psicosomatica si fa un gran abuso, abbiamo interpellato il professor Fabrizio Franchi, coordinatore del gruppo Synaptica.
Cosa significa per Synaptica occuparsi di questo ambito?
«Fra i numerosi autori che si sono interessati a questo problema, il gruppo Synaptica fa riferimento in particolare al lavoro condotto da Luis Chiozza, a Buenos Aires, nell’Istituto da lui diretto. Nel corso di una rielaborazione di questo modello, alcuni analisti appartenenti alla Società Psicoanalitica Italiana, hanno costituito il gruppo Synaptica, avendo consolidato una lunga esperienza come medici in diversi ambiti specialistici (pediatria, ginecologia, medicina interna, neurologia, terapia del dolore). Negli ultimi dieci anni, abbiamo seguito numerosi pazienti affetti da patologie organiche diverse, avvalendoci del metodo della patobiografia».
In cosa consiste questo metodo?
«E’ un modello che ha l’intento di integrare l’anamnesi medica con l’indagine sulla personalità e sulla storia familiare del paziente, ricavata adoperando un vertice psicoanalitico. Prevede una serie di consultazioni con il paziente ed un lavoro parallelo dell’équipe nel quale vengono confrontati contemporaneamente l’anamnesi medica, la storia familiare e le sue derive transgenerazionali, gli elementi della personalità del paziente ed il loro dispiegarsi in relazione all’insorgenza della malattia».
Quale può essere per un malato, il vantaggio di una serie di colloqui di questo tipo?
«Accanto ai trattamenti medici appropriati, acquisire la capacità di dare senso all’evento "malattia", mette l’individuo nelle migliori condizioni per recuperare energie riparative».
Ma per un malato, magari grave, non è un carico eccessivo trovarsi a dover fronteggiare i propri conflitti interni?
«L’ipotesi del gruppo è che nella condizione di malattia l’energia sia imprigionata nel processo patologico. Questo intervento si propone di rendere nuovamente disponibili le energie vitali del paziente, sottraendo al dominio della malattia investimenti di tipo autodistruttivo».
Quali sono le malattie che possono essere oggetto di questo tipo di intervento?
«Alcune malattie classicamente riconosciute come psicosomatiche anche dalla medicina ufficiale sono ad esempio l’ulcera gastrica, la rettocolite ulcerosa, l’asma bronchiale, alcune malattie dermatologiche, più recentemente anche alcune patologie autoimmunitarie. Tuttavia il nostro punto di vista è diverso: l’unità psichesoma si manifesta in ogni aspetto della vita, nella salute e nella malattia: in questo senso qualsiasi quadro patologico deve essere considerato psicosomatico».
Questi concetti non sono in controtendenza rispetto al progresso della medicina?
«La scienza medica evolve verso la specializzazione esasperata e la tecnologizzazione, in modo tale da dimenticare l’interezza dell’essere umano. Eppure già Platone scriveva: "come non si deve cominciare a sanare gli occhi senza tenere conto del capo, né il capo senza il corpo, non si provi a sanare il capo senza tenere conto dell’anima". Anzi, questa sarebbe proprio la ragione per cui tante malattie la fanno franca ai medici greci, perché essi trascurano quel tutto che è malato, e che dunque non può guarire in una parte».
Però molti scienziati sono ostili, o almeno scettici, rispetto all’ipotesi psicosomatica.
«Spesso si tratta di persone con maggiore dimestichezza con i loro laboratori che con il mondo interno. Si potrebbe magari consigliare loro un po’ di psicoanalisi...».
La Patobiografia prevede che il paziente incontri un membro del gruppo per un numero limitato di colloqui, in genere quattro o cinque. Il materiale emerso viene collettivamente discusso dal gruppo degli psicoanalisti, in altrettanti incontri. La rielaborazione del senso che la malattia riveste nel contesto della storia del paziente viene restituita al soggetto nel corso di un colloquio conclusivo.
Conosci la personalità
e curi i mali del corpo
Lo psicoanalista Fabrizio Franchi spiega cos’è la "patobiografia"
di Claudia Spadazzi
Da qualche tempo gli psicoanalisti nutrono un interesse crescente per il corpo e per le patologie somatiche. Per capire cosa c’è dietro questa nuova tendenza, in tempi in cui del termine psicosomatica si fa un gran abuso, abbiamo interpellato il professor Fabrizio Franchi, coordinatore del gruppo Synaptica.
Cosa significa per Synaptica occuparsi di questo ambito?
«Fra i numerosi autori che si sono interessati a questo problema, il gruppo Synaptica fa riferimento in particolare al lavoro condotto da Luis Chiozza, a Buenos Aires, nell’Istituto da lui diretto. Nel corso di una rielaborazione di questo modello, alcuni analisti appartenenti alla Società Psicoanalitica Italiana, hanno costituito il gruppo Synaptica, avendo consolidato una lunga esperienza come medici in diversi ambiti specialistici (pediatria, ginecologia, medicina interna, neurologia, terapia del dolore). Negli ultimi dieci anni, abbiamo seguito numerosi pazienti affetti da patologie organiche diverse, avvalendoci del metodo della patobiografia».
In cosa consiste questo metodo?
«E’ un modello che ha l’intento di integrare l’anamnesi medica con l’indagine sulla personalità e sulla storia familiare del paziente, ricavata adoperando un vertice psicoanalitico. Prevede una serie di consultazioni con il paziente ed un lavoro parallelo dell’équipe nel quale vengono confrontati contemporaneamente l’anamnesi medica, la storia familiare e le sue derive transgenerazionali, gli elementi della personalità del paziente ed il loro dispiegarsi in relazione all’insorgenza della malattia».
Quale può essere per un malato, il vantaggio di una serie di colloqui di questo tipo?
«Accanto ai trattamenti medici appropriati, acquisire la capacità di dare senso all’evento "malattia", mette l’individuo nelle migliori condizioni per recuperare energie riparative».
Ma per un malato, magari grave, non è un carico eccessivo trovarsi a dover fronteggiare i propri conflitti interni?
«L’ipotesi del gruppo è che nella condizione di malattia l’energia sia imprigionata nel processo patologico. Questo intervento si propone di rendere nuovamente disponibili le energie vitali del paziente, sottraendo al dominio della malattia investimenti di tipo autodistruttivo».
Quali sono le malattie che possono essere oggetto di questo tipo di intervento?
«Alcune malattie classicamente riconosciute come psicosomatiche anche dalla medicina ufficiale sono ad esempio l’ulcera gastrica, la rettocolite ulcerosa, l’asma bronchiale, alcune malattie dermatologiche, più recentemente anche alcune patologie autoimmunitarie. Tuttavia il nostro punto di vista è diverso: l’unità psichesoma si manifesta in ogni aspetto della vita, nella salute e nella malattia: in questo senso qualsiasi quadro patologico deve essere considerato psicosomatico».
Questi concetti non sono in controtendenza rispetto al progresso della medicina?
«La scienza medica evolve verso la specializzazione esasperata e la tecnologizzazione, in modo tale da dimenticare l’interezza dell’essere umano. Eppure già Platone scriveva: "come non si deve cominciare a sanare gli occhi senza tenere conto del capo, né il capo senza il corpo, non si provi a sanare il capo senza tenere conto dell’anima". Anzi, questa sarebbe proprio la ragione per cui tante malattie la fanno franca ai medici greci, perché essi trascurano quel tutto che è malato, e che dunque non può guarire in una parte».
Però molti scienziati sono ostili, o almeno scettici, rispetto all’ipotesi psicosomatica.
«Spesso si tratta di persone con maggiore dimestichezza con i loro laboratori che con il mondo interno. Si potrebbe magari consigliare loro un po’ di psicoanalisi...».
La Patobiografia prevede che il paziente incontri un membro del gruppo per un numero limitato di colloqui, in genere quattro o cinque. Il materiale emerso viene collettivamente discusso dal gruppo degli psicoanalisti, in altrettanti incontri. La rielaborazione del senso che la malattia riveste nel contesto della storia del paziente viene restituita al soggetto nel corso di un colloquio conclusivo.
psicoanalisi, il manifesto ci crede ancora?
il manifesto 27.6.03
L'Io alle prese con la sua immagine
Poter dire che effetto fa essere quella persona che si è: questo il tema ricorrente in due libri della grande psicoanalista Piera Aulagnier, che ci vengono restituiti grazie alla meritoria opera di traduzione di Alberto Luchetti per La Biblioteca
di Pier Luigi Rossi
Nel racconto di Borges che s'intitola Le rovine cicolari e si trova in Finzioni (Einaudi) un uomo, un mago, decide di creare un altro uomo: prima vuole crearlo nel sogno e poi vuole anche imporlo alla realtà. Restando tutto il tempo necessario su un'isola e dormendo fra le rovine circolari di un tempio anticamente distrutto dal fuoco, riesce a formare la sua creatura dall'interno, sognandolo pezzo per pezzo come un corpo: prima soltanto un cuore, poi un organo dopo l'altro, fino ad avere davanti a sé un uomo completo che però non si sveglia e non si muove. Alla fine è il dio del Fuoco che risponde alla sua preghiera di farlo essere vivo, e lo rende capace di vita e di movimento. Sarebbe un uomo come tutti gli altri, se non fosse che può camminare sul fuoco senza bruciarsi: unico segno, questa ambigua immortalità, del suo essere un fantasma non dotato di un'esistenza reale. Mentre il mago faceva tutto ciò, e curava anche che la sua creatura nulla potesse ricordare delle sue origini e nulla potesse sospettare della sua vera natura, era inquietato a sua volta da un'impressione che tutto questo fosse già avvenuto... Poi una notte, quando l'opera era ormai compiuta, un grande incendio divampò ancora una volta tra le rovine e il mago pensò che forse la morte era venuta finalmente a liberarlo. Ma quando andò incontro ai gironi del fuoco si accorse che questi non mordevano la sua carne, che lo inondavano senza calore e senza combustione, e allora comprese con umiliazione e con terrore di essere anche lui un fantasma, e di esistere solo nel sogno di un altro. «Non essere un uomo, essere la proiezione del sogno di un altro uomo: che umiliazione incomparabile, che vertigine!», commenta Borges.
L'intensa suggestione di questo racconto proviene dal fatto che un mito molto antico, quello di Narciso, si declina in una forma molto moderna: un possibile sentimento di non esistenza, di non realtà, nel quale una persona potrebbe pericolosamente rispecchiarsi come qualcuno che non ha mai cominciato ad esistere. D'altronde tutti noi, prima di avere un corpo, siamo stati creature del pensiero di altri, siamo stati pensati (e sognati) prima di nascere e di cominciare a esistere. Freud osservava la riattivazione del narcisismo dei genitori che precede la nascita di ogni nuovo bambino anticipandolo a propria immagine e somiglianza, e noi ci chiediamo come faccia ad emergere l'Io del bambino che ne farà la persona nuova e non prevista, cui spetta riuscire ad essere.
Su questo tema escono ora in traduzione italiana due libri di Piera Aulagnier, una grande psicoanalista nel cui pensiero l'alienazione, la passione o il delirio sono le figure che assume il più o meno esteso fallimento dell'Io nella sua impresa. Italiana di nascita e francese di formazione, è diventata psicoanalista come allieva di Lacan. Il suo nome originario era Spairani, e la sua opera - ben poco conosciuta in Italia - si avvantaggia ora delle nuove traduzioni di Alberto Luchetti, che già ci aveva fornito la versione italiana del primo difficile trattato, La violenza dell'interpretazione (Borla, 1994), e che completa la sua meritoria fatica - da vero esperto del pensiero di Aulagnier - restituendoci in italiano I destini del piacere. Alienazione, amore, passione, scritto per il seminario di insegnamento che accompagnava il lavoro clinico con pazienti psicotici all'Ospedale Sainte-Anne di Parigi; e L'apprendista storico e il maestro stregone, che racconta per esteso due lunghe storie cliniche (entrambi i libri sono usciti per le edizioni la Biblioteca, Bari-Roma). È proprio attraverso questi lavori clinici che Piera Aulagnier avrebbe voluto inizialmente essere conosciuta (e forse riconosciuta) in Italia, rendendosi conto dell'ambizione e della complessità del suo pensiero teorico; e tuttavia, pur nella difficoltà del linguaggio, sarà proprio l'eccezionale attualità delle questioni sollevate da questo pensiero ad affascinare il lettore che laincontrasse oggi per la prima volta.
Aulagnier si preoccupa, dunque, di come l'Io debba presto cominciare ad esistere e poi sempre incessantemente continuare a poter dire che c'è, nella possibilità di sentire, di rappresentarsi e di pensare la propria esperienza. Con ciò, prende molto nettamente le distanze da Lacan, per il quale l'Io stesso non può essere altro, quasi, che alienazione del soggetto nella trappola dell'immaginario: esistere nell'immagine che l'altro ci rimanda è un po' quel che succede al personaggio di Borges, che si accorge di esistere solo nel sogno di un altro uomo. Aulagnier eredita da Lacan la categoria dell'alienazione, ma è per lei un disgraziato e determinato destino dell'Io quello che gli si offre con la rinuncia a pensare, alienandosi nel pensiero dell'altro. In realtà, uno sviluppo moderno e sorprendente viene dato così a uno dei fondamenti della psicoanalisi: la denuncia dei pericoli della suggestione che in altri tempi Freud indicava nell'ipnosi e nei fenomeni di massa.
Nell'alienazione s'instaura una violenza silenziosa, della quale non si accorge né chi la subisce né chi la induce: è ciò che Aulagnier chiama «un cattivo incontro», dove il desiderio di alienare dell'uno si salda con quello di essere alienato dell'altro; un incontro dal quale alcuni sono obbligati a tentare l'uscita magari attraversando una crisi psicotica. Il delirio è infatti una determinazione a continuare a pensare pur nell'assenza dei fondamenti necessari per farlo. Altre patologie meno gravi ma più frequenti ricevono anch'esse una nuova illuminazione da questo punto di vista: penso, ad esempio, alle persone che si tagliano o che si espongono a situazioni traumatiche pur di mettersi alla prova e sperimentare se stesse nel corpo, quasi dovessero sottrarsi all'incubo di una finta immortalità. Ma al di là dei quadri della clinica, l'attualità del pensiero psicoanalitico di Aulagnier sta nel fatto che esso aiuta a considerare la più generale crisi della soggettività che attraversa il mondo moderno. In un linguaggio che non è il suo si potrebbe dire che l'Io di cui lei parla altro non è se non la possibilità di descrivere «in prima persona» la propria esperienza, il poter dire `che effetto fa' essere quella persona che si è. Thomas Nagel, l'autore di questa celebre definizione della coscienza, direbbe anche che questo fa parte del senso comune e che la scienza non ce lo può dire, in quanto essa ci descrive oggettivamente in terza persona. Non che della scienza noi non abbiamo anche soggettivamente bisogno, ma l'una cosa non può fare le funzioni dell'altra.
La psicoanalisi, da parte sua, è una strana scienza. Per un verso essa richiede una complessità di riflessione teorica della quale i libri di Aulagnier sono un ottimo esempio; ma per un altro verso la psicoanalisi non è che un'estensione dell'esperienza del senso comune, una straordinaria e privilegiata estensione la cui possibilità è un oggetto privato e sociale da difendere. Un tale privilegio, infatti, sembrava naturale nelle condizioni culturali in cui è nato, un secolo fa, ed è reso ben più problematico nelle condizioni di vita di oggi con le ideologie che le accompagnano. Anche da questo punto di vista colpisce il fatto che la «violenza» di cui parla Piera Aulagnier non sia intesa come una distruttività innata dell'essere umano, ma come la conseguenza di una mancanza nello spazio in cui l'Io dovrebbe avvenire. Strana situazione quella della psicoanalisi, oggi: dopo avere fatto la scoperta dell'inconscio, trova però la sua urgente attualità nel dimostrare che l'Io e la coscienza non sono da buttare.
La Repubblica 27.6.03
Galimberti e Pericoli
(segnalato da Dina Battioni)
Pericoli: Non posso girare per le strade o salire su un autobus senza guardare le persone e provare a ritrarle mentalmente
Galimberti: Se la nostra biografia è scritta sul viso, chi cerca di modificarlo con un lifting non accetta la propria storia
Pericoli: Per me l´elemento più rivelatore è la bocca che prende persino la forma delle parole che diciamo
Galimberti: Quando uno parla con se stesso dice più verità: per questo paziente e analista non si guardano negli occhi
Galimberti: "Noi non vediamo la nostra faccia e dunque ce la immaginiamo, è un viso psichico, non fisico"
Pericoli: "Davanti all´ipotesi di farsi ritrarre c´è sempre una certa resistenza, la paura di essere letti"
ENRICO REGAZZONI
Cosa spinge a ritrarre il volto di un altro essere umano?
TULLIO PERICOLI - «Per chi lo fa, come per chi lo vedrà, il ritratto presuppone una lettura dei segni del volto più avanzata di qualsiasi altra forma di comunicazione, sia fotografica che cinematografica. Già la parola viene da traere, come se tu dovessi rubare qualcosa a quel volto per mostrarlo ad altri. Davanti all´ipotesi di farsi ritrarre, c´è sempre una forma di resistenza, come se il soggetto si esponesse a una lettura di se stesso più scoperta, quasi una denuncia. Ho fatto un esperimento, qualche tempo fa: sono andato da amici e conoscenti e ho proposto di fargli il ritratto partendo dalle loro indicazioni. Perché porto la barba, come mi penso, come mi vedo... Inizialmente un´adesione entusiasta, poi la fuga, segnata dal panico. L´esposizione era troppo forte».
Ritratto come cortocircuito fra vanità e pudore?
UMBERTO GALIMBERTI - «Certo, ma soprattutto mi piace quello che dice Pericoli quando parla di ritrarre come rubare. Viso viene da visto, ma visto dagli altri. E così visage in francese, Gesicht in tedesco. Il mio volto è il buco nero del mio corpo. Da qui la rapina: l´unica cosa che non vedo di me, l´altro la vede. Sono a disagio, ho paura. E il pudore consiste proprio nel nascondere ciò che diventa preda di altri, a partire dagli organi sessuali».
Effettivamente la maggioranza delle nostre riflessioni su noi stessi si fonda sulla presunzione di conoscerci meglio di quanto possa farlo chiunque altro. In verità noi sappiamo quanto tale presunzione sia debole, per non dire infondata. Il nostro ritratto, mostrandoci ciò che non sappiamo, potrebbe far vacillare molti pensieri e costringerci ad abdicare a certezze che vogliamo incrollabili.
GALIMBERTI - «E´ così, anche perché la nostra faccia, non potendo vederla, ce la immaginiamo secondo schemi corporei che sono frutto di educazione, ambiente, riconoscimenti. Si tratta di schemi psichici, che per esempio spingono molte ragazze belle a considerarsi brutte. Ma mentre noi pensiamo un viso psichico, chi ci ritrae prende la nostra faccia fisica».
Come si individuano i segni che fanno un ritratto?
PERICOLI - «Non lo so. Più ne faccio e meno capisco perché cinque segni messi assieme fanno quella faccia che si distingue da miliardi di facce possibili. Diceva Georg Simmel che "il viso risolve nel modo più completo il compito di produrre con un minimo di variazione dell´elemento singolo un maximum di variazione dell´espressione complessiva". Ma questa non è solo una proprietà dei segni. E´ che noi abbiamo una capacità di lettura così ampia che un piccolo spostamento rivoluziona tutto. Siamo noi a innescare questa rivoluzione. Come potremmo infatti riconoscere quel volto fra sei miliardi, se non avessimo almeno sei miliardi di elementi nelle nostre possibilità selettive? Se basta un tratto minimo, voglio dire, è perché la rivoluzione è già nei nostri occhi».
E non c´è una tecnica per cogliere i tratti determinanti?
PERICOLI - «Non è una tecnica».
GALIMBERTI - «Forse è una percezione inconscia che hanno gli artisti, che poi è simile a quella che tutti noi utilizziamo quando, vedendo una faccia, decidiamo se con quella persona si può parlare o no, se è simpatica o meno, se il suo mondo ci è emotivamente accessibile».
Quindi la capacità di ritrarre è un dono non investigabile, che permette all´artista di cogliere ciò che neppure lui sa?
GALIMBERTI - «Bergson diceva che gli animali raggiungono quello che non cercano. Nell´artista c´è questa animalità, che è la capacità di saltare la dimensione discorsiva e cogliere subito la cosa».
PERICOLI - «E´ anche un esercizio continuo e inconscio. Io non posso girare per le strade, o salire su un autobus, senza soffermarmi su ogni faccia che vedo. E domandarmi: come la disegnerei?».
GALIMBERTI - «Voglio aggiungere una cosa sul capitale narrativo del volto. E cioè che se il nostro viso è la nostra biografia, e lo è, tutti coloro che lo modificano artificialmente, col bisturi o con il lifting, non accettano la loro biografia. In omaggio a un modello collettivo di bellezza, costoro rifiutano non le loro fattezze, ma la loro storia».
