martedì 8 febbraio 2005

(...toccando ferro...)
un'intervista al prof. Severino

La Stampa 08 Febbraio 2005
SEVERINO: «Cogito perché soffro»
FILOSOFIA E CATASTROFI. COME PUÒ AIUTARCI IL PENSIERO IN UN MONDO SEGNATO DA GUERRE, ATTENTATI, EPIDEMIE, TERREMOTI
di Mario Baudino
inviato a BRESCIA

«Tutto nasce dallo stupore di fronte al dolore e alla morte
La riflessione filosofica è un tentativo di porre rimedio all’aspetto tragico della vita umana»

«I disastri naturali sono il farsi avanti degli eterni orrendi. Ma la nostra angoscia è soprattutto effetto della persuasione che le cose vengano dal nulla e vadano nel nulla»
CHE cosa ci dice la filosofia nell'era delle catastrofi? A che cosa ci serve? Il maremoto che ha colpito le coste dell'Asia è solo l'evento più recente, e date le sue caratteristiche anche il primo totalmente «globalizzato», che si è imposto istantemente, attraverso i media, in tutto il mondo. Ma la serie di terremoti, magari dimenticati in fretta, è lunga e fitta negli ultimi anni, per non parlare delle malattie, della strage silenziosa dei morti per Aids soprattutto in Africa. La natura riacquista nel mondo della comunicazione il suo aspetto spaventoso, antico, smentendo una società evoluta il cui senso comune tendeva a ritenerla ormai qualcosa di domato da tempo, al più da proteggere proprio nei confronti dei pericoli rappresentati dall'attività umana. Non era così, o almeno non era solo così. La natura sembra essersi risvegliata come un antico Dio, furibondo e minaccioso.
Di fronte al terrore, se non vogliamo risolvere il problema rivolgendoci a questa o quella fede religiosa, restano le «consolazioni della filofia», cui almeno in Italia la gente sembra da anni rivolgersi con interesse sempre maggiore. I filosofi sono tornati a occupare un ruolo centrale almeno per l'opinione pubblica più colta. E a loro abbiamo rivolto domande semplici, forse brutali, cominciando da Emanuele Severino; in questi giorni ha pubblicato due libri, Nascere per Rizzoli e Fondamento della contraddizione per Adelphi, che affrontano i temi della bioetica da una parte e del pensiero aristotelico dall'altra. Proprio al filosofo greco, al precettore di Alessandro Magno, il filosofo bresciano affida la premesse di una risposta che è certamente di netta chiarezza. «Aristotele diceva: la filosofia non serve perché non è una serva. La filosofia "si serve". È un po' come chiedere a che cosa serve l'uomo».
Professore, abbiamo sbagliato tutto?
«No; al di là della battuta, va osservato che la filosofia nasce proprio in relazione al carattere costantemente catastrofico del mondo. I primi scritti erano definiti infatti come perì physeos, che andrebbe tradotto non come si fa abitualmente con "intorno alla natura", ma "intorno all'essere" che si manifesta come natura. Da Platone a Aristotele la filosofia nasce da ciò che chiamiano erroneamente la "meraviglia", il tháuma greco, ovvero l'angosciato stupore di fronte al dolore e alla morte, dove ciò che signoreggia è la catastrofe naturale, non meno della morte apportata dagli uomini».
Quindi l'era delle catastrofi corrisponde all'era dell'umanità, è antica quanto la nostra cultura, è la nostra stessa storia?
«Lo stupore viene dall'aspetto tragico della vita. Le catastrofi naturali hanno un ruolo importante: pensi ai terremoti, alle pestilenze. La più conosciuta, quella di Milano raccontata dal Manzoni, ridusse una popolazione di 250 mila persone a 60 mila sopravvissuti. Il pensiero filofosico è un tentativo di porre rimedio al dolore che sta al centro dell'esistenza umana».
Si può allora dire, contrariamente a Aristotele, che in un altro senso la filosofia è ciò che più serve?
