martedì 8 febbraio 2005

Giuliana

Il manifesto.it 6 febbraio 2005
Le verità di Giuliana
ALESSANDRO ROBECCHI


Ma insomma, cos'è successo a Falluja? Com'è che tutti quelli che si avvicinano troppo per sapere dei giorni spaventosi dell'assedio e della conquista si scottano o spariscono? Come la nostra Sgrena, come la collega francese Aubenas. Cos'è successo laggiù che è così delicato, così pericoloso raccontare? Può sembrare una domanda oziosa, ora, e come tutti i dettagli nel momento della paura e dello sgomento pare di sfiorare il cinismo. E però, se guardate bene, dentro questa domanda c'è il senso intero e compiuto di quel che Giuliana faceva lì. Falluja, naturalmente. Che vale Kandahar, che vale Mogadiscio, che vale Kabul. Che vale tutti i posti in cui l'accecamento delle fazioni non consente posizioni terze, visioni problematiche, volontà di capire e raccontare. Meglio non ci siano testimoni: la guerra è una faccenda piuttosto mafiosa, sarebbe gradito accettare le versioni ufficiali, non ficcare il naso. Nessuno che risolva le questioni a pistolettate, con i camion bomba o i bombardieri gradisce molto queste intrusioni di intelligenza che sono le domande, le richieste di spiegarzioni, le storie che raccontano la realtà. Amico/nemico è il sistema binario elementare - direi primitivo - che genera e alimenta la macchina della guerra. Incidentalmente, e con deplorevole tempismo, ce l'hanno ricordato poche ma significative schifezze comparse su alcuni giornali della destra.
Amica dei guerriglieri, ben ti sta, o cose simili. Come si vede, la logica troglodita della guerra fiorisce anche ben lontano dal fronte. Ogni falco gradisce un falco come nemico, e per le colombe sono tempi duri. E invece pare proprio il momento per dire chiaro e forte che è il contrario. Che la capacità di sfuggire a questa logica accecante è l'unico modo per uscirne. E cioè il guardare e il raccontare quel che accade, che vive o che tenta di vivere a dispetto di questa logica. Come fa Giuliana, appunto, come fanno quelli che non si accontentano delle versioni ufficiali, che vanno a fare domande, che ascoltano (cosa rara) le risposte. Così l'Iraq che ci racconta Sgrena non è esattamente quello che ci raccontano gli altri. Gli elettori disincantati e stanchi dei suoi reportages non sono quelli entusiasti e «liberati» che abbiamo visto e sentito in altri più accomodanti racconti. E dietro il dito indice sporco di inchiostro dei tanti votanti iracheni, lei sa dirci tutta la mesta complessità di una situazione, anche umana, anche privata, che compone il mosaico di un pezzo di storia che molti ci raccontano in un altro modo.
Sapere cos'è successo a Falluja, ora, vedete, non pare un'emergenza, forse un giorno lo sapremo e metteremo al suo posto un altro tassello del mosaico della barbarie dell'oggi. Ma, almeno in metafora, mai come oggi è doveroso saperlo. Perché non è solo la notizia qui che conta, ma la possibilità e la libertà di dirla, di cercarla e raccontarla a tutti. La rivendicazione di voler capire un po' di più, di non essere embedded nel cervello e il sacrosanto diritto di non essere arruolati a forza in una guerra sbagliata, folle e tanto dolorosa. Questa differenza, questa stonatura rispetto allo spartito ufficiale, questo guardare la guerra da dentro, ma da pacifista, è un punto di forza e non - come vorrebbero farci credere i soliti «armiamoci e partite» - una sconsiderata contraddizione.
E' in questa differenza, in questo modo di guardare le cose, che sta tutta - ma proprio tutta - la nostra lontananza da questa guerra e dalla logica che l'ha prodotta, e nessuno come Giuliana Sgrena sapeva raccontarlo, grazie alla scelta del suo angolo di visuale, alla sua speciale prospettiva di donna e pacifista e giornalista. Ovvio che deve tornare a casa al più presto, perché quel suo angolo di visuale è tanto prezioso quanto raro. E perché - tra le tante cose - deve raccontarci quel che c'è dietro questa guerra. E anche cosa è successo a Falluja.