PERICOLI - «Ecco, davanti ai volti che si costringono dentro a un modello io sono un po´ disarmato. So di persone che limitano di proposito i movimenti del loro viso: evitano perfino di ridere per paura di un´eccessiva deformazione. Ma in fondo la faccia cos´è, se non una quantità di muscoli esercitabili come in palestra? Le nostre facce sono il risultato della nostra palestra quotidiana. E in questo senso l´elemento per me più rivelatore è la bocca».
Più degli occhi?
PERICOLI - «Sì, perché i muscoli della bocca sono quelli più in attività. Perfino durante un brutto sogno facciamo delle smorfie. E quando parliamo la nostra bocca prende la forma delle parole che pronunciamo. Penso che ci sia una bocca che parla italiano, una che parla in francese, una in americano. E a ben guardare anche i nostri occhi, e le orecchie, e tutti gli elementi del viso sono, come dice Garboli, i correlativi facciali del pensiero».
GALIMBERTI - «In fondo bocca viene da buco. Il nostro viso ha tanti buchi, dai quali noi veniamo fuori».
Ma siamo certi che il volto non menta mai? Siamo sicuri, voglio dire, che sia una somma esatta della nostra identità?
GALIMBERTI - «Al posto della parola identità dobbiamo usare il sé: che non è l´io, cioè il modo in cui mi rappresento nel mondo esterno, ma il mio me stesso. Allora c´è una perfetta coincidenza fra il mio volto e me stesso. Il problema è che io non conosco il mio me stesso, e mi produco in una dimensione egoica, socialmente accettabile. Mi falsifico, ma il mio volto mi dichiara. Il misconoscimento che noi facciamo del nostro volto, la differenza fra come lo pensiamo e come lo vediamo riflesso in una vetrina è la distanza fra ciò che pensiamo di noi e ciò che veramente siamo. Somma di conscio e inconscio, il nostro viso è la nostra riproduzione».
PERICOLI - «Il sé che si rivela: questo, esattamente, spiega la paura. Un timore che precede la conoscenza. Sappiamo che il nostro volto rivela moltissimo e può tradirci. Anche il nostro destino dipende dal viso, e noi ci mostriamo ogni giorno con qualcosa che ci fa paura. Siamo contenti di apparire sul giornale, ma allo stesso tempo ci sentiamo spaventati».
Sbaglio, o stiamo dicendo che la fisiognomica è una scienza esatta?
PERICOLI - «Non lo è, se metti in fila dei tratti: quello che ha il naso fatto in un certo modo ha questo carattere, quello che ha una fronte sfuggente... Questo no, perché il volto è prima di tutto un sistema di relazione fra più elementi. Puoi decifrare un viso, ma non puoi organizzare questa lettura in un insieme di regole».
GALIMBERTI - «Tuttavia, quando la fisiognomica analizza le persone individua una corrispondenza secca. A Santa Maria della Pietà, il grande manicomio di Roma, ho sfogliato dei volumoni di fisiognomica dove i volti erano assimilati ai loro corrispettivi animali. Impressionante».
PERICOLI - «Ma non puoi generalizzare: tutti coloro che hanno la mascella equina presentano certi caratteri... Questo è Lombroso, inaccettabile».
GALIMBERTI - «Ovviamente. C´è una corrispondenza fra dentro e fuori, non tra fuori e fuori».
E quanto pesa lo sguardo del ritrattista? Quanto può alterare il ritratto l´idea che l´artista ha del suo soggetto?
PERICOLI - «E´chiaro che, ritraendo un volto, non ne faccio solo una lettura, ma arrivo quasi a violentarlo. In quel volto non può non esserci ciò che so di lui. Prendiamo il caso di Kafka. Nelle foto quasi anonime che si lasciò fare, dove per compiacere il fotografo o la sua stessa famiglia compare come un dolce gentiluomo, io non posso non ritrovare ciò che ha scritto. Solo tra gli ultimi scatti ce n´è uno che presenta una lieve divergenza degli occhi, al limite dello strabismo. Come se non si fosse controllato. Era stanco e malato, e gli occhi si sono aperti come una finestra. Insomma, qualcosa invento, qualcosa forzo, e dalla faccia vien fuori quello che mi aspetto».
Finalmente si parla di occhi. Fin qui evitati come due cronici bugiardi.
PERICOLI - «Ho posto l´attenzione sulla bocca perché non facciamo caso a come la muoviamo, dunque è capace di informazioni sorprendenti. Gli occhi, al contrario, sono la parte del volto con cui ci esprimiamo di più, ma anche quella più controllata. Se vogliamo indossare una maschera, ci copriamo gli occhi, non la bocca. Perché sappiamo che lì ci riveliamo di più. Sono insomma una parte molto ricca, ma anche ambigua. E per me non sono il centro».
GALIMBERTI - «Poi, nel ritratto, c´è un´inversione di funzione. Fatto per guardare, l´occhio guardato collassa, e lo sguardo si abbassa».
PERICOLI - «Vorrei domandare io una cosa a Galimberti: perché nella posizione classica analista e paziente non si guardano negli occhi?»
GALIMBERTI - «Perché somiglierebbe troppo a una conversazione. Inoltre, guardarsi negli occhi sarebbe una forma di controllo reciproco che va evitato. Infine, perché se uno parla con se stesso dice più verità».
Ma se lo sguardo guardato non è vero, la storia del ritratto è una galleria infinita di bugie. O c´è un sistema che l´artista conosce per violare la maschera?
PERICOLI - «Nel mio caso la risposta è facilissima: quasi tutti i miei ritratti nascono da una foto. E la foto ruba l´istante, coglie l´espressione che ha l´instabilità del passaggio da una all´altra. Quei due occhi di Kafka sono due occhi rubati. Altrimenti il soggetto si mette in posa per somigliare al ritratto che verrà. Così io faccio sempre delle foto, che mi serviranno per ritoccare quella posa».
E la bellezza di un volto, cos´è? In natura, il volto è il centro della seduzione perché è la parte del corpo che meno può dissimulare l´età, e dunque la fertilità di un soggetto. Per voi qual è l´elemento centrale di questa seduzione, che chiamiamo bellezza?
GALIMBERTI - «Direi l´intensità. Più che la forma e l´armonia, l´intensità di un volto ti dice quanta anima c´è. Anima animale, intendo. E l´intensità è data dallo sguardo e dalla mobilità del volto. Da questa sono attratto, molto più che dall´armonia, che può essere statica e non sedurre affatto».
PERICOLI - «Concordo, l´intensità. Forse anche per questo il volto da cui sono meno attratto è il mio. Lo trovo poco intenso e poco espressivo, e faccio una gran fatica a disegnarlo. Mi seducono invece i volti che mi suggeriscono una quantità di possibili ritratti, che potrei disegnare in dieci modi diversi».
GALIMBERTI - «E´normale: poiché il volto manifesta più di quanto sai di te, è faticoso ritrarre se stessi. Scusi, Pericoli: ma ha mai ritratto Pintor? Perché non è tanto diverso da lui, e lui era bello intenso. Anche il suo viso lo è, solo che lei non vede questa intensità e non ce la fa a riprodurla».
Pericoli, si esercita mai a ritrarre lo stesso viso a distanza di anni?
PERICOLI - «Certo, ed è un esercizio che mi piace molto. Il cambiamento, l´accumulo... Però c´è anche un momento, nella vita, in cui un viso raggiunge la sua perfezione, e capisci che resterà quel viso lì».
GALIMBERTI - «Si arriva a quel viso, una faccia quieta che governa se stessa, nel momento in cui conquisti l´accettazione incondizionata di quello che sei. Non sei più in guerra con te stesso, con la tua ombra. Ammetti: ebbene sì, sono anche questo. Nietzsche lo dice bene: diventa ciò che sei. E per me questa frase potrebbe essere lo stemma dell´intera psicoanalisi».
Mai incontrato un viso irritraibile?
PERICOLI - «Sì. Non so perché, ma è Nabokov. Apparentemente ha degli elementi facili: un bel naso grosso, una certa pappagorgia... In realtà non c´è mai, è inafferrabile come le sue farfalle. E io non sono mai riuscito ad acchiapparlo».
Un´ultima cosa sull´attuale declino del volto. Cent´anni fa era sufficiente spedire una foto per organizzare un matrimonio, oggi con internet si possono raggiungere incresciose intimità senza mai vedersi. Il volto sembra perdere valore e differenza, per adeguarsi a standard di bellezza imposti dalla moda.
GALIMBERTI - «C´è un processo di fortissima decorporizzazione, e l´erotismo non passa più per il confronto dei corpi ma attraverso la visione, tipo internet o tv, o addirittura per via fonica. E´ un sintomo grave che ci si possa sposare anche senza mai essersi visti in faccia, perché vuol dire che la relazione prescinde dalla corporeità. Direi che stiamo recuperando, a un livello degradato, un atteggiamento religioso. Cosa diceva la religione? Che il corpo è carne da redimere, come se fosse una cosa sporca. Sotto il profilo igienico, oggi viviamo qualcosa di simile: il corpo va profumato, corretto, costruito. Il modello è generalmente televisivo, e il corpo è perennemente inadeguato. Per cui, se vuoi evitare la depressione, o te lo costruisci o lo rimuovi».
PERICOLI - «Però, proprio dalla tv ci viene anche un´altra cosa, e cioè un´esasperazione dei primi piani che ci permette di cogliere i dettagli espressivi di un volto in modo molto forte. Grazie alla tv, posso dire di conoscere benissimo Maurizio Costanzo, di sapere tutto di lui. E che dire della faccia di Bush? Certi zoom ne rivelano una diabolicità cui non avremmo accesso, altrimenti. Perché nessuno può stare in posa per dieci minuti, parlando. La telecamera ti stana. Non è un caso che Berlusconi pretenda che davanti all´obiettivo venga messa una calza. Insomma, non so se è un bene o un male, ma ci siamo creati un archivio personale delle facce che ci governano, ci raccontano le storie, ci istruiscono. La tv ce li impone ma ci dà anche informazioni preziose su costoro. E tutti questi dettagli, che registriamo anche senza saperlo, prima o poi sbucheranno fuori, da qualche parte».
L'Io alle prese con la sua immagine
Poter dire che effetto fa essere quella persona che si è: questo il tema ricorrente in due libri della grande psicoanalista Piera Aulagnier, che ci vengono restituiti grazie alla meritoria opera di traduzione di Alberto Luchetti per La Biblioteca
di Pier Luigi Rossi
Nel racconto di Borges che s'intitola Le rovine cicolari e si trova in Finzioni (Einaudi) un uomo, un mago, decide di creare un altro uomo: prima vuole crearlo nel sogno e poi vuole anche imporlo alla realtà. Restando tutto il tempo necessario su un'isola e dormendo fra le rovine circolari di un tempio anticamente distrutto dal fuoco, riesce a formare la sua creatura dall'interno, sognandolo pezzo per pezzo come un corpo: prima soltanto un cuore, poi un organo dopo l'altro, fino ad avere davanti a sé un uomo completo che però non si sveglia e non si muove. Alla fine è il dio del Fuoco che risponde alla sua preghiera di farlo essere vivo, e lo rende capace di vita e di movimento. Sarebbe un uomo come tutti gli altri, se non fosse che può camminare sul fuoco senza bruciarsi: unico segno, questa ambigua immortalità, del suo essere un fantasma non dotato di un'esistenza reale. Mentre il mago faceva tutto ciò, e curava anche che la sua creatura nulla potesse ricordare delle sue origini e nulla potesse sospettare della sua vera natura, era inquietato a sua volta da un'impressione che tutto questo fosse già avvenuto... Poi una notte, quando l'opera era ormai compiuta, un grande incendio divampò ancora una volta tra le rovine e il mago pensò che forse la morte era venuta finalmente a liberarlo. Ma quando andò incontro ai gironi del fuoco si accorse che questi non mordevano la sua carne, che lo inondavano senza calore e senza combustione, e allora comprese con umiliazione e con terrore di essere anche lui un fantasma, e di esistere solo nel sogno di un altro. «Non essere un uomo, essere la proiezione del sogno di un altro uomo: che umiliazione incomparabile, che vertigine!», commenta Borges.
L'intensa suggestione di questo racconto proviene dal fatto che un mito molto antico, quello di Narciso, si declina in una forma molto moderna: un possibile sentimento di non esistenza, di non realtà, nel quale una persona potrebbe pericolosamente rispecchiarsi come qualcuno che non ha mai cominciato ad esistere. D'altronde tutti noi, prima di avere un corpo, siamo stati creature del pensiero di altri, siamo stati pensati (e sognati) prima di nascere e di cominciare a esistere. Freud osservava la riattivazione del narcisismo dei genitori che precede la nascita di ogni nuovo bambino anticipandolo a propria immagine e somiglianza, e noi ci chiediamo come faccia ad emergere l'Io del bambino che ne farà la persona nuova e non prevista, cui spetta riuscire ad essere.
Su questo tema escono ora in traduzione italiana due libri di Piera Aulagnier, una grande psicoanalista nel cui pensiero l'alienazione, la passione o il delirio sono le figure che assume il più o meno esteso fallimento dell'Io nella sua impresa. Italiana di nascita e francese di formazione, è diventata psicoanalista come allieva di Lacan. Il suo nome originario era Spairani, e la sua opera - ben poco conosciuta in Italia - si avvantaggia ora delle nuove traduzioni di Alberto Luchetti, che già ci aveva fornito la versione italiana del primo difficile trattato, La violenza dell'interpretazione (Borla, 1994), e che completa la sua meritoria fatica - da vero esperto del pensiero di Aulagnier - restituendoci in italiano I destini del piacere. Alienazione, amore, passione, scritto per il seminario di insegnamento che accompagnava il lavoro clinico con pazienti psicotici all'Ospedale Sainte-Anne di Parigi; e L'apprendista storico e il maestro stregone, che racconta per esteso due lunghe storie cliniche (entrambi i libri sono usciti per le edizioni la Biblioteca, Bari-Roma). È proprio attraverso questi lavori clinici che Piera Aulagnier avrebbe voluto inizialmente essere conosciuta (e forse riconosciuta) in Italia, rendendosi conto dell'ambizione e della complessità del suo pensiero teorico; e tuttavia, pur nella difficoltà del linguaggio, sarà proprio l'eccezionale attualità delle questioni sollevate da questo pensiero ad affascinare il lettore che laincontrasse oggi per la prima volta.
Aulagnier si preoccupa, dunque, di come l'Io debba presto cominciare ad esistere e poi sempre incessantemente continuare a poter dire che c'è, nella possibilità di sentire, di rappresentarsi e di pensare la propria esperienza. Con ciò, prende molto nettamente le distanze da Lacan, per il quale l'Io stesso non può essere altro, quasi, che alienazione del soggetto nella trappola dell'immaginario: esistere nell'immagine che l'altro ci rimanda è un po' quel che succede al personaggio di Borges, che si accorge di esistere solo nel sogno di un altro uomo. Aulagnier eredita da Lacan la categoria dell'alienazione, ma è per lei un disgraziato e determinato destino dell'Io quello che gli si offre con la rinuncia a pensare, alienandosi nel pensiero dell'altro. In realtà, uno sviluppo moderno e sorprendente viene dato così a uno dei fondamenti della psicoanalisi: la denuncia dei pericoli della suggestione che in altri tempi Freud indicava nell'ipnosi e nei fenomeni di massa.
Nell'alienazione s'instaura una violenza silenziosa, della quale non si accorge né chi la subisce né chi la induce: è ciò che Aulagnier chiama «un cattivo incontro», dove il desiderio di alienare dell'uno si salda con quello di essere alienato dell'altro; un incontro dal quale alcuni sono obbligati a tentare l'uscita magari attraversando una crisi psicotica. Il delirio è infatti una determinazione a continuare a pensare pur nell'assenza dei fondamenti necessari per farlo. Altre patologie meno gravi ma più frequenti ricevono anch'esse una nuova illuminazione da questo punto di vista: penso, ad esempio, alle persone che si tagliano o che si espongono a situazioni traumatiche pur di mettersi alla prova e sperimentare se stesse nel corpo, quasi dovessero sottrarsi all'incubo di una finta immortalità. Ma al di là dei quadri della clinica, l'attualità del pensiero psicoanalitico di Aulagnier sta nel fatto che esso aiuta a considerare la più generale crisi della soggettività che attraversa il mondo moderno. In un linguaggio che non è il suo si potrebbe dire che l'Io di cui lei parla altro non è se non la possibilità di descrivere «in prima persona» la propria esperienza, il poter dire `che effetto fa' essere quella persona che si è. Thomas Nagel, l'autore di questa celebre definizione della coscienza, direbbe anche che questo fa parte del senso comune e che la scienza non ce lo può dire, in quanto essa ci descrive oggettivamente in terza persona. Non che della scienza noi non abbiamo anche soggettivamente bisogno, ma l'una cosa non può fare le funzioni dell'altra.
La psicoanalisi, da parte sua, è una strana scienza. Per un verso essa richiede una complessità di riflessione teorica della quale i libri di Aulagnier sono un ottimo esempio; ma per un altro verso la psicoanalisi non è che un'estensione dell'esperienza del senso comune, una straordinaria e privilegiata estensione la cui possibilità è un oggetto privato e sociale da difendere. Un tale privilegio, infatti, sembrava naturale nelle condizioni culturali in cui è nato, un secolo fa, ed è reso ben più problematico nelle condizioni di vita di oggi con le ideologie che le accompagnano. Anche da questo punto di vista colpisce il fatto che la «violenza» di cui parla Piera Aulagnier non sia intesa come una distruttività innata dell'essere umano, ma come la conseguenza di una mancanza nello spazio in cui l'Io dovrebbe avvenire. Strana situazione quella della psicoanalisi, oggi: dopo avere fatto la scoperta dell'inconscio, trova però la sua urgente attualità nel dimostrare che l'Io e la coscienza non sono da buttare.
La Repubblica 27.6.03
Galimberti e Pericoli
(segnalato da Dina Battioni)
Pericoli: Non posso girare per le strade o salire su un autobus senza guardare le persone e provare a ritrarle mentalmente
Galimberti: Se la nostra biografia è scritta sul viso, chi cerca di modificarlo con un lifting non accetta la propria storia
Pericoli: Per me l´elemento più rivelatore è la bocca che prende persino la forma delle parole che diciamo
Galimberti: Quando uno parla con se stesso dice più verità: per questo paziente e analista non si guardano negli occhi
Galimberti: "Noi non vediamo la nostra faccia e dunque ce la immaginiamo, è un viso psichico, non fisico"
Pericoli: "Davanti all´ipotesi di farsi ritrarre c´è sempre una certa resistenza, la paura di essere letti"
ENRICO REGAZZONI
Cosa spinge a ritrarre il volto di un altro essere umano?
TULLIO PERICOLI - «Per chi lo fa, come per chi lo vedrà, il ritratto presuppone una lettura dei segni del volto più avanzata di qualsiasi altra forma di comunicazione, sia fotografica che cinematografica. Già la parola viene da traere, come se tu dovessi rubare qualcosa a quel volto per mostrarlo ad altri. Davanti all´ipotesi di farsi ritrarre, c´è sempre una forma di resistenza, come se il soggetto si esponesse a una lettura di se stesso più scoperta, quasi una denuncia. Ho fatto un esperimento, qualche tempo fa: sono andato da amici e conoscenti e ho proposto di fargli il ritratto partendo dalle loro indicazioni. Perché porto la barba, come mi penso, come mi vedo... Inizialmente un´adesione entusiasta, poi la fuga, segnata dal panico. L´esposizione era troppo forte».
Ritratto come cortocircuito fra vanità e pudore?
UMBERTO GALIMBERTI - «Certo, ma soprattutto mi piace quello che dice Pericoli quando parla di ritrarre come rubare. Viso viene da visto, ma visto dagli altri. E così visage in francese, Gesicht in tedesco. Il mio volto è il buco nero del mio corpo. Da qui la rapina: l´unica cosa che non vedo di me, l´altro la vede. Sono a disagio, ho paura. E il pudore consiste proprio nel nascondere ciò che diventa preda di altri, a partire dagli organi sessuali».
Effettivamente la maggioranza delle nostre riflessioni su noi stessi si fonda sulla presunzione di conoscerci meglio di quanto possa farlo chiunque altro. In verità noi sappiamo quanto tale presunzione sia debole, per non dire infondata. Il nostro ritratto, mostrandoci ciò che non sappiamo, potrebbe far vacillare molti pensieri e costringerci ad abdicare a certezze che vogliamo incrollabili.
GALIMBERTI - «E´ così, anche perché la nostra faccia, non potendo vederla, ce la immaginiamo secondo schemi corporei che sono frutto di educazione, ambiente, riconoscimenti. Si tratta di schemi psichici, che per esempio spingono molte ragazze belle a considerarsi brutte. Ma mentre noi pensiamo un viso psichico, chi ci ritrae prende la nostra faccia fisica».