«Si può dire. Se esaminiamo un altro tentativo di rimedio, e cioè il mito, vediamo che nasce anch'esso per rendere sopportabile il dolore attraverso l'affermazione che il mondo ha un senso. Ma il senso mitico del mondo non resiste al dubbio. Il mito è la prima forma di rimedio perché dà un senso al dolore, lo rende in qualche modo prevedibile, contenibile, e quindi comprensibile, ma la posta in gioco è troppo alta. Il dubbio esige che il senso del mondo non sia il prodotto di una volontà umana, ma qualcosa che si impone alla coscienza dell'uomo e perciò in qualche modo sia vero. Aristotele osserva infatti che l'amante del mito è un po' filosofo, ma non del tutto».
Solo il filosofo, quindi, può guardare con spavento ma anche lucidità alla catastrofe?
«La filosofia, sotto questo aspetto, conosce persino il concetto di distruzione totale del mondo. Eraclito definisce il mondo una fiamma viva che si accende e si spegne. È un'idea presente in tutta la filosofia greca, e passa in quella cristiana con l'Apocalisse. Anche Aristotele crede in una catastrofe ciclica, e tuttavia ritiene il mondo eterno, nel susseguirsi di queste fasi di rinascita e distruzione. Si arriva fino a Giacomo Leopardi, dove però il "rimedio" filosofico appare schiacciato dalla consapevolezza dell'impossibilità di assolvere al suo compito».
Ma allora, se tutto questo fa parte intimamente della nostra cultura, lo sconcerto e lo spavento, l'idea di vivere in un'età della catastrofe sono solo un effetto di smemoratezza?
«No, perché qualcosa è mutato. Non la natura, ma la filosofia moderna, che negli ultimi due secoli ha portato alle estreme conseguenze ciò che era già nei greci. Ha scosso le sicurezze delle élite intellettuali, che non ne sono uscite indenni: la loro certezza è che non c'è alcuna salvezza dal nulla, perché il mondo viene dal niente e finisce nel niente. E la situazione non cambia molto se ci aggiungiamo un Dio creatore e distruttore. L'ateo e il credente credono, appunto, alla stessa cosa. Oggi è questo il senso che diamo al mondo. E determina la sbandamento della gente».
Che non ha mai letto un filosofo, ma è comunque impregnata indirettamente da queste riflessioni, perché fanno parte della cultura in cui viviamo.
«Direi proprio che sono le masse a perdere l'aggancio al grande passato rassicurante, senza però potersi abituare facilmente alle promesse della tecnica, che dice loro: tutto è possibile».
Lei però non propone un ritorno al passato.
«Si riferisce al titolo del mio libro Ritorno a Parmenide? No, nel passato c'è già tutto quello che la tecnica avrebbe portato ai suoi esiti d'oggi. Se invece vogliamo parlare del "mio" pensiero, e lo metta tra virgolette quel mio, allora parliamo di eternità. Nel senso però che non solo il mondo è eterno, ma ogni istante, ogni sentimento, la mia voce che parla in questa stanza, lei che scrive, tutto lo è. È presente in ognuno di noi, risplende nell'inconscio più profondo, l'eternità di ogni cosa, che resta per lo più non testimoniata dal linguaggio. È una teoria, e non un'esperienza, dire che le cose sparite sono diventate niente».
Ma che risponderebbe a chi le parlasse della propria paura per il terremoto? Di non preoccuparsi perché è eterno?
«No, sarebbe una battuta inutile e anzi dannosa. Che provocherebbe credo anche un giusto risentimento. Le catastrofi sono il farsi avanti degli eterni orrendi, come le agonie, le morti. Ma l'angoscia umana per il dolore e la morte è soprattutto conseguenza della persuasione che le cose vengano dal nulla e vadano nel nulla.
Quindi non direbbe niente?
«Spinoza, una volta che da una donna gli fu chiesto consiglio sul fatto se cambiare o meno la propria religione, rispose: tienitela cara. Kant, invece, si prodigò per una signora che gli aveva confidato un problema famigliare, e lei poco dopo si uccise. Se si cede alla tentazione di andare incontro al prossimo con una battuta, non si fa il bene del prossimo».