martedì 8 febbraio 2005

etnopsichiatria

Eco di Bergamo 8.2.05
Etnopsichiatria, la nuova disciplina che studia i disagi dell'immigrazione
di Martino Doni


Ling è un immigrato cinese che soffre di gravi disturbi psichici: sente «voci» di donne che lo insultano, avverte delle minacce misteriose, alterna momenti di iperattività – arrivando a lavorare fino a tredici ore al giorno – a momenti di prostrazione fisica e psichica. Ling parla solo cinese, viene dalla campagna. Il cognato che lo accompagna dal dottore per la necessaria traduzione non fa che minimizzare il disagio: per lui è una specie di scocciatura, vorrebbe che il dottore curasse il parente senza tirare in ballo le strane storie che racconta. Ma qualche cosa trapela dalle confuse parole di Ling: una ragazza l'avrebbe «affatturato» in Cina, prima che partisse per l'Italia, e poi si sente «sporco», impuro. Bisogna provvedere ai riti di purificazione.
Così incomincia la relazione che i dottori Giuseppe Cardamone e Salvatore Inglese, tra i maggiori esperti nel loro campo in Italia e all'estero, hanno tenuto all'università di Bergamo, nel corso di un seminario sull'etnopsichiatria fortemente voluto e organizzato dal «Cerco» (Centro di ricerca sull'antropologia e l'epistemologia della complessità), presentato da Mauro Ceruti e da Gianluca Bocchi. Da tempo ormai il mondo occidentale è messo alla prova dal sempre più intricato meccanismo delle migrazioni: anche i medici dell'anima devono farsi carico di una simile provocazione – da qui nasce l'esigenza di conciliare la scienza medica con lo studio delle culture «altre». L'assunto di partenza è che non esiste qualche cosa come la «mente», isolata e astratta dal contesto culturale e sociale. Dunque per «curare» la mente occorre un sapere che sappia «sporcarsi» con le consuetudini, i rituali, le credenze che caratterizzano un determinato gruppo umano. «Non c'è manifestazione psichica rilevante che non sia immersa in un particolare contesto culturale», dice Cardamone, quindi bisogna abbandonare il mito di una psichiatria che cali dall'alto le sue diagnosi e le sue terapie. È evidente che si tratta di un discorso per molti versi scomodo, sia per la società in cui viviamo, sia per la medicina «classica» che spesso si maschera dietro l'autorità del camice bianco per evitare il confronto diretto con una realtà che cambia molto più velocemente di qualunque teoria. Scomodo, certamente, ma necessario, perché non si tratta più ormai di considerare il soggetto migrante come un dato estraneo alla vita quotidiana, anzi è proprio l'esperienza di ciascuno di noi, che sta diventando essa stessa «migrante», come dimostrano gli studi applicati alle società delle grandi metropoli globalizzate. L'identità culturale non è più ereditata come un solido patrimonio dalle generazioni precedenti, ma è costruita con fatica nella condivisione quotidiana e nel dialogo con dimensioni diverse e spesso contrastanti. Per questo la psichiatria deve sapersi mettere in crisi, porre tra parentesi i propri dettami scientifici e accettare la sfida della complessità.
Ma come nasce l'etnopsichiatria?
«Si tratta di una disciplina in continuo sviluppo – spiega Cardamone (che da quest'anno insegnerà psichiatria presso la facoltà di psicologia di Bergamo, ndr) – all'inizio del secolo scorso erano pochissimi gli studiosi che osavano interpretare i disagi psichici in relazione ai contesti culturali. Anzi, negli anni trenta si cercò di fare l'operazione inversa, cioè etichettare il processo migratorio come un sintomo patologico».
Dunque il migrante era considerato un «malato»?
«In un certo senso sì: mediante l'analisi statistica – su basi peraltro assai discutibili – si tentò di provare la relazione tra patologie schizofreniche e tendenze migratorie. Ma da un certo punto di vista anche questo genere di studi servì per mettere in evidenza un problema, cioè il fatto che un sintomo non è un dato neutro, ma è sempre in rapporto con la società che lo traduce in meccanismo di malattia e di cura. Così è la cultura di provenienza che non solo “spiega” il disagio, ma in qualche modo lo produce. Il compito del medico, come ci hanno insegnato i veri maestri della disciplina etnopsichiatrica – Devereux e Collomb – non è quello di imporre un marchio di patologia sul paziente, ma di ascoltare la sua storia, quella delle sue origini e delle sue usanze».
Così però viene meno la classica distinzione tra paziente e dottore, e viene messa in crisi la stessa funzione curativa della psichiatria. La pratica terapeutica diventa «a-psichiatrica», come ha detto Inglese.
«Noi non vogliamo annullare la terapia, al contrario: vogliamo che la terapia funzioni nel modo migliore, cioè nel pieno rispetto della libertà del paziente. In ogni parte del mondo ho potuto vedere che le malattie mentali vengono diagnosticate e curate in modi completamente diversi: che diritto abbiamo noi – detentori di un sapere culturalmente determinato come il nostro – di diventare i portavoce di una scienza assoluta? La sfida dell'etnopsichiatria non consiste nel cancellare le differenze, ma al contrario le mette in gioco, tutte quante. L'esperienza di Collomb a Dakar, in questo senso, mi pare altamente significativa. Collomb comprese che per curare i malati serviva una prospettiva multidisciplinare che si avvalesse anche dei terapeuti tradizionali, quelli che di solito si chiamano ironicamente gli stregoni. Occorre riuscire a parlare la lingua matrice del paziente, altrimenti rischiamo di imporre noi stessi una lingua che nessuno riesce a decifrare, che non serve a nulla, e la pratica terapeutica diventa una pratica di oppressione».