Come si individuano i segni che fanno un ritratto?
PERICOLI - «Non lo so. Più ne faccio e meno capisco perché cinque segni messi assieme fanno quella faccia che si distingue da miliardi di facce possibili. Diceva Georg Simmel che "il viso risolve nel modo più completo il compito di produrre con un minimo di variazione dell´elemento singolo un maximum di variazione dell´espressione complessiva". Ma questa non è solo una proprietà dei segni. E´ che noi abbiamo una capacità di lettura così ampia che un piccolo spostamento rivoluziona tutto. Siamo noi a innescare questa rivoluzione. Come potremmo infatti riconoscere quel volto fra sei miliardi, se non avessimo almeno sei miliardi di elementi nelle nostre possibilità selettive? Se basta un tratto minimo, voglio dire, è perché la rivoluzione è già nei nostri occhi».
E non c´è una tecnica per cogliere i tratti determinanti?
PERICOLI - «Non è una tecnica».
GALIMBERTI - «Forse è una percezione inconscia che hanno gli artisti, che poi è simile a quella che tutti noi utilizziamo quando, vedendo una faccia, decidiamo se con quella persona si può parlare o no, se è simpatica o meno, se il suo mondo ci è emotivamente accessibile».
Quindi la capacità di ritrarre è un dono non investigabile, che permette all´artista di cogliere ciò che neppure lui sa?
GALIMBERTI - «Bergson diceva che gli animali raggiungono quello che non cercano. Nell´artista c´è questa animalità, che è la capacità di saltare la dimensione discorsiva e cogliere subito la cosa».
PERICOLI - «E´ anche un esercizio continuo e inconscio. Io non posso girare per le strade, o salire su un autobus, senza soffermarmi su ogni faccia che vedo. E domandarmi: come la disegnerei?».
GALIMBERTI - «Voglio aggiungere una cosa sul capitale narrativo del volto. E cioè che se il nostro viso è la nostra biografia, e lo è, tutti coloro che lo modificano artificialmente, col bisturi o con il lifting, non accettano la loro biografia. In omaggio a un modello collettivo di bellezza, costoro rifiutano non le loro fattezze, ma la loro storia».
PERICOLI - «Ecco, davanti ai volti che si costringono dentro a un modello io sono un po´ disarmato. So di persone che limitano di proposito i movimenti del loro viso: evitano perfino di ridere per paura di un´eccessiva deformazione. Ma in fondo la faccia cos´è, se non una quantità di muscoli esercitabili come in palestra? Le nostre facce sono il risultato della nostra palestra quotidiana. E in questo senso l´elemento per me più rivelatore è la bocca».
Più degli occhi?
PERICOLI - «Sì, perché i muscoli della bocca sono quelli più in attività. Perfino durante un brutto sogno facciamo delle smorfie. E quando parliamo la nostra bocca prende la forma delle parole che pronunciamo. Penso che ci sia una bocca che parla italiano, una che parla in francese, una in americano. E a ben guardare anche i nostri occhi, e le orecchie, e tutti gli elementi del viso sono, come dice Garboli, i correlativi facciali del pensiero».
GALIMBERTI - «In fondo bocca viene da buco. Il nostro viso ha tanti buchi, dai quali noi veniamo fuori».
Ma siamo certi che il volto non menta mai? Siamo sicuri, voglio dire, che sia una somma esatta della nostra identità?
GALIMBERTI - «Al posto della parola identità dobbiamo usare il sé: che non è l´io, cioè il modo in cui mi rappresento nel mondo esterno, ma il mio me stesso. Allora c´è una perfetta coincidenza fra il mio volto e me stesso. Il problema è che io non conosco il mio me stesso, e mi produco in una dimensione egoica, socialmente accettabile. Mi falsifico, ma il mio volto mi dichiara. Il misconoscimento che noi facciamo del nostro volto, la differenza fra come lo pensiamo e come lo vediamo riflesso in una vetrina è la distanza fra ciò che pensiamo di noi e ciò che veramente siamo. Somma di conscio e inconscio, il nostro viso è la nostra riproduzione».
PERICOLI - «Il sé che si rivela: questo, esattamente, spiega la paura. Un timore che precede la conoscenza. Sappiamo che il nostro volto rivela moltissimo e può tradirci. Anche il nostro destino dipende dal viso, e noi ci mostriamo ogni giorno con qualcosa che ci fa paura. Siamo contenti di apparire sul giornale, ma allo stesso tempo ci sentiamo spaventati».
Sbaglio, o stiamo dicendo che la fisiognomica è una scienza esatta?
PERICOLI - «Non lo è, se metti in fila dei tratti: quello che ha il naso fatto in un certo modo ha questo carattere, quello che ha una fronte sfuggente... Questo no, perché il volto è prima di tutto un sistema di relazione fra più elementi. Puoi decifrare un viso, ma non puoi organizzare questa lettura in un insieme di regole».
GALIMBERTI - «Tuttavia, quando la fisiognomica analizza le persone individua una corrispondenza secca. A Santa Maria della Pietà, il grande manicomio di Roma, ho sfogliato dei volumoni di fisiognomica dove i volti erano assimilati ai loro corrispettivi animali. Impressionante».
PERICOLI - «Ma non puoi generalizzare: tutti coloro che hanno la mascella equina presentano certi caratteri... Questo è Lombroso, inaccettabile».
GALIMBERTI - «Ovviamente. C´è una corrispondenza fra dentro e fuori, non tra fuori e fuori».
E quanto pesa lo sguardo del ritrattista? Quanto può alterare il ritratto l´idea che l´artista ha del suo soggetto?
PERICOLI - «E´chiaro che, ritraendo un volto, non ne faccio solo una lettura, ma arrivo quasi a violentarlo. In quel volto non può non esserci ciò che so di lui. Prendiamo il caso di Kafka. Nelle foto quasi anonime che si lasciò fare, dove per compiacere il fotografo o la sua stessa famiglia compare come un dolce gentiluomo, io non posso non ritrovare ciò che ha scritto. Solo tra gli ultimi scatti ce n´è uno che presenta una lieve divergenza degli occhi, al limite dello strabismo. Come se non si fosse controllato. Era stanco e malato, e gli occhi si sono aperti come una finestra. Insomma, qualcosa invento, qualcosa forzo, e dalla faccia vien fuori quello che mi aspetto».
Finalmente si parla di occhi. Fin qui evitati come due cronici bugiardi.
PERICOLI - «Ho posto l´attenzione sulla bocca perché non facciamo caso a come la muoviamo, dunque è capace di informazioni sorprendenti. Gli occhi, al contrario, sono la parte del volto con cui ci esprimiamo di più, ma anche quella più controllata. Se vogliamo indossare una maschera, ci copriamo gli occhi, non la bocca. Perché sappiamo che lì ci riveliamo di più. Sono insomma una parte molto ricca, ma anche ambigua. E per me non sono il centro».
GALIMBERTI - «Poi, nel ritratto, c´è un´inversione di funzione. Fatto per guardare, l´occhio guardato collassa, e lo sguardo si abbassa».
PERICOLI - «Vorrei domandare io una cosa a Galimberti: perché nella posizione classica analista e paziente non si guardano negli occhi?»
GALIMBERTI - «Perché somiglierebbe troppo a una conversazione. Inoltre, guardarsi negli occhi sarebbe una forma di controllo reciproco che va evitato. Infine, perché se uno parla con se stesso dice più verità».
Ma se lo sguardo guardato non è vero, la storia del ritratto è una galleria infinita di bugie. O c´è un sistema che l´artista conosce per violare la maschera?
PERICOLI - «Nel mio caso la risposta è facilissima: quasi tutti i miei ritratti nascono da una foto. E la foto ruba l´istante, coglie l´espressione che ha l´instabilità del passaggio da una all´altra. Quei due occhi di Kafka sono due occhi rubati. Altrimenti il soggetto si mette in posa per somigliare al ritratto che verrà. Così io faccio sempre delle foto, che mi serviranno per ritoccare quella posa».
E la bellezza di un volto, cos´è? In natura, il volto è il centro della seduzione perché è la parte del corpo che meno può dissimulare l´età, e dunque la fertilità di un soggetto. Per voi qual è l´elemento centrale di questa seduzione, che chiamiamo bellezza?
GALIMBERTI - «Direi l´intensità. Più che la forma e l´armonia, l´intensità di un volto ti dice quanta anima c´è. Anima animale, intendo. E l´intensità è data dallo sguardo e dalla mobilità del volto. Da questa sono attratto, molto più che dall´armonia, che può essere statica e non sedurre affatto».
PERICOLI - «Concordo, l´intensità. Forse anche per questo il volto da cui sono meno attratto è il mio. Lo trovo poco intenso e poco espressivo, e faccio una gran fatica a disegnarlo. Mi seducono invece i volti che mi suggeriscono una quantità di possibili ritratti, che potrei disegnare in dieci modi diversi».
GALIMBERTI - «E´normale: poiché il volto manifesta più di quanto sai di te, è faticoso ritrarre se stessi. Scusi, Pericoli: ma ha mai ritratto Pintor? Perché non è tanto diverso da lui, e lui era bello intenso. Anche il suo viso lo è, solo che lei non vede questa intensità e non ce la fa a riprodurla».
Pericoli, si esercita mai a ritrarre lo stesso viso a distanza di anni?
PERICOLI - «Certo, ed è un esercizio che mi piace molto. Il cambiamento, l´accumulo... Però c´è anche un momento, nella vita, in cui un viso raggiunge la sua perfezione, e capisci che resterà quel viso lì».
GALIMBERTI - «Si arriva a quel viso, una faccia quieta che governa se stessa, nel momento in cui conquisti l´accettazione incondizionata di quello che sei. Non sei più in guerra con te stesso, con la tua ombra. Ammetti: ebbene sì, sono anche questo. Nietzsche lo dice bene: diventa ciò che sei. E per me questa frase potrebbe essere lo stemma dell´intera psicoanalisi».
Mai incontrato un viso irritraibile?
PERICOLI - «Sì. Non so perché, ma è Nabokov. Apparentemente ha degli elementi facili: un bel naso grosso, una certa pappagorgia... In realtà non c´è mai, è inafferrabile come le sue farfalle. E io non sono mai riuscito ad acchiapparlo».
Un´ultima cosa sull´attuale declino del volto. Cent´anni fa era sufficiente spedire una foto per organizzare un matrimonio, oggi con internet si possono raggiungere incresciose intimità senza mai vedersi. Il volto sembra perdere valore e differenza, per adeguarsi a standard di bellezza imposti dalla moda.
GALIMBERTI - «C´è un processo di fortissima decorporizzazione, e l´erotismo non passa più per il confronto dei corpi ma attraverso la visione, tipo internet o tv, o addirittura per via fonica. E´ un sintomo grave che ci si possa sposare anche senza mai essersi visti in faccia, perché vuol dire che la relazione prescinde dalla corporeità. Direi che stiamo recuperando, a un livello degradato, un atteggiamento religioso. Cosa diceva la religione? Che il corpo è carne da redimere, come se fosse una cosa sporca. Sotto il profilo igienico, oggi viviamo qualcosa di simile: il corpo va profumato, corretto, costruito. Il modello è generalmente televisivo, e il corpo è perennemente inadeguato. Per cui, se vuoi evitare la depressione, o te lo costruisci o lo rimuovi».
PERICOLI - «Però, proprio dalla tv ci viene anche un´altra cosa, e cioè un´esasperazione dei primi piani che ci permette di cogliere i dettagli espressivi di un volto in modo molto forte. Grazie alla tv, posso dire di conoscere benissimo Maurizio Costanzo, di sapere tutto di lui. E che dire della faccia di Bush? Certi zoom ne rivelano una diabolicità cui non avremmo accesso, altrimenti. Perché nessuno può stare in posa per dieci minuti, parlando. La telecamera ti stana. Non è un caso che Berlusconi pretenda che davanti all´obiettivo venga messa una calza. Insomma, non so se è un bene o un male, ma ci siamo creati un archivio personale delle facce che ci governano, ci raccontano le storie, ci istruiscono. La tv ce li impone ma ci dà anche informazioni preziose su costoro. E tutti questi dettagli, che registriamo anche senza saperlo, prima o poi sbucheranno fuori, da qualche parte».
evoluzione
Le Scienze 25.06.2003
Il genoma e l’evoluzione umana
Il 5 per cento del genoma è costituito da regioni fragili, suscettibili di una ridistribuzione dei geni
Ricercatori della Jacobs School of Engineering dell’Università della California di San Diego (UCSD) hanno scoperto circa 400 regioni “fragili” del genoma umano che, con ogni probabilità, potrebbero ospitare in futuro grandi cambiamenti evolutivi. In tutto queste regioni costituiscono il 5 per cento dell’intero genoma umano.
La scoperta, descritta in un articolo pubblicato sul numero del 24 giugno della rivista “Proceedings of the National Academy of Sciences", contraddice l’ipotesi secondo cui i “punti di rottura” evolutivi (soggetti cioè a una ridistribuzione nell’ordine dei geni sui cromosomi) sono puramente casuali. A parte le sue implicazioni per la teoria dell’evoluzione, lo studio potrebbe avere forti conseguenze per la ricerca medica per quanto riguarda malattie, come la leucemia, che sono causate da rotture cromosomali cliniche e non evolutive.
“Queste ridistribuzioni - commenta Pavel Pevzner, autore dello studio insieme a Glenn Tesler - sono come i terremoti, che hanno maggiore probabilità di verificarsi lungo determinate linee di faglia. Allo stesso modo, nel genoma umano ci sono delle regioni fragili, contrapposte a regioni più solide che mostrano minor propensione a subire ridistribuzioni e che rappresentano il 95 per cento del genoma”.
Pevzner e Tesler sono esperti di bioinformatica, scienza che prevede l’uso dei computer e della matematica per lo studio del genoma, e la loro ricerca è nata dai primi giganteschi progetti di sequenziamento genomico. Confrontando le sequenze dei genomi di topo e uomo (evolutisi da un comune antenato 75 milioni di anni fa), i due scienziati hanno individuato le principali modifiche avvenute nel corso del tempo, scoprendo che le rotture non sono casuali né distribuite in modo uniforme, ma si verificano soprattutto in determinate regioni del genoma.
© 1999 - 2003 Le Scienze S.p.A.
Il genoma e l’evoluzione umana
Il 5 per cento del genoma è costituito da regioni fragili, suscettibili di una ridistribuzione dei geni
Ricercatori della Jacobs School of Engineering dell’Università della California di San Diego (UCSD) hanno scoperto circa 400 regioni “fragili” del genoma umano che, con ogni probabilità, potrebbero ospitare in futuro grandi cambiamenti evolutivi. In tutto queste regioni costituiscono il 5 per cento dell’intero genoma umano.
La scoperta, descritta in un articolo pubblicato sul numero del 24 giugno della rivista “Proceedings of the National Academy of Sciences", contraddice l’ipotesi secondo cui i “punti di rottura” evolutivi (soggetti cioè a una ridistribuzione nell’ordine dei geni sui cromosomi) sono puramente casuali. A parte le sue implicazioni per la teoria dell’evoluzione, lo studio potrebbe avere forti conseguenze per la ricerca medica per quanto riguarda malattie, come la leucemia, che sono causate da rotture cromosomali cliniche e non evolutive.
“Queste ridistribuzioni - commenta Pavel Pevzner, autore dello studio insieme a Glenn Tesler - sono come i terremoti, che hanno maggiore probabilità di verificarsi lungo determinate linee di faglia. Allo stesso modo, nel genoma umano ci sono delle regioni fragili, contrapposte a regioni più solide che mostrano minor propensione a subire ridistribuzioni e che rappresentano il 95 per cento del genoma”.
Pevzner e Tesler sono esperti di bioinformatica, scienza che prevede l’uso dei computer e della matematica per lo studio del genoma, e la loro ricerca è nata dai primi giganteschi progetti di sequenziamento genomico. Confrontando le sequenze dei genomi di topo e uomo (evolutisi da un comune antenato 75 milioni di anni fa), i due scienziati hanno individuato le principali modifiche avvenute nel corso del tempo, scoprendo che le rotture non sono casuali né distribuite in modo uniforme, ma si verificano soprattutto in determinate regioni del genoma.
© 1999 - 2003 Le Scienze S.p.A.
giovedì 26 giugno 2003
Briguglia: un altro attore di Buongiorno notte
La Gazzetta di Parma 26.6.03
Notato nel film di Marco Tullio Giordana, I cento passi, in cui faceva il fratello di Peppino Impastato, Briguglia ha appena terminato un altro lavoro importante.
«Ho recitato in Buongiorno notte, il film di Marco Bellocchio sul caso Moro. Anche qui c'è molta attenzione alla psicologia. La storia infatti è vista attraverso gli occhi una ragazza che fa parte della banda dei terroristi di cui si segue lo sfaldamento psicologico e della personalità. La ragazza è l'unica che ha un lavoro di copertura e incontra così un obiettore di coscienza, il mio personaggio, con cui ci sarà un forte scambio umano e sentimentale. Da lì la sua scelta finale, che non rivelo».
da un articolo di Lara Ampollini
Notato nel film di Marco Tullio Giordana, I cento passi, in cui faceva il fratello di Peppino Impastato, Briguglia ha appena terminato un altro lavoro importante.
«Ho recitato in Buongiorno notte, il film di Marco Bellocchio sul caso Moro. Anche qui c'è molta attenzione alla psicologia. La storia infatti è vista attraverso gli occhi una ragazza che fa parte della banda dei terroristi di cui si segue lo sfaldamento psicologico e della personalità. La ragazza è l'unica che ha un lavoro di copertura e incontra così un obiettore di coscienza, il mio personaggio, con cui ci sarà un forte scambio umano e sentimentale. Da lì la sua scelta finale, che non rivelo».
da un articolo di Lara Ampollini
mondo islamico: gli studenti di Teheran
La Repubblica 26.6.03
In Parlamento 165 deputati lanciano un appello a Khatami
Primi provvedimenti giudiziari contro gli universitari
Iran, gli studenti resistono "Lotteremo fino alla fine"
Viaggio tra i ragazzi che organizzano la rivolta
Una lettera al presidente pubblicata ieri: "E´ la nostra ultima offerta di dialogo dopo non ci riconosceremo più nello Stato"
Si preparano grandi cortei per il 9 luglio, anniversario delle mobilitazioni del 1999. Almeno 320 manifestanti ancora in carcere
di Vanna Vannuccini
TEHERAN - «Chiuda gli occhi e pensi a Dio». Mariam, la massaggiatrice che lavora alla piscina "Conchiglia", a due passi dalla piazza Vakhdat, dice sempre così alle clienti prima di cominciare il massaggio. E´ una donna molto pia. Non dimentica mai di lodare Iddio, né di terminare ogni pensiero con le parole: se Dio vorrà. Oggi Mariam ringrazia il Signore per una ragione speciale. Ha appena letto sui giornali che Tony Blair ha detto che gli studenti iraniani «meritano il nostro appoggio». Di quale natura potrà essere questo appoggio non l´ha precisato, ma la parola è bastata a illuminare il cuore di Mariam - che ormai, come dice lei, è «annerito»: da una vita di fatiche di preoccupazioni e di disagi.
Mariam è separata dal marito, ha due figli che mantiene. Uno sta facendo in questi giorni gli esami di ammissione all´Università , l´altro studia economia. «Se non entro mi ammazzo», ha annunciato il primo alla madre. Ogni anno si presentano all´ammissione migliaia di studenti, le quote sono basse e chi non ce la fa, se vuole studiare, deve andare in una università Azad, che sono a pagamento. Mariam non potrebbe permettersi di pagarla. Tutti e due i suoi figli hanno partecipato alle manifestazioni di questi giorni. Lei non ha macchina, e perciò non è andata a suonare il clacson per solidarietà, ma i manifestanti hanno tutto il suo appoggio. Comunque, la sera, seguiva tutto in tv. Le tv che trasmettono da Los Angeles, naturalmente. Ha mai incontrato qualcuno che guarda la televisione iraniana? Negli ultimi giorni però non vede più nulla. Nel quartiere dove abita è stato tutto oscurato, e lei si sente inquieta, a non avere notizie. Le sembra di soffocare. Tutti soffocano, in questo clima. Ma mai i giovani si erano trovati in una situazione come oggi: da qualsiasi parte si rivolgano, trovano solo porte chiuse. «E tutto per far arricchire gente come Rafsanjani o Askaroladi. Tanto vale che il petrolio se lo prendano gli inglesi e gli americani e che però gli iraniani abbiano almeno la libertà di respirare» dice Mariam.
«Ormai, però, il tempo è scaduto» sospira. «E´ l´inizio della fine». Non c´è nessuno con cui abbia parlato in questi giorni a Teheran che non mi abbia detto queste tre parole: l´inizio della fine. Mariam ci mette solo un po´ di ottimismo in più: secondo lei la fine potrebbe venire già il 18 Tir: il 9 di luglio, anniversario delle manifestazioni studentesche di tre anni fa. Il 18 Tir allora aveva segnato l´inizio della fine della credibilità del presidente riformatore Khatami. Gli studenti assaliti nei dormitori da polizia e basiji gridavano: «Khatami ti vogliamo bene!». Ma il presidente non si fece vedere. E lasciò che venisse chiuso il giornale riformista per il quale gli studenti manifestavano.
Nemmeno tre anni dopo il 18 Tir passerà inosservato. Il movimento studentesco si propone come la sola opposizione, ora che le riforme sono fallite. I rappresentanti di tutti i gruppi studenteschi hanno firmato una lettera a Khatami, pubblicata ieri dai giornali. «Signor Presidente, o Lei e il parlamento realizzate subito le riforme democratiche promesse o noi non ci riconosceremo più nello Stato Islamico. Questa è la nostra ultima offerta di dialogo. Dopo non ci rivolgeremo più agli organi eletti della Repubblica, che si sono dimostrati inetti, ma all´Onu, e alle Organizzazioni per i Diritti Umani. Qui sotto sono scritti i nostri nomi. Siamo pronti a pagare di persona».
Said Razavi Faghih, del Movimento per il rafforzamento dell´unità (il vecchio movimento studentesco che sul sito Internet ha già cambiato nome e si chiama più chiaramente Rafforzamento della Democrazia) è uno dei firmatari della lettera. Nella redazione di Yas e no ci fa vedere la bozza. «Finora il Movimento studentesco aveva sostenuto le manifestazioni con eccessiva prudenza» dice Razavi. «Non siamo abituati alle manifestazioni spontanee, ci vengono dubbi: ma questi chi sono? agiscono da soli? sono strumenti di qualcuno? Ma quando abbiamo visto la quantità di gente di ogni ceto e di ogni età che sosteneva le manifestazioni abbiamo capito: è tutta la società iraniana che chiede di voltare pagina».
Bahram e Haleh, con cui parliamo poco dopo, sono disposti a seguire il Movimento, ci dicono quando ne parliamo più tardi. Bahram studia all´università Shahid Beheshti e Haleh al liceo Zeinab. Bahram viene da Gonbad, e dopo la fine delle lezioni, in attesa degli esami è tornato a casa a Gonbad a studiare. Martedì ha fatto ritorno a Teheran e nella Casa dello studente dove vive ha trovato una citazione del Tribunale Rivoluzionario. Lo accusano di aver commesso violenze la notte in cui i basiji dettero l´assalto ai dormitori studenteschi. Lui era a Gonbad, ma il Tribunale rivoluzionario minaccia: «Abbiamo le foto che dimostrano la tua colpa!». Sabato prossimo il padre, arrivato apposta da Gonbad, l´accompagnerà in Tribunale e chiederà che ai giudici che gli mostrino le loro «prove». Ma da nessuna parte come in Iran è vero il proverbio che dice: «Davanti ai giudici e in alto mare non resta che raccomandarsi a Dio».
Già il capo del potere giudiziario Yazdì ha promesso durante la preghiera del Venerdì «punizioni esemplari» per i dimostranti. Almeno trecentoventi studenti restano in carcere, o peggio ancora, nessuno sa dove siano. I parlamentari che li difendono vengono minacciati di morte, attaccati da gangster armati. Su tutti i giornali è comparsa ieri la foto di Abdul Mohammad Nezam Eslami, deputato di Burujerd, e firmatario insieme al altri 165 parlamentari di una lettera a Khatami. Con un braccio rotto, Nezam Eslami ha denunciato in parlamento di essere stato inseguito e buttato fuori di strada da una macchina dei soliti «senza uniforme». La sua automobile è finita in una vallata. Lui si è salvato per miracolo. Altri deputati volevano denunciare simili violenze e minacce, ma la minoranza conservatrice ululava. Il capo del Parlamento Kharrubi, che non è eroe, ha chiuso la seduta.
Haleh, la studentessa liceale, non si è finora mai interessata di politica. I giornali le sembrano noiosi, non li legge. Eppure anche lei ha partecipato alle dimostrazioni. Quello di cui si lamenta non è la mancanza della democrazia, ma di non trovare spazi per la sua vita privata. Tutto di nascosto bisogna fare. E ora i basiji hanno ricominciato perfino a fermare le ragazze che portano i ropush corti al ginocchio. «Che vita» dice Haleh. «La prima volta sopporti, la seconda cerchi di farla franca ma col tempo ti si accumula un´irritazione, una stanchezza. Li detesti. Li odii. Con tutte le tue forze». «La scontentezza per una vita che non si riesce a vivere è diventato in Iran il fermento della ribellione politica di molti giovani» racconta la psicologa Mariam Ramshet. Per il regime può essere un pericolo ancora maggiore delle proteste a carattere politico. Soprattutto oggi che il regime ha perso qualsiasi restante briciolo di legittimità, le imposizioni fanno molto più male.
In Parlamento 165 deputati lanciano un appello a Khatami
Primi provvedimenti giudiziari contro gli universitari
Iran, gli studenti resistono "Lotteremo fino alla fine"
Viaggio tra i ragazzi che organizzano la rivolta
Una lettera al presidente pubblicata ieri: "E´ la nostra ultima offerta di dialogo dopo non ci riconosceremo più nello Stato"
Si preparano grandi cortei per il 9 luglio, anniversario delle mobilitazioni del 1999. Almeno 320 manifestanti ancora in carcere
di Vanna Vannuccini
TEHERAN - «Chiuda gli occhi e pensi a Dio». Mariam, la massaggiatrice che lavora alla piscina "Conchiglia", a due passi dalla piazza Vakhdat, dice sempre così alle clienti prima di cominciare il massaggio. E´ una donna molto pia. Non dimentica mai di lodare Iddio, né di terminare ogni pensiero con le parole: se Dio vorrà. Oggi Mariam ringrazia il Signore per una ragione speciale. Ha appena letto sui giornali che Tony Blair ha detto che gli studenti iraniani «meritano il nostro appoggio». Di quale natura potrà essere questo appoggio non l´ha precisato, ma la parola è bastata a illuminare il cuore di Mariam - che ormai, come dice lei, è «annerito»: da una vita di fatiche di preoccupazioni e di disagi.
Mariam è separata dal marito, ha due figli che mantiene. Uno sta facendo in questi giorni gli esami di ammissione all´Università , l´altro studia economia. «Se non entro mi ammazzo», ha annunciato il primo alla madre. Ogni anno si presentano all´ammissione migliaia di studenti, le quote sono basse e chi non ce la fa, se vuole studiare, deve andare in una università Azad, che sono a pagamento. Mariam non potrebbe permettersi di pagarla. Tutti e due i suoi figli hanno partecipato alle manifestazioni di questi giorni. Lei non ha macchina, e perciò non è andata a suonare il clacson per solidarietà, ma i manifestanti hanno tutto il suo appoggio. Comunque, la sera, seguiva tutto in tv. Le tv che trasmettono da Los Angeles, naturalmente. Ha mai incontrato qualcuno che guarda la televisione iraniana? Negli ultimi giorni però non vede più nulla. Nel quartiere dove abita è stato tutto oscurato, e lei si sente inquieta, a non avere notizie. Le sembra di soffocare. Tutti soffocano, in questo clima. Ma mai i giovani si erano trovati in una situazione come oggi: da qualsiasi parte si rivolgano, trovano solo porte chiuse. «E tutto per far arricchire gente come Rafsanjani o Askaroladi. Tanto vale che il petrolio se lo prendano gli inglesi e gli americani e che però gli iraniani abbiano almeno la libertà di respirare» dice Mariam.
«Ormai, però, il tempo è scaduto» sospira. «E´ l´inizio della fine». Non c´è nessuno con cui abbia parlato in questi giorni a Teheran che non mi abbia detto queste tre parole: l´inizio della fine. Mariam ci mette solo un po´ di ottimismo in più: secondo lei la fine potrebbe venire già il 18 Tir: il 9 di luglio, anniversario delle manifestazioni studentesche di tre anni fa. Il 18 Tir allora aveva segnato l´inizio della fine della credibilità del presidente riformatore Khatami. Gli studenti assaliti nei dormitori da polizia e basiji gridavano: «Khatami ti vogliamo bene!». Ma il presidente non si fece vedere. E lasciò che venisse chiuso il giornale riformista per il quale gli studenti manifestavano.
Nemmeno tre anni dopo il 18 Tir passerà inosservato. Il movimento studentesco si propone come la sola opposizione, ora che le riforme sono fallite. I rappresentanti di tutti i gruppi studenteschi hanno firmato una lettera a Khatami, pubblicata ieri dai giornali. «Signor Presidente, o Lei e il parlamento realizzate subito le riforme democratiche promesse o noi non ci riconosceremo più nello Stato Islamico. Questa è la nostra ultima offerta di dialogo. Dopo non ci rivolgeremo più agli organi eletti della Repubblica, che si sono dimostrati inetti, ma all´Onu, e alle Organizzazioni per i Diritti Umani. Qui sotto sono scritti i nostri nomi. Siamo pronti a pagare di persona».
Said Razavi Faghih, del Movimento per il rafforzamento dell´unità (il vecchio movimento studentesco che sul sito Internet ha già cambiato nome e si chiama più chiaramente Rafforzamento della Democrazia) è uno dei firmatari della lettera. Nella redazione di Yas e no ci fa vedere la bozza. «Finora il Movimento studentesco aveva sostenuto le manifestazioni con eccessiva prudenza» dice Razavi. «Non siamo abituati alle manifestazioni spontanee, ci vengono dubbi: ma questi chi sono? agiscono da soli? sono strumenti di qualcuno? Ma quando abbiamo visto la quantità di gente di ogni ceto e di ogni età che sosteneva le manifestazioni abbiamo capito: è tutta la società iraniana che chiede di voltare pagina».
Bahram e Haleh, con cui parliamo poco dopo, sono disposti a seguire il Movimento, ci dicono quando ne parliamo più tardi. Bahram studia all´università Shahid Beheshti e Haleh al liceo Zeinab. Bahram viene da Gonbad, e dopo la fine delle lezioni, in attesa degli esami è tornato a casa a Gonbad a studiare. Martedì ha fatto ritorno a Teheran e nella Casa dello studente dove vive ha trovato una citazione del Tribunale Rivoluzionario. Lo accusano di aver commesso violenze la notte in cui i basiji dettero l´assalto ai dormitori studenteschi. Lui era a Gonbad, ma il Tribunale rivoluzionario minaccia: «Abbiamo le foto che dimostrano la tua colpa!». Sabato prossimo il padre, arrivato apposta da Gonbad, l´accompagnerà in Tribunale e chiederà che ai giudici che gli mostrino le loro «prove». Ma da nessuna parte come in Iran è vero il proverbio che dice: «Davanti ai giudici e in alto mare non resta che raccomandarsi a Dio».
Già il capo del potere giudiziario Yazdì ha promesso durante la preghiera del Venerdì «punizioni esemplari» per i dimostranti. Almeno trecentoventi studenti restano in carcere, o peggio ancora, nessuno sa dove siano. I parlamentari che li difendono vengono minacciati di morte, attaccati da gangster armati. Su tutti i giornali è comparsa ieri la foto di Abdul Mohammad Nezam Eslami, deputato di Burujerd, e firmatario insieme al altri 165 parlamentari di una lettera a Khatami. Con un braccio rotto, Nezam Eslami ha denunciato in parlamento di essere stato inseguito e buttato fuori di strada da una macchina dei soliti «senza uniforme». La sua automobile è finita in una vallata. Lui si è salvato per miracolo. Altri deputati volevano denunciare simili violenze e minacce, ma la minoranza conservatrice ululava. Il capo del Parlamento Kharrubi, che non è eroe, ha chiuso la seduta.
Haleh, la studentessa liceale, non si è finora mai interessata di politica. I giornali le sembrano noiosi, non li legge. Eppure anche lei ha partecipato alle dimostrazioni. Quello di cui si lamenta non è la mancanza della democrazia, ma di non trovare spazi per la sua vita privata. Tutto di nascosto bisogna fare. E ora i basiji hanno ricominciato perfino a fermare le ragazze che portano i ropush corti al ginocchio. «Che vita» dice Haleh. «La prima volta sopporti, la seconda cerchi di farla franca ma col tempo ti si accumula un´irritazione, una stanchezza. Li detesti. Li odii. Con tutte le tue forze». «La scontentezza per una vita che non si riesce a vivere è diventato in Iran il fermento della ribellione politica di molti giovani» racconta la psicologa Mariam Ramshet. Per il regime può essere un pericolo ancora maggiore delle proteste a carattere politico. Soprattutto oggi che il regime ha perso qualsiasi restante briciolo di legittimità, le imposizioni fanno molto più male.
buona volontà...
Corriere della Sera 26.6.03
«La bravata è indice di malessere»
MILANO - Bravate che si trasformano in violenti gesti di distruzione, ma anche vetri e banchi rotti per gioco. Il catalogo dei vandalismi è ampio ed eterogeneo, ma che cosa spinge uno studente ad accanirsi contro la scuola che lo ospita? «Le cause sono diverse - spiega Alfio Maggiolini, docente di Psicologia dell'adolescenza all'Università Bicocca e coordinatore dell'équipe psicologica del Centro giustizia minorile di Milano -. A mio parere, sono due però i fattori che caratterizzano le situazioni più a rischio. Da una parte, accadono maggiori atti vandalici dove c'è scarsa cura della struttura scolastica da parte degli stessi adulti. Basta poco, infatti, per innescare un circolo vizioso. Un ritardo nel sostituire una porta rotta o la trascuratezza nella pulizia e nel decoro dell'edificio possono trasformarsi in un messaggio di scarso rispetto verso la scuola, immediatamente recepito dall'adolescente».
L’altra causa scatenante, secondo lo psicologo, è la carenza di comunicazione tra gli studenti e i professori. «In alcune scuole - precisa Maggiolini - i ragazzi hanno poche possibilità di esprimersi. Allora il gesto di trasgressione è il modo di gridare una protesta verso un luogo dove non si è a proprio agio, un luogo dove non si riesce ad esprimere la propria voce».
Emblematico il caso di una classe di un istituto superiore, dove i ragazzi avevano scavato per mesi un buco nel muro, come in un'ipotetica prigione. Un senso di disagio ed esclusione vissuto anche dagli ex studenti, spesso responsabili di incursioni notturne e danneggiamenti verso la scuola che non li accoglie più.
E allora che cosa fare? «Anche una maggiore sorveglianza può senza dubbio servire - conclude l'educatore -, ma occorre soprattutto che la scuola diventi un luogo di scambio e dialogo tra docenti e studenti, dove la crescita culturale sia legata a doppio filo a quella umana».
«La bravata è indice di malessere»
MILANO - Bravate che si trasformano in violenti gesti di distruzione, ma anche vetri e banchi rotti per gioco. Il catalogo dei vandalismi è ampio ed eterogeneo, ma che cosa spinge uno studente ad accanirsi contro la scuola che lo ospita? «Le cause sono diverse - spiega Alfio Maggiolini, docente di Psicologia dell'adolescenza all'Università Bicocca e coordinatore dell'équipe psicologica del Centro giustizia minorile di Milano -. A mio parere, sono due però i fattori che caratterizzano le situazioni più a rischio. Da una parte, accadono maggiori atti vandalici dove c'è scarsa cura della struttura scolastica da parte degli stessi adulti. Basta poco, infatti, per innescare un circolo vizioso. Un ritardo nel sostituire una porta rotta o la trascuratezza nella pulizia e nel decoro dell'edificio possono trasformarsi in un messaggio di scarso rispetto verso la scuola, immediatamente recepito dall'adolescente».
L’altra causa scatenante, secondo lo psicologo, è la carenza di comunicazione tra gli studenti e i professori. «In alcune scuole - precisa Maggiolini - i ragazzi hanno poche possibilità di esprimersi. Allora il gesto di trasgressione è il modo di gridare una protesta verso un luogo dove non si è a proprio agio, un luogo dove non si riesce ad esprimere la propria voce».
Emblematico il caso di una classe di un istituto superiore, dove i ragazzi avevano scavato per mesi un buco nel muro, come in un'ipotetica prigione. Un senso di disagio ed esclusione vissuto anche dagli ex studenti, spesso responsabili di incursioni notturne e danneggiamenti verso la scuola che non li accoglie più.
E allora che cosa fare? «Anche una maggiore sorveglianza può senza dubbio servire - conclude l'educatore -, ma occorre soprattutto che la scuola diventi un luogo di scambio e dialogo tra docenti e studenti, dove la crescita culturale sia legata a doppio filo a quella umana».
"soffriva di depressione e di schizofrenia"
La repubblica 26.6.03
NEL DESERTO DI WALSER
Soffriva di depressione e di schizofrenia La sua arte lo spinse a cancellarsi
Era il gennaio del 1929, quando fu accolto a Berna nell´istituto per malati di mente
Le forme di catatonia da cui era afflitto ricordavano piccoli esercizi taoisti
Scriveva preferibilmente a matita e sui margini del foglio con una grafia minuta
Fleur Jaeger
Si richiede: un vestito di lana per l´inverno, di buona qualità. Un vestito per l´estate, di buona qualità. Otto magliette bianche, dieci paia di calze, dodici fazzoletti, due paia di scarpe di cuoio senza borchie. I vestiti devono essere nuovi o in ottimo stato. Ciò che manca o non è in buone condizioni verrà, senza altro avviso, messo in conto nella retta del manicomio se entro un mese dall´ingresso nell´istituto il paziente non lo fornisce.
La direzione controlla la corrispondenza.
Se un paziente muore prematuramente, entro il trimestre, l´anticipo della retta verrà restituito.
Queste sono le regole della Heilanstalt Waldau a Berna, istituto per malati di mente. Il 25 gennaio 1929 vi entra Robert Walser, scrittore e piuttosto indigente. «Innanzitutto qui dentro farò in modo di essere contento e tranquillo» scrive alla sorella Lisa. «Es ist nett, è carino poter ascoltare musica alla radio». Uno psichiatra, il Dottor Morgenthaler, ha consigliato di internare Robert Walser. I motivi: depressione e tentativi di suicidio. Anche un fratello dello scrittore si è suicidato, e un altro è morto nella stessa Heilanstalt Waldau. Robert Walser accenna ad alcuni tentativi di suicidio che definisce «hilflos». Alla lettera, hilflos significa «inerme». Così sarebbe: inermi tentativi di suicidio. Questa singolare espressione accenna a tentativi non riusciti, senza esito, vani. O suicidi senza infelicità, se si pensa al caso di Walser. La parola «inerme» sembra dopotutto la più adatta. Inoltre hilflos significa anche «privo di aiuto». Si potrebbe così supporre che un suicidio abbia bisogno di avere un aiuto per giungere a un buon esito. Aiuto che si potrebbe definire «volontà suicidale».
Aveva forse R. W. una volontà suicidale? Era diffidente, circospetto verso il suicidio. Verso la grande volontà. Si sentiva stanco. Non riteneva il suicidio un gesto estremo. Non è infelice, in cuor suo considera beati coloro che possono essere disperati. Forse un suicidio può compiersi senza disperazione, per un labile desiderio di morte. Un labile desiderio che potrebbe averlo accompagnato da quando sentiva höhnische Stimmen, «voci beffarde», che lo perseguitavano. E forse da molto prima, da quando scriveva alla sorella Lisa che a Dio non piacciono le persone tristi. Anzi, scriveva: «Gott hasst die Traurigen. Dio odia i tristi». E aggiungeva: «Versimple nur. Semplifica». Non farla lunga. Anche qui si potrebbe riflettere sulla traduzione: pare che quel «versimpeln» possa significare: «minimizzare». Walser scrive: «Es ist etwas Herrliches um´ s Versimpeln. C´è qualcosa di splendido nel semplificare». O anche: «È bello semplificare». Quanto a lui, si definisce «ein gefühlloser Halunke», un mascalzone, un malandrino - meglio la parola tedesca: un Halunke «senza sentimenti». Allora forse Walser era già incline, silenziosamente incline, senza sentimenti, agli «hilflose Selbstomordversuche», ai suicidi inermi. Si attribuisce «un paio di tentativi abborracciati» di togliersi la vita. Non è neppure riuscito a fare un cappio come si deve.
Un referto del prof. Kuhn dice che R. W. è affetto da typische stuporöse Katatonie. Da tipica catatonia stuporosa. Come si presenta R. W. in quanto tipico caso di una tipica catatonia stuporosa? R.W. è un esemplare tipico? Com´è la sua immagine? Forse ha qualcosa nello sguardo, una luce, una irradiazione maligna, uno smarrimento, una vaga ebetudine. O una «tipica» ebetudine. Una tipica ebetudine che si manifesta nei gesti remissivi. Nel non agire. Nel dire, senza dirlo: «No, grazie». Che cosa è tipico e che cosa non lo è? O è una parodia di un qualche paziente che Walser ha osservato? Forse la tipica catatonia del paziente Walser non è che un piccolo esercizio taoista.
Ora lui è a Herisau, contro la sua volontà. Internato per sempre. Non scrive più. Non vuole più sentire referti medici, illazioni, domande. Non vuole più rispondere. Vuole tacere. Che altro c´è ancora? Morirà un giorno di Natale durante una passeggiata. Questo non basta? Cerca di essere come tutti, che strana idea. Lui non lo è. Non può essere come tutti. Lui è senza sentimenti. Vorrebbe essere niente. Questo è molto ambizioso. Tra l´altro, ausserdem, è bello essere niente, es hat eine höhere Glut, als da Etwas zu sein. Essere niente ha «un ardore più alto che essere qualcosa». «Ausserdem ist es gerade so schön, nichts zu sein, es hat eine höhere Glut, als das Etwas zu sein».
«Es ist nett, es ist hübsch, es ist schön». È carino, è grazioso, è bello. Questo avrebbe potuto dire R. W. ascoltando la frase: «Preferisco di no». Che è di Bartleby, scrivano e ancor prima impiegato subalterno nell´ufficio delle lettere smarrite a Washington. Lettere di nessuno, perdute, che saranno gettate alle fiamme. Quanto spesso quell´intercalare disarmante tornava negli scritti di Walser. Es ist nett, es ist hübsch, es ist schön. Potrebbe dare l´insonnia. Come al galoppo questi tre aggettivi ci inseguono, Walser ne cosparge la superficie, con estrema cortesia. E con altrettanta cortesia Bartleby risponde: «Preferisco di no». E se qualcuno avesse offerto a Bartleby di decifrare i microgrammi di Walser, o se fossero stati trovati tra i mucchi di carta destinati? Scritti a matita, apparentemente indecifrabili. L´inchiostro ha disgustato Walser, questo Bartleby l´avrebbe percepito, anche lui ha cominciato a disgustarsi dell´inchiostro, oltre che del resto. Del cibo. Mangiava biscotti allo zenzero. Poi non si nutrì più. La matita è più vicina all´annullarsi, al cancellarsi. A un gioco infantile. Walser scrive a Max Rychner: «...ed è copiando i miei appunti, appunti a matita che, come un bambino, riimparai a scrivere...».
Negli ultimi anni in cui Walser scrisse, la grafia diventava sempre più minuta. Quasi in una corsa frenetica, dove vocali e consonanti a volte venivano abbandonate, smangiate. Non gli basta la carta, del resto ne ha pochissima e deve accontentarsi di quella che trova. «Es ist nett, es ist hübsch, es ist schön». Un foglio del calendario: in quel pezzo deve starci tutta la storia che scrive. Può anche non finire le storie che racconta. Dipende a volte dalla dimensione dei pezzi di carta. La carta misura quindici centimetri, ebbene in quei quindici centimetri deve svolgersi la storia. La lunghezza di quel che scriveva era determinata dai centimetri o millimetri di spazio a disposizione. Ed era forse questo che attraeva Walser: coprire quello spazio vuoto. Sovrapporre al vuoto un altro vuoto. Scriveva ai margini del foglio e la grafia, sorella del linguaggio, sembrava presa da una furia, dalla furia di riempire e svanire. Dissolto ogni altro sentimento, rimaneva quel mite e inflessibile horror vacui che lo spingeva a coprire la carta, a folleggiare come uno spettro. Con una costellazione di segni, di pensieri, con una scrittura segreta, che a volte lui stesso non riusciva a decifrare. Perché poi rileggere? Ciò che è scritto, è scritto. Walser non ha più tempo. I fogli di carta sono reali, li ha appena scritti, ma la loro sostanza non è che un´illusione. Il foglio vuoto è come una Öde, un paesaggio bianco desolato. Scritti, quei fogli hanno la configurazione di un vuoto increspato. Di una distesa del deserto. Le due immagini convergono, come se il vento avesse sfiorato le dune, lasciando tracce.
NEL DESERTO DI WALSER
Soffriva di depressione e di schizofrenia La sua arte lo spinse a cancellarsi
Era il gennaio del 1929, quando fu accolto a Berna nell´istituto per malati di mente
Le forme di catatonia da cui era afflitto ricordavano piccoli esercizi taoisti
Scriveva preferibilmente a matita e sui margini del foglio con una grafia minuta
Fleur Jaeger
Si richiede: un vestito di lana per l´inverno, di buona qualità. Un vestito per l´estate, di buona qualità. Otto magliette bianche, dieci paia di calze, dodici fazzoletti, due paia di scarpe di cuoio senza borchie. I vestiti devono essere nuovi o in ottimo stato. Ciò che manca o non è in buone condizioni verrà, senza altro avviso, messo in conto nella retta del manicomio se entro un mese dall´ingresso nell´istituto il paziente non lo fornisce.
La direzione controlla la corrispondenza.
Se un paziente muore prematuramente, entro il trimestre, l´anticipo della retta verrà restituito.
Queste sono le regole della Heilanstalt Waldau a Berna, istituto per malati di mente. Il 25 gennaio 1929 vi entra Robert Walser, scrittore e piuttosto indigente. «Innanzitutto qui dentro farò in modo di essere contento e tranquillo» scrive alla sorella Lisa. «Es ist nett, è carino poter ascoltare musica alla radio». Uno psichiatra, il Dottor Morgenthaler, ha consigliato di internare Robert Walser. I motivi: depressione e tentativi di suicidio. Anche un fratello dello scrittore si è suicidato, e un altro è morto nella stessa Heilanstalt Waldau. Robert Walser accenna ad alcuni tentativi di suicidio che definisce «hilflos». Alla lettera, hilflos significa «inerme». Così sarebbe: inermi tentativi di suicidio. Questa singolare espressione accenna a tentativi non riusciti, senza esito, vani. O suicidi senza infelicità, se si pensa al caso di Walser. La parola «inerme» sembra dopotutto la più adatta. Inoltre hilflos significa anche «privo di aiuto». Si potrebbe così supporre che un suicidio abbia bisogno di avere un aiuto per giungere a un buon esito. Aiuto che si potrebbe definire «volontà suicidale».
Aveva forse R. W. una volontà suicidale? Era diffidente, circospetto verso il suicidio. Verso la grande volontà. Si sentiva stanco. Non riteneva il suicidio un gesto estremo. Non è infelice, in cuor suo considera beati coloro che possono essere disperati. Forse un suicidio può compiersi senza disperazione, per un labile desiderio di morte. Un labile desiderio che potrebbe averlo accompagnato da quando sentiva höhnische Stimmen, «voci beffarde», che lo perseguitavano. E forse da molto prima, da quando scriveva alla sorella Lisa che a Dio non piacciono le persone tristi. Anzi, scriveva: «Gott hasst die Traurigen. Dio odia i tristi». E aggiungeva: «Versimple nur. Semplifica». Non farla lunga. Anche qui si potrebbe riflettere sulla traduzione: pare che quel «versimpeln» possa significare: «minimizzare». Walser scrive: «Es ist etwas Herrliches um´ s Versimpeln. C´è qualcosa di splendido nel semplificare». O anche: «È bello semplificare». Quanto a lui, si definisce «ein gefühlloser Halunke», un mascalzone, un malandrino - meglio la parola tedesca: un Halunke «senza sentimenti». Allora forse Walser era già incline, silenziosamente incline, senza sentimenti, agli «hilflose Selbstomordversuche», ai suicidi inermi. Si attribuisce «un paio di tentativi abborracciati» di togliersi la vita. Non è neppure riuscito a fare un cappio come si deve.
Un referto del prof. Kuhn dice che R. W. è affetto da typische stuporöse Katatonie. Da tipica catatonia stuporosa. Come si presenta R. W. in quanto tipico caso di una tipica catatonia stuporosa? R.W. è un esemplare tipico? Com´è la sua immagine? Forse ha qualcosa nello sguardo, una luce, una irradiazione maligna, uno smarrimento, una vaga ebetudine. O una «tipica» ebetudine. Una tipica ebetudine che si manifesta nei gesti remissivi. Nel non agire. Nel dire, senza dirlo: «No, grazie». Che cosa è tipico e che cosa non lo è? O è una parodia di un qualche paziente che Walser ha osservato? Forse la tipica catatonia del paziente Walser non è che un piccolo esercizio taoista.
Ora lui è a Herisau, contro la sua volontà. Internato per sempre. Non scrive più. Non vuole più sentire referti medici, illazioni, domande. Non vuole più rispondere. Vuole tacere. Che altro c´è ancora? Morirà un giorno di Natale durante una passeggiata. Questo non basta? Cerca di essere come tutti, che strana idea. Lui non lo è. Non può essere come tutti. Lui è senza sentimenti. Vorrebbe essere niente. Questo è molto ambizioso. Tra l´altro, ausserdem, è bello essere niente, es hat eine höhere Glut, als da Etwas zu sein. Essere niente ha «un ardore più alto che essere qualcosa». «Ausserdem ist es gerade so schön, nichts zu sein, es hat eine höhere Glut, als das Etwas zu sein».
«Es ist nett, es ist hübsch, es ist schön». È carino, è grazioso, è bello. Questo avrebbe potuto dire R. W. ascoltando la frase: «Preferisco di no». Che è di Bartleby, scrivano e ancor prima impiegato subalterno nell´ufficio delle lettere smarrite a Washington. Lettere di nessuno, perdute, che saranno gettate alle fiamme. Quanto spesso quell´intercalare disarmante tornava negli scritti di Walser. Es ist nett, es ist hübsch, es ist schön. Potrebbe dare l´insonnia. Come al galoppo questi tre aggettivi ci inseguono, Walser ne cosparge la superficie, con estrema cortesia. E con altrettanta cortesia Bartleby risponde: «Preferisco di no». E se qualcuno avesse offerto a Bartleby di decifrare i microgrammi di Walser, o se fossero stati trovati tra i mucchi di carta destinati? Scritti a matita, apparentemente indecifrabili. L´inchiostro ha disgustato Walser, questo Bartleby l´avrebbe percepito, anche lui ha cominciato a disgustarsi dell´inchiostro, oltre che del resto. Del cibo. Mangiava biscotti allo zenzero. Poi non si nutrì più. La matita è più vicina all´annullarsi, al cancellarsi. A un gioco infantile. Walser scrive a Max Rychner: «...ed è copiando i miei appunti, appunti a matita che, come un bambino, riimparai a scrivere...».
Negli ultimi anni in cui Walser scrisse, la grafia diventava sempre più minuta. Quasi in una corsa frenetica, dove vocali e consonanti a volte venivano abbandonate, smangiate. Non gli basta la carta, del resto ne ha pochissima e deve accontentarsi di quella che trova. «Es ist nett, es ist hübsch, es ist schön». Un foglio del calendario: in quel pezzo deve starci tutta la storia che scrive. Può anche non finire le storie che racconta. Dipende a volte dalla dimensione dei pezzi di carta. La carta misura quindici centimetri, ebbene in quei quindici centimetri deve svolgersi la storia. La lunghezza di quel che scriveva era determinata dai centimetri o millimetri di spazio a disposizione. Ed era forse questo che attraeva Walser: coprire quello spazio vuoto. Sovrapporre al vuoto un altro vuoto. Scriveva ai margini del foglio e la grafia, sorella del linguaggio, sembrava presa da una furia, dalla furia di riempire e svanire. Dissolto ogni altro sentimento, rimaneva quel mite e inflessibile horror vacui che lo spingeva a coprire la carta, a folleggiare come uno spettro. Con una costellazione di segni, di pensieri, con una scrittura segreta, che a volte lui stesso non riusciva a decifrare. Perché poi rileggere? Ciò che è scritto, è scritto. Walser non ha più tempo. I fogli di carta sono reali, li ha appena scritti, ma la loro sostanza non è che un´illusione. Il foglio vuoto è come una Öde, un paesaggio bianco desolato. Scritti, quei fogli hanno la configurazione di un vuoto increspato. Di una distesa del deserto. Le due immagini convergono, come se il vento avesse sfiorato le dune, lasciando tracce.
ancora sull'elettroshock a Napoli (7)
il Nuovo.it 25.6.03
Napoli, elettroschock praticato in clinica
Un elettroshock è stato praticato su un giovane 36enne nella clinica psichiatrica dell'Università Federico II°. Ma è polemica sulle terapie violente sui malati psichici.
di Raffaele Sardo
NAPOLI -Un elettroshock praticato su un giovane 36enne nella clinica psichiatrica dell'Università Federico II° di Napoli, diretta dal professor Giovanni Muscettola, ha riaperto la vecchia querelle sull'uso di terapie violente sui malati psichici. Tecnicamente si chiama TEC (Trattamento Elettrocomvulsivo) ed è una scossa elettrica di circa 100 volts somministrata in anestesia generale attraverso uno o due elettrodi applicati ai lati della testa. Una scossa che dura frazioni di secondo e che provoca una vera e propria crisi epilettica. Una pratica terapeutica molto in voga nei manicomi appena trent'anni fa e che molti ritenevano superata con l'imporsi della cosiddetta "psichiatria democratica". Quella scuola psichiatrica che vide tra i fondatori Franco Basaglia e che considerava "i matti" non più esseri derelitti e inutili, ma persone in grado di soffrire, di amare e di gioire come tutti gli altri essere umani. "L'elettroshock era l'unica chance disponibile".
A lui e ai familiari abbiamo spiegato i motivi di ciò che volevamo fare e hanno aderito al protocollo." - dice il professor Muscettola, rivolgendosi ai suoi critici - "D'altronde - aggiunge - avevamo tentato, a vuoto, tutte le terapie farmacologiche. Preciso che non è accanimento terapeutico, ma unicamente rispetto del principio di una scelta terapeutica che, se potenzialmente utile, deve essere messa in atto anche se convenienza e preoccupazione per la propria immagine suggeriscono di non attuarla". Ma questa precisazione non ha evitato polemiche da parte di altri colleghi di Muscettola e degli stessi studenti dell'Università napoletana. Primi fra tutti gli studenti, del "Forum per il diritto alla salute". Dice Raffaele Aspide, medico e rappresentante del Forum: "La terapia è iniziata senza alcuna delle quattro indicazioni ammesse dal decreto del 1999 (depressione maggiore, sindrome catatonica, sindrome maligna, danni neurolettici e mania). E ci ha fatto rabbrividire quanto ci ha confessato un docente: l'elettroshock viene praticato da decenni in moltissime strutture private e nessuno denuncia". Ma a rincarare la dose dalle colonne del quotidiano napoletano di "Repubblica" sono arrivate le dichiarazioni del professor Pasquale Mastronardi: "Ho fatto migliaia di elettroshock nelle cliniche private della Campania, non c'è nulla di illegale né di scandaloso. Il TEC è una pratica corrente di tutta tranquillità. Mi infastidisce che ci siano colleghi che sparano sentenze senza sapere". Sinora il protocollo terapeutico, è ancora in uso soltanto all'ospedale San Raffaele di Milano e all'Università di Pisa e di Roma (la Sapienza).
Decisamente contrari all'uso dell'elettroshock Medicina Democratica e Psichiatria Democratica che ribadiscono con forza la loro opposizione alla reintroduzione di questa violenta, pericolosa e ingiustificata pratica. "Tale grave pratica - sottende, scrivono in un comunicato Medicina e Psichiatria Democratica - quel mito dell'incurabilità e dell'abbandono senza speranza, sconfitto e sconfessato dai significativi risultati ottenuti dalle mille e mille pratiche di Salute Mentale prodotte, dal 1978 in poi, nel nostro Paese". E lanciano un appello alla vigilanza democratica per bloccare e fare arretrare i tanti tentativi di restaurazione e di attacco alla sanità pubblica, cui assistiamo negli ultimi anni e per mettere in campo iniziative unitarie che rilancino la centralità dei diritti e la dignità della persona. Ma c'è anche chi, come il direttore dell'ospedale psichiatrico giudiziario "Filippo Saportito" di Aversa, lo psichiatra Adolfo Ferraro, cerca di bandire questa "terapia" definitivamente anche nelle strutture che sono rimaste fuori dalla legge 180, la pratica degli elettroshock e dei letti di contenzione: "Nell'OPG di Aversa - dice Ferraro - stiamo lavorando con corsi di formazione rivolti agli operatori, che prevedono l'eliminazione della contenzione fisica dalle strategie terapeutiche applicabili, lavorando sulle possibilità di ascoltare il paziente ed evitare l'uso di strumenti violenti e poco dignitosi verso il paziente, con un progetto titolato "Le Ali ai letti. Il punto di tutta questa polemica - spiega ancora Ferraro - non è quello della validità o meno dello strumento terapeutico, ma della evoluzione terapeutica che un approccio al malato di mente deve saper proporre, altrimenti anche una legnata in testa o un pestaggio possono essere considerati validi strumenti terapeutici". Duro anche ". Severo anche il giudizio di Sergio Piro, direttore della scuola "sperimentale antropologico-trasformazionale": "Il fatto è preoccupante perché si allinea con altri elementi di regressione nella riforma psichiatrica. Qui si rischia di nuovo la legatura nei servizi psichiatrici, la trasformazione delle case-famiglia in reparti chiusi e la riapertura di manicomi come il Frullone di Napoli".
Napoli, elettroschock praticato in clinica
Un elettroshock è stato praticato su un giovane 36enne nella clinica psichiatrica dell'Università Federico II°. Ma è polemica sulle terapie violente sui malati psichici.
di Raffaele Sardo
NAPOLI -Un elettroshock praticato su un giovane 36enne nella clinica psichiatrica dell'Università Federico II° di Napoli, diretta dal professor Giovanni Muscettola, ha riaperto la vecchia querelle sull'uso di terapie violente sui malati psichici. Tecnicamente si chiama TEC (Trattamento Elettrocomvulsivo) ed è una scossa elettrica di circa 100 volts somministrata in anestesia generale attraverso uno o due elettrodi applicati ai lati della testa. Una scossa che dura frazioni di secondo e che provoca una vera e propria crisi epilettica. Una pratica terapeutica molto in voga nei manicomi appena trent'anni fa e che molti ritenevano superata con l'imporsi della cosiddetta "psichiatria democratica". Quella scuola psichiatrica che vide tra i fondatori Franco Basaglia e che considerava "i matti" non più esseri derelitti e inutili, ma persone in grado di soffrire, di amare e di gioire come tutti gli altri essere umani. "L'elettroshock era l'unica chance disponibile".
A lui e ai familiari abbiamo spiegato i motivi di ciò che volevamo fare e hanno aderito al protocollo." - dice il professor Muscettola, rivolgendosi ai suoi critici - "D'altronde - aggiunge - avevamo tentato, a vuoto, tutte le terapie farmacologiche. Preciso che non è accanimento terapeutico, ma unicamente rispetto del principio di una scelta terapeutica che, se potenzialmente utile, deve essere messa in atto anche se convenienza e preoccupazione per la propria immagine suggeriscono di non attuarla". Ma questa precisazione non ha evitato polemiche da parte di altri colleghi di Muscettola e degli stessi studenti dell'Università napoletana. Primi fra tutti gli studenti, del "Forum per il diritto alla salute". Dice Raffaele Aspide, medico e rappresentante del Forum: "La terapia è iniziata senza alcuna delle quattro indicazioni ammesse dal decreto del 1999 (depressione maggiore, sindrome catatonica, sindrome maligna, danni neurolettici e mania). E ci ha fatto rabbrividire quanto ci ha confessato un docente: l'elettroshock viene praticato da decenni in moltissime strutture private e nessuno denuncia". Ma a rincarare la dose dalle colonne del quotidiano napoletano di "Repubblica" sono arrivate le dichiarazioni del professor Pasquale Mastronardi: "Ho fatto migliaia di elettroshock nelle cliniche private della Campania, non c'è nulla di illegale né di scandaloso. Il TEC è una pratica corrente di tutta tranquillità. Mi infastidisce che ci siano colleghi che sparano sentenze senza sapere". Sinora il protocollo terapeutico, è ancora in uso soltanto all'ospedale San Raffaele di Milano e all'Università di Pisa e di Roma (la Sapienza).
Decisamente contrari all'uso dell'elettroshock Medicina Democratica e Psichiatria Democratica che ribadiscono con forza la loro opposizione alla reintroduzione di questa violenta, pericolosa e ingiustificata pratica. "Tale grave pratica - sottende, scrivono in un comunicato Medicina e Psichiatria Democratica - quel mito dell'incurabilità e dell'abbandono senza speranza, sconfitto e sconfessato dai significativi risultati ottenuti dalle mille e mille pratiche di Salute Mentale prodotte, dal 1978 in poi, nel nostro Paese". E lanciano un appello alla vigilanza democratica per bloccare e fare arretrare i tanti tentativi di restaurazione e di attacco alla sanità pubblica, cui assistiamo negli ultimi anni e per mettere in campo iniziative unitarie che rilancino la centralità dei diritti e la dignità della persona. Ma c'è anche chi, come il direttore dell'ospedale psichiatrico giudiziario "Filippo Saportito" di Aversa, lo psichiatra Adolfo Ferraro, cerca di bandire questa "terapia" definitivamente anche nelle strutture che sono rimaste fuori dalla legge 180, la pratica degli elettroshock e dei letti di contenzione: "Nell'OPG di Aversa - dice Ferraro - stiamo lavorando con corsi di formazione rivolti agli operatori, che prevedono l'eliminazione della contenzione fisica dalle strategie terapeutiche applicabili, lavorando sulle possibilità di ascoltare il paziente ed evitare l'uso di strumenti violenti e poco dignitosi verso il paziente, con un progetto titolato "Le Ali ai letti. Il punto di tutta questa polemica - spiega ancora Ferraro - non è quello della validità o meno dello strumento terapeutico, ma della evoluzione terapeutica che un approccio al malato di mente deve saper proporre, altrimenti anche una legnata in testa o un pestaggio possono essere considerati validi strumenti terapeutici". Duro anche ". Severo anche il giudizio di Sergio Piro, direttore della scuola "sperimentale antropologico-trasformazionale": "Il fatto è preoccupante perché si allinea con altri elementi di regressione nella riforma psichiatrica. Qui si rischia di nuovo la legatura nei servizi psichiatrici, la trasformazione delle case-famiglia in reparti chiusi e la riapertura di manicomi come il Frullone di Napoli".
Marco Bellocchio
La Repubblica 26.6.03
PREMI
Cinereferendum del S. Fedele
Polanski batte Almodovar
E´ Roman Polanski a aggiudicarsi quest´anno il premio San Fedele, patrocinato dal ministero dei Beni Culturali, giunto alla 47esima edizione. Il regista francese ha vinto con il suo ultimo film, Il Pianista, premio Oscar come miglior regia e miglior attore protagonista. Degli oltre 800 spettatori del cinereferendum San Fedele, più del 40% hanno scelto il film di Polanski tra i trenta titoli in gara. Nelle motivazioni della scelta, anche una citazione di Primo Levi: "l´angoscia di ciascuno è l´angoscia di tutti".
Al secondo posto, Parla con lei di Pedro Almodovar, che ha raccolto il 33% dei consensi. A seguire, El Alamein di Enzo Monteleone, che ha avuto anche una menzione per i valori umani. Tra gli altri film italiani premiati, Arcipelaghi di Giovanni Columbu, Casomai di Alessandro D´Alatri, L´ora di religione di Marco Bellocchio, Angela di Roberta Torre. Soltanto 20esimo il Pinocchio di Benigni. Ultimo un altro film italiano della scorsa stagione, Un viaggio chiamato amore di Michele Placido.
PREMI
Cinereferendum del S. Fedele
Polanski batte Almodovar
E´ Roman Polanski a aggiudicarsi quest´anno il premio San Fedele, patrocinato dal ministero dei Beni Culturali, giunto alla 47esima edizione. Il regista francese ha vinto con il suo ultimo film, Il Pianista, premio Oscar come miglior regia e miglior attore protagonista. Degli oltre 800 spettatori del cinereferendum San Fedele, più del 40% hanno scelto il film di Polanski tra i trenta titoli in gara. Nelle motivazioni della scelta, anche una citazione di Primo Levi: "l´angoscia di ciascuno è l´angoscia di tutti".
Al secondo posto, Parla con lei di Pedro Almodovar, che ha raccolto il 33% dei consensi. A seguire, El Alamein di Enzo Monteleone, che ha avuto anche una menzione per i valori umani. Tra gli altri film italiani premiati, Arcipelaghi di Giovanni Columbu, Casomai di Alessandro D´Alatri, L´ora di religione di Marco Bellocchio, Angela di Roberta Torre. Soltanto 20esimo il Pinocchio di Benigni. Ultimo un altro film italiano della scorsa stagione, Un viaggio chiamato amore di Michele Placido.
mercoledì 25 giugno 2003
ancora sull'elettroshock a Napoli (6)
La Repubblica Napoli 25.6.03
IL CASO
La richiesta di Maranta (Prc)
Elettroshock "Commissione di indagine"
SUll´elettroshock subito una commissione di indagine. E´ la richiesta di Francesco Maranta, componente della commissione regionale Sanità per il Prc, dopo le dichiarazioni a Repubblica del professore Pasquale Mastronardi («In questi anni ho fatto migliaia di applicazioni, ma non chiedetemi i nomi delle cliniche private»). Maranta ha presentato un´interrogazione all´assessore regionale alla Sanità, Rosalba Tufano: «Chiedo di sapere il numero di elettroshock (Esk) effettuati in Campania, se le Asl hanno convenzioni con strutture che praticano Esk, se erano attrezzate per le emergenze del caso e quali e quanti rimborsi abbiano erogato per queste prestazioni». E ancora: «Chiederò infine che la regione attivi una commissione di indagine». Intanto l´assessore Tufano ha preso in considerazione al proposta di un incontro istituzionale sulla questione. Il 4 luglio invece confronto pubblico sull´Esk alla Facoltà di Chirurgia e Medicina della Federico II. L´iniziativa è del preside del Secondo Policlinico, Armando Rubini. Tra i relatori: Giovanni Muscettola, Sergio Piro, Franco Rotelli.
IL CASO
La richiesta di Maranta (Prc)
Elettroshock "Commissione di indagine"
SUll´elettroshock subito una commissione di indagine. E´ la richiesta di Francesco Maranta, componente della commissione regionale Sanità per il Prc, dopo le dichiarazioni a Repubblica del professore Pasquale Mastronardi («In questi anni ho fatto migliaia di applicazioni, ma non chiedetemi i nomi delle cliniche private»). Maranta ha presentato un´interrogazione all´assessore regionale alla Sanità, Rosalba Tufano: «Chiedo di sapere il numero di elettroshock (Esk) effettuati in Campania, se le Asl hanno convenzioni con strutture che praticano Esk, se erano attrezzate per le emergenze del caso e quali e quanti rimborsi abbiano erogato per queste prestazioni». E ancora: «Chiederò infine che la regione attivi una commissione di indagine». Intanto l´assessore Tufano ha preso in considerazione al proposta di un incontro istituzionale sulla questione. Il 4 luglio invece confronto pubblico sull´Esk alla Facoltà di Chirurgia e Medicina della Federico II. L´iniziativa è del preside del Secondo Policlinico, Armando Rubini. Tra i relatori: Giovanni Muscettola, Sergio Piro, Franco Rotelli.
Antigone e l'alba della legge
(segnalato da Sergio Grom)
La Repubblica 25.6.03
LE IDEE
Antigone e la legge che smarrisce
Le fondamenta della civiltà giuridica
La lotta della fanciulla contro Creonte era la resistenza al nuovo, lo ius senza tempo contro la lex
Tutti gli ambiti dell´esistenza umana sono invasi dalle norme
La silenziosa sacralità del diritto è soffocata dalla fucina legislativa
Secondo Hegel questa tragedia è un´ eccelsa opera d´arte
Avventurieri al potere possono legittimare le loro stesse azioni
di Gustavo Zagrebelsky
L´INTERA vicenda storico-spirituale e concettuale della legge nel corso dei venticinque secoli di cui siamo figli altro non è che il mutevole rapporto con il diritto: lex e ius. Una duplice definizione sarebbe necessaria. Ma, forse, quel che segue la renderà superflua.
Pollà ta deinà dà inizio al celeberrimo primo stasimo di Antigone, nel quale Martin Heidegger vedeva la sintesi profetica e premonitrice del sorgere e declinare della civiltà occidentale. Molte cose mirabili e, al tempo stesso, orribili sono gli esseri umani e le loro opere, quando si prefiggono di dominare con artifici la natura delle cose - per esempio, solcando il mare in tempesta - o di affaticare la terra, piagandola con l´aratro e spossandola della sua energia. Ogni trasformazione comporta divisioni e separazioni e queste, a loro volta, violenza e dolore. L´Angelus novus di Paul Klee, che Walter Benjamin portava nel suo bagaglio, è sospinto nelle ali spiegate dal vento incessante e irresistibile del progresso, della modernizzazione e del nuovo e si volge indietro restando impietrito per le cose che vede, tutte in una volta: così è restituita l´immagine del deinòs sofocleo e, al tempo stesso, se ne dà la traduzione fedele in un linguaggio universale.
Il testo fondativo della nostra civiltà giuridica - Antigone, appunto - è una riflessione sulla legge come deinòs (l´"Ungeheuer" - il meraviglioso e orrifico della traduzione di Friedrich Hölderlin). Solo così inteso, si comprende il significato del canto corale sull´uomo e le sue conquiste, collocato all´inizio dell´azione tragica e destinato a gettare sulla legge stessa una luce spaventosa di ambiguità.
Conosciamo abbastanza dell´Atene del V secolo per comprendere che dietro il contrasto tra il diritto di Antigone e la legge di Creonte stava un conflitto tra resistenze arcaicizzanti e tensioni modernizzanti nel governo della città. La piccola fanciulla dall´incontaminata fede nella santità dei vincoli di sangue, che vìola il bando di Creonte, il re, per rendere gli onori funebri al fratello, pur caduto da traditore portando le armi contro la propria patria, non è propriamente l´eroina della giustizia, della coerenza morale assoluta e della ribellione al sopruso, come tutti noi l´abbiamo vista, nel tempo, alieno da compromessi, della nostra giovinezza.
Non astratta contesa tra norma morale e legge del potere. La lotta mortale di Antigone e Creonte metteva i cittadini di Atene, riuniti nella rappresentazione teatrale, di fronte al non risolto contrasto politico che, a quel tempo, divideva gli animi e le fazioni. Da una parte, le radici tradizionali della città, lo ius "non scritto e non mutabile, che non è di ieri né di oggi, ma da sempre, di cui è ignota la rivelazione"; lo ius che vale per le cerchie umane vincolate da comunanza di sangue con al centro la famiglia, che si richiama perciò alla struttura gentilizia originaria della polis, è radicato nei legami vitali e quindi nel culto dei morti ed è cementato dal senso dell´onore e della fedeltà particolare, di cui è depositario l´elemento femminile della società.
Dall´altra parte, la forza innovatrice di una società-stato proiettata a divenire potenza egemone del mondo greco, fondata su leggi proclamate vittoriosamente alla luce del sole ("raggio di sole, luce, la più bella che apparve a questa Tebe dalle sette porte") per valere universalmente; leggi che esigono ubbidienza uniforme e incondizionata, spezzano l´unità dei legami interpersonali e familiari, travolgono eros, amore coniugale, sentimento paterno, fraterno e filiale, ignorano la contiguità del sangue e sono garantite dall´elemento maschile della società, il re, unico e supremo legislatore.
Questa tragedia della realtà divisa - nel giudizio di Hegel, "una delle opere d´arte più eccelse e a ogni riguardo più perfette di tutti i tempi" - assurge così a simbolo dell´esito funesto generato dal reciproco disconoscimento di ius e lex, del diritto profondo e stabile dei legami sociali, impersonato da Antigone, e della artificiale e mutevole legge pubblica dello Stato, impersonata da Creonte: esito radicale di morte fisica per Antigone e di morte spirituale - noi diremmo: totale "delegittimazione" - per Creonte, rigettato dai suoi concittadini e ripudiato perfino in casa propria, del quale alla fine "resta un nulla".
Antigone rappresenta un inizio. La legge affacciava appena la sua pretesa e la sua legittimità era fortemente contestata. Il poeta tragico, nei passi affidati al coro degli anziani, parla per la città in uno dei suoi luoghi sacri - il teatro -. Egli insiste sulla follia e l´assurdità della santa intransigenza di Antigone, ribelle alla legge, e la sfiora perfino con un motto di disincantato dileggio per l´inanità della sua ribellione. Però, manifestamente, parteggia per lei e così - si può supporre - anche i suoi concittadini, partecipi dell´azione tragica, parteggiavano per lei.
Oggi, la parabola sembra conclusa con il totale rovesciamento dei punti di partenza. Conosciamo solo più leggi scritte e mutevoli, che sono di ieri, di oggi e certamente non più di domani; sappiamo chi e quando le ha proclamate, in quali circostanze, per quali interessi e con quali propositi. La silenziosa sacralità del diritto è stata soppiantata dalla verbosa esteriorità della legge. Lo Stato è da tempo una machina legislatoria. Solo da questa fucina ci si aspetta che esca il diritto, senza sapere quale potrà essere, poiché ciò dipende da chi, di volta in volta, riuscirà a impadronirsi dei comandi di quella macchina.
La legislazione ha invaso tutti gli àmbiti dell´esistenza umana, perfino i più privati e per lungo tempo refrattari a norme esteriori, come quelli delle relazioni affettive tra le persone: la famiglia, la convivenza, i rapporti tra genitori e figli. Lo straordinario e incessante sviluppo delle applicazioni della tecnologia a manifestazioni della vita, un tempo lasciate alle regole della natura e delle scienze naturali, concorre alla moltiplicazione delle leggi: la procreazione, la lotta contro le malattie, l´uso dei tessuti e degli organi umani, il contrasto delle forze dell´invecchiamento, la morte - apre nuovi sterminati campi all´intervento necessario della legge; così, ugualmente, le nuove tecniche della comunicazione a distanza, della raccolta e dell´elaborazione dei dati pongono problemi di protezione dei diritti personali che richiedono leggi sempre nuove. La stessa madre terra, fino a non molti decenni fa considerata creatura autosufficiente, base sicura della vita degli esseri animati, necessita ora di reti giuridiche di protezione dei suoi equilibri, seriamente minacciati dallo sviluppo distruttivo delle attività dei suoi figli. Onde può dirsi che non c´è dimensione dell´esistenza che non sia oggetto di cura da parte del diritto, nella forma della legge positiva. E perfino per soddisfare l´esigenza, oggi particolarmente sentita, di restituire all´autonomia delle scelte e delle responsabilità individuali e sociali, settori dell´esperienza umana, come quelli dell´iniziativa economica, occorre paradossalmente moltiplicare, non ridurre il numero delle leggi. L´economia aperta di mercato è un´istituzione non meno artificiale di una qualunque forma di economia guidata e, per essere costruita e difesa, anche contro quel diritto 'privato´ che è costituito dai patti d´affari stipulati negli studi legali delle grandi imprese commerciali e delle finanziarie internazionali, necessita anch´essa di un castello di norme imponente. La non da oggi invocata e mai attuata, in Italia come altrove, politica della riduzione e semplificazione legislativa è contraddetta da sviluppi della legislazione esattamente opposti.
Se mai occorresse una conferma concreta di che cosa significa la metafora della macchina legislativa, basterebbe gettare uno sguardo a Le leggi d´Italia, di cui si celebra oggi il quarantennale della pubblicazione. La prima edizione del 1963 (che la Biblioteca della Corte costituzionale ha da tempo distrutto e sostituito, per consunzione dovuta alla nostra quotidiana, indispensabile consultazione) era costituita da trentatré poderosi volumi; ora è cresciuta a settantotto volumi. Aggiornamenti mensili, contenuti in fogli opportunamente definiti "mobili", danno corpo all´immagine di una bufera legislativa che mai non resta: leggi nuove; modifiche alla vecchie, pro futuro e retroattive; leggi temporanee, transitorie, di sanatoria, sperimentali, di 'interpretazione´ autentica ed errata corrige; testi unici della più varia natura; sentenze costituzionali con portata normativa: tutto ciò, moltiplicato per le molte autorità normative, centrali, regionali, locali e sopranazionali, che operano con l´intento che nulla sfugga alla più minuta regolazione giuridica.
Il mondo del diritto è saturo di leggi. La legalità, quale corrispondenza alla legge, è rimasta sola unità di misura giuridica e ha scalzato la legittimità, quale rispondenza al diritto. Anzi, si è impadronita di essa, come all´inizio del secolo scorso Max Weber aveva antiveduto, quando aveva parlato di legalità come esclusiva forma di legittimità dell´epoca moderna, un´epoca di comportamenti politici, economici e sociali tendenti alla razionalizzazione, alla standardizzazione, alla pianificazione, all´omologazione, rispetto ai quali lo Stato, a sua volta, sempre più assume i caratteri di un´impresa tecnicizzata, funzionalizzata, funzionarizzata e burocratizzata, per la quale la legge è l´equivalente del flusso vitale in un organismo vivente. Il linguaggio comune, anche qui sintomo infallibile di una condizione spirituale, ha registrato questa traiettoria. Per dire che ho ragione secondo legge, definirò legittima, non legale la mia pretesa, tradendo tuttavia con ciò la nostalgia per una dimensione giuridica perduta - la legittimità del diritto, appunto - e rendendole inconsciamente omaggio. E ciò accade anche per il linguaggio specialistico: con l´espressione Stato di diritto, dall´Ottocento in poi, si designa in realtà uno stato di leggi, uno stato meramente legale.
Questa nostra condizione di individui legalizzati ci appare perfettamente naturale e non pensiamo neppure che sia stata possibile un´altra condizione; preferiamo ignorare che la condizione originaria non è affatto questa e non ci sfiora il dubbio che, forse, neanche ora, a ben pensarci, sia esattamente così.
I secoli che separano noi da Antigone sono stati un confronto a fasi alterne tra il diritto e la legge. Il dominio della legge sul diritto, anzi la fagocitazione monopolistica del secondo a opera della prima, sono il prodotto di poteri politici astratti, di grandi dimensioni anche spaziali, sviluppatisi prima accanto e poi contro le strutture sociali tradizionali concrete di piccole dimensioni, tramite un´amministrazione burocratica del diritto. Il diritto romano repubblicano, per esempio, non ancora fu questo. Anche se comprendeva leggi, cioè decisioni del popolo riunito in assemblea rivolte a tutti cittadini, non era un diritto legislativo. Era un insieme, fuso in unità da responsa di giuristi non inquadrati in burocrazia, di mores arcaici, di interpretazioni sacrali delle XII tavole, di programmi giurisprudenziali fissati nell´editto pretorio. Onde si è parlato di latente dualismo - ancor oggi percepibile attraverso le fonti pervenuteci nella forma della codificazione giustinianea - tra ius civile, custodito e sviluppato da esperti giuristi circondati di prestigio sociale, e lex regolatrice di ciò che diremmo la dimensione pubblica della vita; un dualismo non teorizzato dai romani e tuttavia vissuto come dato caratterizzante la propria esperienza giuridica e politica. E anche quando poi i giuristi furono chiamati a cooperare con la potestas imperiale, divenendone funzionari, i più consapevoli di loro rappresentarono non semplicemente il dominio del principe in forma legale (le constitutiones imperiali) ma, nella continuità della tradizione, la legittimità del potere.
Che cosa sia stata l´esperienza giuridica dell´età di mezzo non si presta a essere colto in una formula semplificatrice. Dal crollo dell´autorità politica centrale, la società frammentata espresse il suo diritto dal quale il particolarismo legato alle situazioni e alle tradizioni locali e i privilegi di status potevano trarre vigore. Nello ius commune confluiva il diritto canonico, con la sua inimitabile flessibilità adatto ad accogliere nel suo seno questa realtà complessa, e il Corpus iuris romano, riscoperto sul finire dell´XI secolo e reso vitale nella nuova situazione a opera delle scuole dei glossatori. Questa stilizzata rappresentazione non rende giustizia dell´esistenza di altre e affatto pluralistiche dimensioni del diritto: il diritto naturale cristiano che teorizzava il primato politico della Chiesa, nel nome del quale l´Europa si accese dei roghi della Santa Inquisizione; l´opera dei legisti che lavoravano sul diritto romano imperiale, fautori della ragion di Stato. In ogni caso, l´incidenza della legge, fosse essa ecclesiastica o civile, restava rara, marginale, disorganica.
La situazione spirituale, che accompagnava quella politica, iniziò a cambiare a tutto favore della legge tra il Cinque e il Seicento, quando apparvero le prime teorie esclusivistiche del diritto, legate all´assolutismo politico. Oggi siamo portati a dare peso decisivo, nella formazione dello spirito giuridico del tempo, alle dottrine dello stato assoluto, prime fra tutte alla Repubblica di Jean Bodin e al Leviatano di Thomas Hobbes. Per il diritto, più importanti furono però le visioni naturalistiche, come quelle tratte dalla matematica o dalla geometria. Esse non esistono più, come tali, ma la loro influenza sulla formazione della mentalità "scientifica" della nostra giurisprudenza è ancora oggi decisiva. Ad esempio, secondo Gottfried W. Leibniz, il diritto dovrebbe consistere in definizioni razionalmente stabilite, che si sviluppano le une dalle altre, come nel ragionamento matematico, producendo proposizioni valide e vere in se stesse come è l´obbiettiva legge dei numeri che stanno al di sopra di tutti (Dio compreso) e valgono, in una sfera superiore, indipendentemente dal fatto concreto che ci sia qualcuno che fa di conto e che ci sia qualcosa da contare.
L´assolutismo monarchico del Seicento-Settecento si alimentò di queste e altre consimili teorie esclusivistiche. Ma ancora al tempo della rivoluzione del 1789, la lotta del sovrano per imporre il dominio della sua legge in tutto il regno era lungi dall´essere conclusa. Il contrasto che fino all´ultimo oppose il re ai Parlamenti era il residuo della vecchia e tenace opposizione tra leggi nuove del re e le antiche strutture feudali francesi. I Parlamenti di Antico Regime, organi politico-giudiziari, erano una sorta di giustizia costituzionale di controllo sugli atti generali del re in nome della tradizione. Per il loro tramite, la nobiltà di roba in varie circostanze cercò di imporre una sorta di dispotismo nobiliare, volto all´indietro, contro il dispotismo legale del re, volto al futuro. La loro politica, spesso corrotta, di miope chiusura all´innovazione e di bigotta difesa dei privilegi, fu oggetto di critica feroce da parte dei philosophes (il Trattato sulla tolleranza di Voltaire trae spunto dalla condanna capitale del mercante ugonotto Jean Calas, pronunciata dal Parlamento di Tolosa) e fu uno dei non ultimi motivi scatenanti degli avvenimenti del 1789. Trois sont les fléaux de la Provence: le Mistral, le Parlement et la Durance, diceva una filastrocca, popolare a Aix-en-Provence.
La rivoluzione in Francia chiude il ciclo aperto con l´originaria sconfitta di Antigone. Il diritto è divenuto sola legge e la legge solo potere. Di fronte a esso, ci sono solo sudditi. Creonte, e con lui l´assolutismo nel diritto, hanno vinto la loro battaglia. La rivoluzione ha effettivamente portato a compimento il progetto monarchico che in due secoli non era riuscito a imporsi completamente. È quanto Mirabeau scriveva segretamente a Luigi XVI, un anno dopo i primi fatti rivoluzionari, per incoraggiarlo a non porre ostacoli: «Confrontate il nuovo stato di cose con l´antico regime; da questo confronto nascono il conforto e la speranza. Una parte degli atti dell´assemblea nazionale, ed è la parte maggiore, è palesemente favorevole a un governo monarchico. Non vi sembra nulla essere senza Parlamenti, senza corpi separati, senza ordini del clero, della nobiltà, dei privilegiati? L´idea di formare una sola classe di cittadini sarebbe piaciuta a Richelieu: questa superficie tutta uguale facilita l´esercizio del potere. Parecchi periodi di governo assoluto non avrebbero fatto per l´autorità regia quanto questo solo anno di rivoluzione. La storia prese una piega diversa, a favore non del re ma del popolo. Ma, quanto alla legge, l´intuizione di Mirabeau fu esatta: la rivoluzione non aveva rotto con l´assolutismo regio, ma lo aveva portato a compimento.
Da allora, la legge è lo strumento per tutte le avventure del potere, quale che esso sia, democratico o antidemocratico, liberale o totalitario. La «forza di legge» è stata al servizio, di volta in volta, della ragione rivoluzionaria dei giacobini; del compromesso moderato tra il monarca e la borghesia liberale, contro il socialismo; dell´autoritarismo liberale della fine dell´Ottocento; delle riforme democratiche dell´inizio del Novecento e delle dittature di destra e di sinistra che ne sono seguite. La legge era la legge, benefica o malefica, moderata o crudele che fosse e nessun diverso diritto le si poteva contrapporre. Lo stato che operava secondo leggi era, per ciò solo, legale e legittimo.
Il fascismo e il nazismo si fregiarono perfino del titolo "scientifico" di stati di diritto, e lo poterono fare perché la forza di legge, di per sé, non distingue diritto da delitto. Avventurieri del potere e perfino movimenti criminali, organizzati con tecniche efficaci per la conquista spregiudicata del potere, hanno preteso legittimità per le loro azioni alla stregua di leggi fatte da loro stessi per mezzo del controllo totale, da essi acquisito, delle condizioni della produzione legislativa: consenso sociale, opinione pubblica, fattori tecnici parlamentari e governativi. Con la conseguenza che i poteri ch´essi venivano attribuendosi potevano certo dirsi legittimi, nel senso di legali, essendo al contempo scientificamente qualificabili come poteri autoproclamati e autoconferiti. Con il che si giunse al colmo: la legalità divenuta modo d´essere di gangsters, secondo la vibrante denuncia di Bertolt Brecht e perfino secondo l´ammissione di uno che se ne intendeva per esperienza diretta, Carl Schmitt.
Il deinòs insito nella legge si era manifestato a sufficienza. La memoria di quelle brucianti esperienze ha reso le generazioni che sono seguite diffidenti, perfino nei confronti della legge regolarmente votata in Parlamento o deliberata direttamente dal popolo in referendum. Ma, per porre limiti e organizzare cautele, ogni altro strumento diverso dalla legge era andato perduto da un secolo e mezzo. Lo ius antico era stato distrutto. La società era irrimediabilmente mutata. Essa non produceva legittimità se non, per l´appunto, attraverso le procedure della legislazione. L´unico strumento a disposizione per limitare il legislatore era, ancora, soltanto una legge, ma dotata di una "forza" maggiore di quella ordinaria, la forza di legge costituzionale. Alle Costituzioni ci si affidò, scrivendovi cataloghi di diritti inviolabili e principi di giustizia inderogabili e prevedendo in essa meccanismi e organi di garanzia: procedure speciali per cambiarle, capi di Stato "garanti della Costituzione", come è quello previsto dalla nostra Costituzione, e Tribunali costituzionali, come è la Corte costituzionale.
Non c´era evidentemente altro da fare. Il positivismo giuridico, cioè la riduzione del diritto a sola legge positiva, precludeva ogni soluzione diversa da quella di porre un´altra legge, la legge più alta. Ma sarebbe stata davvero la soluzione? Il seme del dubbio stava già in una piccola, profetica frase detta da Joseph De Maistre, il critico dell´´89: «Come può dirsi che la Costituzione vincola tutti, se qualcuno l´ha fatta?». Come può impedirsi che quel qualcuno - individuo o popolo opportunamente evocato - come ha posto la Costituzione, così la sospenda, la eluda, la violi o la modifichi, al di fuori delle garanzie che la Costituzione stessa ha posto per difendersi da tutto questo? E´ una contraddizione, un´aporia, un circolo vizioso che ricorda lo stallo in cui era caduto il barone di Münchhausen. Come si può contare sul potere per difendersi dal potere? Le Carte costituzionali sono sì una garanzia, ma non ultima, solo penultima.
Questo è il paradosso del costituzionalismo del nostro tempo. Le leggi, e tra queste la Costituzione, possono molto ma non tutto. Esse formano come una grandissima costruzione, ma non più solida di un castello di carte, in quanto il loro fondamento sia posto solo in se stesse: cioè, in ultima analisi, nel potere. Antigone ci ammonisce ancora: senza ius, la lex diventa debole e, al tempo stesso, tirannica. La scommessa del costituzionalismo sta tutta qui: nella capacità della Costituzione, posta come lex, di diventare ius; fuori dalle formule, nella capacità di uscire dall´area del potere e delle fredde parole di un testo scritto per farsi attrarre nella sfera vitale delle convinzioni e delle idee care, senza le quali non si può vivere e alle quali si aderisce con calore. Per usare ancora le nostre categorie, la Costituzione, nel suo senso profondo, può dirsi il tentativo di restaurare una legittimità nel diritto, accanto alla sua legalità. Sarà pur vero, come è stato detto, che la legittimità restaurata non è che un paradiso artificiale; ma il primo compito di chi agisce per la Costituzione è per l´appunto di trascendere l´artificio per trasformarlo in forza culturale, vivente nella natura della società; di trasferire progressivamente la Costituzione dall´area della decisione politica che divide, crea inimicizie e conflitti a quella consensuale della cultura politica diffusa. Sotto questo aspetto, noi, come giuristi e particolarmente come costituzionalisti, dobbiamo, per la parte che ci compete, umilmente riconoscere la nostra colpa, per non avere adempiuto fino in fondo il nostro dovere. Sia pure mossi dalle migliori intenzioni - farla vivere nella meccanica dell´ordinamento giuridico - l´abbiamo isolata nel mondo del puro diritto positivo trascurando il compito, altrettanto, se non più essenziale, di farla valere come forza costitutiva di un idem sentire politico, diffuso in tutti gli strati sociali. Così, alla fine, abbiamo trascurato proprio la difesa più importante e l´abbiamo esposta inerme ai rischi che possano provenire da una volontà politica, quale che essa mai sia, che volesse procedere contro di essa in forma di legge.
La Repubblica 25.6.03
LE IDEE
Antigone e la legge che smarrisce
Le fondamenta della civiltà giuridica
La lotta della fanciulla contro Creonte era la resistenza al nuovo, lo ius senza tempo contro la lex
Tutti gli ambiti dell´esistenza umana sono invasi dalle norme
La silenziosa sacralità del diritto è soffocata dalla fucina legislativa
Secondo Hegel questa tragedia è un´ eccelsa opera d´arte
Avventurieri al potere possono legittimare le loro stesse azioni
di Gustavo Zagrebelsky
L´INTERA vicenda storico-spirituale e concettuale della legge nel corso dei venticinque secoli di cui siamo figli altro non è che il mutevole rapporto con il diritto: lex e ius. Una duplice definizione sarebbe necessaria. Ma, forse, quel che segue la renderà superflua.
Pollà ta deinà dà inizio al celeberrimo primo stasimo di Antigone, nel quale Martin Heidegger vedeva la sintesi profetica e premonitrice del sorgere e declinare della civiltà occidentale. Molte cose mirabili e, al tempo stesso, orribili sono gli esseri umani e le loro opere, quando si prefiggono di dominare con artifici la natura delle cose - per esempio, solcando il mare in tempesta - o di affaticare la terra, piagandola con l´aratro e spossandola della sua energia. Ogni trasformazione comporta divisioni e separazioni e queste, a loro volta, violenza e dolore. L´Angelus novus di Paul Klee, che Walter Benjamin portava nel suo bagaglio, è sospinto nelle ali spiegate dal vento incessante e irresistibile del progresso, della modernizzazione e del nuovo e si volge indietro restando impietrito per le cose che vede, tutte in una volta: così è restituita l´immagine del deinòs sofocleo e, al tempo stesso, se ne dà la traduzione fedele in un linguaggio universale.
Il testo fondativo della nostra civiltà giuridica - Antigone, appunto - è una riflessione sulla legge come deinòs (l´"Ungeheuer" - il meraviglioso e orrifico della traduzione di Friedrich Hölderlin). Solo così inteso, si comprende il significato del canto corale sull´uomo e le sue conquiste, collocato all´inizio dell´azione tragica e destinato a gettare sulla legge stessa una luce spaventosa di ambiguità.
Conosciamo abbastanza dell´Atene del V secolo per comprendere che dietro il contrasto tra il diritto di Antigone e la legge di Creonte stava un conflitto tra resistenze arcaicizzanti e tensioni modernizzanti nel governo della città. La piccola fanciulla dall´incontaminata fede nella santità dei vincoli di sangue, che vìola il bando di Creonte, il re, per rendere gli onori funebri al fratello, pur caduto da traditore portando le armi contro la propria patria, non è propriamente l´eroina della giustizia, della coerenza morale assoluta e della ribellione al sopruso, come tutti noi l´abbiamo vista, nel tempo, alieno da compromessi, della nostra giovinezza.
Non astratta contesa tra norma morale e legge del potere. La lotta mortale di Antigone e Creonte metteva i cittadini di Atene, riuniti nella rappresentazione teatrale, di fronte al non risolto contrasto politico che, a quel tempo, divideva gli animi e le fazioni. Da una parte, le radici tradizionali della città, lo ius "non scritto e non mutabile, che non è di ieri né di oggi, ma da sempre, di cui è ignota la rivelazione"; lo ius che vale per le cerchie umane vincolate da comunanza di sangue con al centro la famiglia, che si richiama perciò alla struttura gentilizia originaria della polis, è radicato nei legami vitali e quindi nel culto dei morti ed è cementato dal senso dell´onore e della fedeltà particolare, di cui è depositario l´elemento femminile della società.
Dall´altra parte, la forza innovatrice di una società-stato proiettata a divenire potenza egemone del mondo greco, fondata su leggi proclamate vittoriosamente alla luce del sole ("raggio di sole, luce, la più bella che apparve a questa Tebe dalle sette porte") per valere universalmente; leggi che esigono ubbidienza uniforme e incondizionata, spezzano l´unità dei legami interpersonali e familiari, travolgono eros, amore coniugale, sentimento paterno, fraterno e filiale, ignorano la contiguità del sangue e sono garantite dall´elemento maschile della società, il re, unico e supremo legislatore.
Questa tragedia della realtà divisa - nel giudizio di Hegel, "una delle opere d´arte più eccelse e a ogni riguardo più perfette di tutti i tempi" - assurge così a simbolo dell´esito funesto generato dal reciproco disconoscimento di ius e lex, del diritto profondo e stabile dei legami sociali, impersonato da Antigone, e della artificiale e mutevole legge pubblica dello Stato, impersonata da Creonte: esito radicale di morte fisica per Antigone e di morte spirituale - noi diremmo: totale "delegittimazione" - per Creonte, rigettato dai suoi concittadini e ripudiato perfino in casa propria, del quale alla fine "resta un nulla".
Antigone rappresenta un inizio. La legge affacciava appena la sua pretesa e la sua legittimità era fortemente contestata. Il poeta tragico, nei passi affidati al coro degli anziani, parla per la città in uno dei suoi luoghi sacri - il teatro -. Egli insiste sulla follia e l´assurdità della santa intransigenza di Antigone, ribelle alla legge, e la sfiora perfino con un motto di disincantato dileggio per l´inanità della sua ribellione. Però, manifestamente, parteggia per lei e così - si può supporre - anche i suoi concittadini, partecipi dell´azione tragica, parteggiavano per lei.
Oggi, la parabola sembra conclusa con il totale rovesciamento dei punti di partenza. Conosciamo solo più leggi scritte e mutevoli, che sono di ieri, di oggi e certamente non più di domani; sappiamo chi e quando le ha proclamate, in quali circostanze, per quali interessi e con quali propositi. La silenziosa sacralità del diritto è stata soppiantata dalla verbosa esteriorità della legge. Lo Stato è da tempo una machina legislatoria. Solo da questa fucina ci si aspetta che esca il diritto, senza sapere quale potrà essere, poiché ciò dipende da chi, di volta in volta, riuscirà a impadronirsi dei comandi di quella macchina.
La legislazione ha invaso tutti gli àmbiti dell´esistenza umana, perfino i più privati e per lungo tempo refrattari a norme esteriori, come quelli delle relazioni affettive tra le persone: la famiglia, la convivenza, i rapporti tra genitori e figli. Lo straordinario e incessante sviluppo delle applicazioni della tecnologia a manifestazioni della vita, un tempo lasciate alle regole della natura e delle scienze naturali, concorre alla moltiplicazione delle leggi: la procreazione, la lotta contro le malattie, l´uso dei tessuti e degli organi umani, il contrasto delle forze dell´invecchiamento, la morte - apre nuovi sterminati campi all´intervento necessario della legge; così, ugualmente, le nuove tecniche della comunicazione a distanza, della raccolta e dell´elaborazione dei dati pongono problemi di protezione dei diritti personali che richiedono leggi sempre nuove. La stessa madre terra, fino a non molti decenni fa considerata creatura autosufficiente, base sicura della vita degli esseri animati, necessita ora di reti giuridiche di protezione dei suoi equilibri, seriamente minacciati dallo sviluppo distruttivo delle attività dei suoi figli. Onde può dirsi che non c´è dimensione dell´esistenza che non sia oggetto di cura da parte del diritto, nella forma della legge positiva. E perfino per soddisfare l´esigenza, oggi particolarmente sentita, di restituire all´autonomia delle scelte e delle responsabilità individuali e sociali, settori dell´esperienza umana, come quelli dell´iniziativa economica, occorre paradossalmente moltiplicare, non ridurre il numero delle leggi. L´economia aperta di mercato è un´istituzione non meno artificiale di una qualunque forma di economia guidata e, per essere costruita e difesa, anche contro quel diritto 'privato´ che è costituito dai patti d´affari stipulati negli studi legali delle grandi imprese commerciali e delle finanziarie internazionali, necessita anch´essa di un castello di norme imponente. La non da oggi invocata e mai attuata, in Italia come altrove, politica della riduzione e semplificazione legislativa è contraddetta da sviluppi della legislazione esattamente opposti.
Se mai occorresse una conferma concreta di che cosa significa la metafora della macchina legislativa, basterebbe gettare uno sguardo a Le leggi d´Italia, di cui si celebra oggi il quarantennale della pubblicazione. La prima edizione del 1963 (che la Biblioteca della Corte costituzionale ha da tempo distrutto e sostituito, per consunzione dovuta alla nostra quotidiana, indispensabile consultazione) era costituita da trentatré poderosi volumi; ora è cresciuta a settantotto volumi. Aggiornamenti mensili, contenuti in fogli opportunamente definiti "mobili", danno corpo all´immagine di una bufera legislativa che mai non resta: leggi nuove; modifiche alla vecchie, pro futuro e retroattive; leggi temporanee, transitorie, di sanatoria, sperimentali, di 'interpretazione´ autentica ed errata corrige; testi unici della più varia natura; sentenze costituzionali con portata normativa: tutto ciò, moltiplicato per le molte autorità normative, centrali, regionali, locali e sopranazionali, che operano con l´intento che nulla sfugga alla più minuta regolazione giuridica.
Il mondo del diritto è saturo di leggi. La legalità, quale corrispondenza alla legge, è rimasta sola unità di misura giuridica e ha scalzato la legittimità, quale rispondenza al diritto. Anzi, si è impadronita di essa, come all´inizio del secolo scorso Max Weber aveva antiveduto, quando aveva parlato di legalità come esclusiva forma di legittimità dell´epoca moderna, un´epoca di comportamenti politici, economici e sociali tendenti alla razionalizzazione, alla standardizzazione, alla pianificazione, all´omologazione, rispetto ai quali lo Stato, a sua volta, sempre più assume i caratteri di un´impresa tecnicizzata, funzionalizzata, funzionarizzata e burocratizzata, per la quale la legge è l´equivalente del flusso vitale in un organismo vivente. Il linguaggio comune, anche qui sintomo infallibile di una condizione spirituale, ha registrato questa traiettoria. Per dire che ho ragione secondo legge, definirò legittima, non legale la mia pretesa, tradendo tuttavia con ciò la nostalgia per una dimensione giuridica perduta - la legittimità del diritto, appunto - e rendendole inconsciamente omaggio. E ciò accade anche per il linguaggio specialistico: con l´espressione Stato di diritto, dall´Ottocento in poi, si designa in realtà uno stato di leggi, uno stato meramente legale.
Questa nostra condizione di individui legalizzati ci appare perfettamente naturale e non pensiamo neppure che sia stata possibile un´altra condizione; preferiamo ignorare che la condizione originaria non è affatto questa e non ci sfiora il dubbio che, forse, neanche ora, a ben pensarci, sia esattamente così.
I secoli che separano noi da Antigone sono stati un confronto a fasi alterne tra il diritto e la legge. Il dominio della legge sul diritto, anzi la fagocitazione monopolistica del secondo a opera della prima, sono il prodotto di poteri politici astratti, di grandi dimensioni anche spaziali, sviluppatisi prima accanto e poi contro le strutture sociali tradizionali concrete di piccole dimensioni, tramite un´amministrazione burocratica del diritto. Il diritto romano repubblicano, per esempio, non ancora fu questo. Anche se comprendeva leggi, cioè decisioni del popolo riunito in assemblea rivolte a tutti cittadini, non era un diritto legislativo. Era un insieme, fuso in unità da responsa di giuristi non inquadrati in burocrazia, di mores arcaici, di interpretazioni sacrali delle XII tavole, di programmi giurisprudenziali fissati nell´editto pretorio. Onde si è parlato di latente dualismo - ancor oggi percepibile attraverso le fonti pervenuteci nella forma della codificazione giustinianea - tra ius civile, custodito e sviluppato da esperti giuristi circondati di prestigio sociale, e lex regolatrice di ciò che diremmo la dimensione pubblica della vita; un dualismo non teorizzato dai romani e tuttavia vissuto come dato caratterizzante la propria esperienza giuridica e politica. E anche quando poi i giuristi furono chiamati a cooperare con la potestas imperiale, divenendone funzionari, i più consapevoli di loro rappresentarono non semplicemente il dominio del principe in forma legale (le constitutiones imperiali) ma, nella continuità della tradizione, la legittimità del potere.
Che cosa sia stata l´esperienza giuridica dell´età di mezzo non si presta a essere colto in una formula semplificatrice. Dal crollo dell´autorità politica centrale, la società frammentata espresse il suo diritto dal quale il particolarismo legato alle situazioni e alle tradizioni locali e i privilegi di status potevano trarre vigore. Nello ius commune confluiva il diritto canonico, con la sua inimitabile flessibilità adatto ad accogliere nel suo seno questa realtà complessa, e il Corpus iuris romano, riscoperto sul finire dell´XI secolo e reso vitale nella nuova situazione a opera delle scuole dei glossatori. Questa stilizzata rappresentazione non rende giustizia dell´esistenza di altre e affatto pluralistiche dimensioni del diritto: il diritto naturale cristiano che teorizzava il primato politico della Chiesa, nel nome del quale l´Europa si accese dei roghi della Santa Inquisizione; l´opera dei legisti che lavoravano sul diritto romano imperiale, fautori della ragion di Stato. In ogni caso, l´incidenza della legge, fosse essa ecclesiastica o civile, restava rara, marginale, disorganica.
La situazione spirituale, che accompagnava quella politica, iniziò a cambiare a tutto favore della legge tra il Cinque e il Seicento, quando apparvero le prime teorie esclusivistiche del diritto, legate all´assolutismo politico. Oggi siamo portati a dare peso decisivo, nella formazione dello spirito giuridico del tempo, alle dottrine dello stato assoluto, prime fra tutte alla Repubblica di Jean Bodin e al Leviatano di Thomas Hobbes. Per il diritto, più importanti furono però le visioni naturalistiche, come quelle tratte dalla matematica o dalla geometria. Esse non esistono più, come tali, ma la loro influenza sulla formazione della mentalità "scientifica" della nostra giurisprudenza è ancora oggi decisiva. Ad esempio, secondo Gottfried W. Leibniz, il diritto dovrebbe consistere in definizioni razionalmente stabilite, che si sviluppano le une dalle altre, come nel ragionamento matematico, producendo proposizioni valide e vere in se stesse come è l´obbiettiva legge dei numeri che stanno al di sopra di tutti (Dio compreso) e valgono, in una sfera superiore, indipendentemente dal fatto concreto che ci sia qualcuno che fa di conto e che ci sia qualcosa da contare.
L´assolutismo monarchico del Seicento-Settecento si alimentò di queste e altre consimili teorie esclusivistiche. Ma ancora al tempo della rivoluzione del 1789, la lotta del sovrano per imporre il dominio della sua legge in tutto il regno era lungi dall´essere conclusa. Il contrasto che fino all´ultimo oppose il re ai Parlamenti era il residuo della vecchia e tenace opposizione tra leggi nuove del re e le antiche strutture feudali francesi. I Parlamenti di Antico Regime, organi politico-giudiziari, erano una sorta di giustizia costituzionale di controllo sugli atti generali del re in nome della tradizione. Per il loro tramite, la nobiltà di roba in varie circostanze cercò di imporre una sorta di dispotismo nobiliare, volto all´indietro, contro il dispotismo legale del re, volto al futuro. La loro politica, spesso corrotta, di miope chiusura all´innovazione e di bigotta difesa dei privilegi, fu oggetto di critica feroce da parte dei philosophes (il Trattato sulla tolleranza di Voltaire trae spunto dalla condanna capitale del mercante ugonotto Jean Calas, pronunciata dal Parlamento di Tolosa) e fu uno dei non ultimi motivi scatenanti degli avvenimenti del 1789. Trois sont les fléaux de la Provence: le Mistral, le Parlement et la Durance, diceva una filastrocca, popolare a Aix-en-Provence.
La rivoluzione in Francia chiude il ciclo aperto con l´originaria sconfitta di Antigone. Il diritto è divenuto sola legge e la legge solo potere. Di fronte a esso, ci sono solo sudditi. Creonte, e con lui l´assolutismo nel diritto, hanno vinto la loro battaglia. La rivoluzione ha effettivamente portato a compimento il progetto monarchico che in due secoli non era riuscito a imporsi completamente. È quanto Mirabeau scriveva segretamente a Luigi XVI, un anno dopo i primi fatti rivoluzionari, per incoraggiarlo a non porre ostacoli: «Confrontate il nuovo stato di cose con l´antico regime; da questo confronto nascono il conforto e la speranza. Una parte degli atti dell´assemblea nazionale, ed è la parte maggiore, è palesemente favorevole a un governo monarchico. Non vi sembra nulla essere senza Parlamenti, senza corpi separati, senza ordini del clero, della nobiltà, dei privilegiati? L´idea di formare una sola classe di cittadini sarebbe piaciuta a Richelieu: questa superficie tutta uguale facilita l´esercizio del potere. Parecchi periodi di governo assoluto non avrebbero fatto per l´autorità regia quanto questo solo anno di rivoluzione. La storia prese una piega diversa, a favore non del re ma del popolo. Ma, quanto alla legge, l´intuizione di Mirabeau fu esatta: la rivoluzione non aveva rotto con l´assolutismo regio, ma lo aveva portato a compimento.
Da allora, la legge è lo strumento per tutte le avventure del potere, quale che esso sia, democratico o antidemocratico, liberale o totalitario. La «forza di legge» è stata al servizio, di volta in volta, della ragione rivoluzionaria dei giacobini; del compromesso moderato tra il monarca e la borghesia liberale, contro il socialismo; dell´autoritarismo liberale della fine dell´Ottocento; delle riforme democratiche dell´inizio del Novecento e delle dittature di destra e di sinistra che ne sono seguite. La legge era la legge, benefica o malefica, moderata o crudele che fosse e nessun diverso diritto le si poteva contrapporre. Lo stato che operava secondo leggi era, per ciò solo, legale e legittimo.
Il fascismo e il nazismo si fregiarono perfino del titolo "scientifico" di stati di diritto, e lo poterono fare perché la forza di legge, di per sé, non distingue diritto da delitto. Avventurieri del potere e perfino movimenti criminali, organizzati con tecniche efficaci per la conquista spregiudicata del potere, hanno preteso legittimità per le loro azioni alla stregua di leggi fatte da loro stessi per mezzo del controllo totale, da essi acquisito, delle condizioni della produzione legislativa: consenso sociale, opinione pubblica, fattori tecnici parlamentari e governativi. Con la conseguenza che i poteri ch´essi venivano attribuendosi potevano certo dirsi legittimi, nel senso di legali, essendo al contempo scientificamente qualificabili come poteri autoproclamati e autoconferiti. Con il che si giunse al colmo: la legalità divenuta modo d´essere di gangsters, secondo la vibrante denuncia di Bertolt Brecht e perfino secondo l´ammissione di uno che se ne intendeva per esperienza diretta, Carl Schmitt.
Il deinòs insito nella legge si era manifestato a sufficienza. La memoria di quelle brucianti esperienze ha reso le generazioni che sono seguite diffidenti, perfino nei confronti della legge regolarmente votata in Parlamento o deliberata direttamente dal popolo in referendum. Ma, per porre limiti e organizzare cautele, ogni altro strumento diverso dalla legge era andato perduto da un secolo e mezzo. Lo ius antico era stato distrutto. La società era irrimediabilmente mutata. Essa non produceva legittimità se non, per l´appunto, attraverso le procedure della legislazione. L´unico strumento a disposizione per limitare il legislatore era, ancora, soltanto una legge, ma dotata di una "forza" maggiore di quella ordinaria, la forza di legge costituzionale. Alle Costituzioni ci si affidò, scrivendovi cataloghi di diritti inviolabili e principi di giustizia inderogabili e prevedendo in essa meccanismi e organi di garanzia: procedure speciali per cambiarle, capi di Stato "garanti della Costituzione", come è quello previsto dalla nostra Costituzione, e Tribunali costituzionali, come è la Corte costituzionale.
Non c´era evidentemente altro da fare. Il positivismo giuridico, cioè la riduzione del diritto a sola legge positiva, precludeva ogni soluzione diversa da quella di porre un´altra legge, la legge più alta. Ma sarebbe stata davvero la soluzione? Il seme del dubbio stava già in una piccola, profetica frase detta da Joseph De Maistre, il critico dell´´89: «Come può dirsi che la Costituzione vincola tutti, se qualcuno l´ha fatta?». Come può impedirsi che quel qualcuno - individuo o popolo opportunamente evocato - come ha posto la Costituzione, così la sospenda, la eluda, la violi o la modifichi, al di fuori delle garanzie che la Costituzione stessa ha posto per difendersi da tutto questo? E´ una contraddizione, un´aporia, un circolo vizioso che ricorda lo stallo in cui era caduto il barone di Münchhausen. Come si può contare sul potere per difendersi dal potere? Le Carte costituzionali sono sì una garanzia, ma non ultima, solo penultima.
Questo è il paradosso del costituzionalismo del nostro tempo. Le leggi, e tra queste la Costituzione, possono molto ma non tutto. Esse formano come una grandissima costruzione, ma non più solida di un castello di carte, in quanto il loro fondamento sia posto solo in se stesse: cioè, in ultima analisi, nel potere. Antigone ci ammonisce ancora: senza ius, la lex diventa debole e, al tempo stesso, tirannica. La scommessa del costituzionalismo sta tutta qui: nella capacità della Costituzione, posta come lex, di diventare ius; fuori dalle formule, nella capacità di uscire dall´area del potere e delle fredde parole di un testo scritto per farsi attrarre nella sfera vitale delle convinzioni e delle idee care, senza le quali non si può vivere e alle quali si aderisce con calore. Per usare ancora le nostre categorie, la Costituzione, nel suo senso profondo, può dirsi il tentativo di restaurare una legittimità nel diritto, accanto alla sua legalità. Sarà pur vero, come è stato detto, che la legittimità restaurata non è che un paradiso artificiale; ma il primo compito di chi agisce per la Costituzione è per l´appunto di trascendere l´artificio per trasformarlo in forza culturale, vivente nella natura della società; di trasferire progressivamente la Costituzione dall´area della decisione politica che divide, crea inimicizie e conflitti a quella consensuale della cultura politica diffusa. Sotto questo aspetto, noi, come giuristi e particolarmente come costituzionalisti, dobbiamo, per la parte che ci compete, umilmente riconoscere la nostra colpa, per non avere adempiuto fino in fondo il nostro dovere. Sia pure mossi dalle migliori intenzioni - farla vivere nella meccanica dell´ordinamento giuridico - l´abbiamo isolata nel mondo del puro diritto positivo trascurando il compito, altrettanto, se non più essenziale, di farla valere come forza costitutiva di un idem sentire politico, diffuso in tutti gli strati sociali. Così, alla fine, abbiamo trascurato proprio la difesa più importante e l´abbiamo esposta inerme ai rischi che possano provenire da una volontà politica, quale che essa mai sia, che volesse procedere contro di essa in forma di legge.
Islam: "l'assenza di una gerarchia religiosa"
La Stampa 25 Giugno 2003
Il travaglio della diaspora cambia fede e uomini
Il nuovo Islam delle periferie d’Europa
di Khaled Fouad Allam
E’ sconcertante agli occhi di un occidentale - ma lo è anche per un musulmano autentico - il fatto che un imam venga arrestato perché accusato di aver aderito o appoggiato il terrorismo islamico internazionale. Nell'opinione pubblica, l'imam dovrebbe corrispondere a un prete e la moschea a una chiesa; ma le cose non stanno così, in realtà una simmetria di questo tipo non esiste.
Uno degli elementi che distingue l'islam sunnita dal cristianesimo, è proprio l'assenza di una gerarchia sacerdotale e di una chiesa in quanto istituzione religiosa. Sin dalla formazione dell'islam, l'assenza di istituzioni paragonabili a quelle cristiane è stata legittimata da due versetti del Corano: «L'uomo è il califfo di Dio sulla terra» e «Nessun monachesimo nell'islam». A questi versetti si sono associate storicamente due interpretazioni: una massimalista e una minimalista. La prima ha sempre definito l'islam nei termini di una totale autonomia dei credenti, e ha favorito l'emergere di comunità musulmane autonome come strumento di contestazione del potere centrale; ad esempio vi è stato un periodo in cui regnavano contemporaneamente due califfi, uno a Baghdad e uno a Cordova, che si contendevano il potere sulla comunità dei credenti. La seconda - l'interpretazione minimalista - invece ha sempre cercato di istituzionalizzare l'islam, mediante corporazioni come quella degli ulema, e attraverso istituzioni complesse, come i beni di manomorta delle moschee. Nei paesi islamici gli ulema hanno avuto storicamente la funzione di legittimare il potere politico: il califfo o il sultano doveva ottenere l'approvazione degli imam o degli ulema. Nel periodo attuale, in cui non esistono più califfati ma stati musulmani moderni, il controllo del religioso e la formazione degli imam sono affidati a un ministero degli affari religiosi, che esiste in ogni paese musulmano.
Oggi, nel definirsi di un islam d'Europa, di un islam della diaspora, lo stato europeo non può certo prevedere l'esistenza di un ministero degli affari religiosi per i musulmani; perché ciò che definisce la natura dello stato in Europa è la sua neutralità. Perciò l'islam pone un enorme problema, che dovrà essere risolto: in Europa gli imam vengono spesso nominati da associazioni estremamente variegate che possono sposare tendenze che vanno dalle più liberali alle più ortodosse, o possono essere eletti dalla comunità locale; ma ciò che caratterizza l'organizzazione del culto islamico in Europa è che sia la formazione degli imam, che la strutturazione delle moschee, il loro funzionamento finanziario e i loro collegamenti, tutto ciò sfugge totalmente a un controllo da parte delle pubbliche istituzioni. Molti musulmani immigrati affermano che in Italia vi sono degli imam che nei paesi islamici non potrebbero essere tali, essendo scarsissima la loro formazione.
E questo pone un altro problema, nell'islam contemporaneo, un problema analizzato da vari esperti: negli ultimi vent'anni si è diffuso quello che chiamiamo l'imam autodidatta, che ha costruito un sapere sull'islam fatto di tradizioni religiose mescolate con ideologie radicali o neofondamentaliste. Tutta la letteratura di opuscoli sull'islam che troviamo sulle bancarelle dei mercati in Europa ne è una testimonianza. Questo fenomeno ha dato nascita a un islam parallelo, che può utilizzare moschee e associazioni come appoggio logistico alle azioni del radicalismo islamico.
Non è la prima volta che avvengono fatti di questo tipo: già quindici anni fa in Francia, nella moschea di Digione, un imam fu accoltellato perché le sue prediche infuocate contro l'occidente avevano provocato una sommossa fra i fedeli. Questi episodi di cronaca giudiziaria pongono un problema che ho già sollevato in varie sedi istituzionali: l'urgente necessità di risolvere la questione della formazione del personale di culto nell'islam d'Europa. Perché a monte si pone il problema giuridico dell'autorizzazione a dirigere il culto e predicare ai fedeli che deve essere loro concessa; a valle vi è la grande questione del rapporto fra tradizione religiosa e il fatto nuovo che l'islam in Europa è una religione minoritaria che deve porsi in sintonia con il laicismo e le leggi della repubblica.
Certo, porre il problema della formazione degli imam in Europa significa entrare in una logica volontarista per lo stato europeo: perché esso deve creare i presupposti di una visibilità pubblica dell'islam, e affiancarlo così agli altri culti. E' un fatto inedito nella storia dell'islam e in quella d'Europa: ma se vogliamo evitare l'estendersi di questo islam parallelo, bisogna creare i presupposti per arginare il fenomeno e soprattutto per aiutare il processo di integrazione dei milioni di musulmani che vivono nella diaspora europea e che se oggi sono una minoranza silenziosa, cercano comunque di vivere la loro religiosità in modo pacifico, come dimostra proprio una recente ricerca torinese. Ma perché ciò avvenga, la questione degli imam deve essere posta e risolta con urgenza.
Il travaglio della diaspora cambia fede e uomini
Il nuovo Islam delle periferie d’Europa
di Khaled Fouad Allam
E’ sconcertante agli occhi di un occidentale - ma lo è anche per un musulmano autentico - il fatto che un imam venga arrestato perché accusato di aver aderito o appoggiato il terrorismo islamico internazionale. Nell'opinione pubblica, l'imam dovrebbe corrispondere a un prete e la moschea a una chiesa; ma le cose non stanno così, in realtà una simmetria di questo tipo non esiste.
Uno degli elementi che distingue l'islam sunnita dal cristianesimo, è proprio l'assenza di una gerarchia sacerdotale e di una chiesa in quanto istituzione religiosa. Sin dalla formazione dell'islam, l'assenza di istituzioni paragonabili a quelle cristiane è stata legittimata da due versetti del Corano: «L'uomo è il califfo di Dio sulla terra» e «Nessun monachesimo nell'islam». A questi versetti si sono associate storicamente due interpretazioni: una massimalista e una minimalista. La prima ha sempre definito l'islam nei termini di una totale autonomia dei credenti, e ha favorito l'emergere di comunità musulmane autonome come strumento di contestazione del potere centrale; ad esempio vi è stato un periodo in cui regnavano contemporaneamente due califfi, uno a Baghdad e uno a Cordova, che si contendevano il potere sulla comunità dei credenti. La seconda - l'interpretazione minimalista - invece ha sempre cercato di istituzionalizzare l'islam, mediante corporazioni come quella degli ulema, e attraverso istituzioni complesse, come i beni di manomorta delle moschee. Nei paesi islamici gli ulema hanno avuto storicamente la funzione di legittimare il potere politico: il califfo o il sultano doveva ottenere l'approvazione degli imam o degli ulema. Nel periodo attuale, in cui non esistono più califfati ma stati musulmani moderni, il controllo del religioso e la formazione degli imam sono affidati a un ministero degli affari religiosi, che esiste in ogni paese musulmano.
Oggi, nel definirsi di un islam d'Europa, di un islam della diaspora, lo stato europeo non può certo prevedere l'esistenza di un ministero degli affari religiosi per i musulmani; perché ciò che definisce la natura dello stato in Europa è la sua neutralità. Perciò l'islam pone un enorme problema, che dovrà essere risolto: in Europa gli imam vengono spesso nominati da associazioni estremamente variegate che possono sposare tendenze che vanno dalle più liberali alle più ortodosse, o possono essere eletti dalla comunità locale; ma ciò che caratterizza l'organizzazione del culto islamico in Europa è che sia la formazione degli imam, che la strutturazione delle moschee, il loro funzionamento finanziario e i loro collegamenti, tutto ciò sfugge totalmente a un controllo da parte delle pubbliche istituzioni. Molti musulmani immigrati affermano che in Italia vi sono degli imam che nei paesi islamici non potrebbero essere tali, essendo scarsissima la loro formazione.
E questo pone un altro problema, nell'islam contemporaneo, un problema analizzato da vari esperti: negli ultimi vent'anni si è diffuso quello che chiamiamo l'imam autodidatta, che ha costruito un sapere sull'islam fatto di tradizioni religiose mescolate con ideologie radicali o neofondamentaliste. Tutta la letteratura di opuscoli sull'islam che troviamo sulle bancarelle dei mercati in Europa ne è una testimonianza. Questo fenomeno ha dato nascita a un islam parallelo, che può utilizzare moschee e associazioni come appoggio logistico alle azioni del radicalismo islamico.
Non è la prima volta che avvengono fatti di questo tipo: già quindici anni fa in Francia, nella moschea di Digione, un imam fu accoltellato perché le sue prediche infuocate contro l'occidente avevano provocato una sommossa fra i fedeli. Questi episodi di cronaca giudiziaria pongono un problema che ho già sollevato in varie sedi istituzionali: l'urgente necessità di risolvere la questione della formazione del personale di culto nell'islam d'Europa. Perché a monte si pone il problema giuridico dell'autorizzazione a dirigere il culto e predicare ai fedeli che deve essere loro concessa; a valle vi è la grande questione del rapporto fra tradizione religiosa e il fatto nuovo che l'islam in Europa è una religione minoritaria che deve porsi in sintonia con il laicismo e le leggi della repubblica.
Certo, porre il problema della formazione degli imam in Europa significa entrare in una logica volontarista per lo stato europeo: perché esso deve creare i presupposti di una visibilità pubblica dell'islam, e affiancarlo così agli altri culti. E' un fatto inedito nella storia dell'islam e in quella d'Europa: ma se vogliamo evitare l'estendersi di questo islam parallelo, bisogna creare i presupposti per arginare il fenomeno e soprattutto per aiutare il processo di integrazione dei milioni di musulmani che vivono nella diaspora europea e che se oggi sono una minoranza silenziosa, cercano comunque di vivere la loro religiosità in modo pacifico, come dimostra proprio una recente ricerca torinese. Ma perché ciò avvenga, la questione degli imam deve essere posta e risolta con urgenza.
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