martedì 8 febbraio 2005

la filosofia buddista

Corriere della Sera 8.2.05
Lasciare invece di Prendere: ecco il Buddha filosofo


C’è chi lo studia attraverso gli innumerevoli testi prodotti sull’argomento, chi prova a esserlo attraverso la meditazione e l’eremitaggio, chi lo pratica estrapolandolo dal contesto e applicandolo all’interno delle regole occidentali. E c’è qualcuno cha ha fatto tutto questo insieme, mischiando idee teoriche e apparentemente astratte con la pratica di vivere i precetti tra le montagne dell’Himalaya, per poi tornare nel mondo occidentale odierno e comporre un testo che a tutti gli effetti il New York Times definisce una autobiografia intellettuale.
Promette moltissimo An End to Suffering- the buddha in the world di Pankaj Mishra (Farrar, Strauss & Giroux, pp. 422, $25). Anzi, forse era il libro che molti (compresa me) si aspettavano, che siano buddhisti o no. A scanso di equivoci si precisa subito che An End to Suffering non considera il buddismo da un punto di vista religioso quanto invece come un sistema di pensiero. E il Buddha stesso un filosofo piuttosto che una deità che vide i limiti e le finitezze dell’uomo e cercò di porvi rimedio. Filosofo che visse in un’epoca di grandi mutamenti sociali, quando la società indiana perdeva la priorità assegnata alla vita dei piccoli villaggi che si amministravano da soli secondo gli usi locali. Di colpo queste piccole collettività si trovarono catapultate, senza più identità, all’interno di un’organizzazione più grande perdendo letteralmente il senso di orientamento dato dalla saggezza dei più anziani. Le conseguenze furono enormi: carestie, guerre, mutamenti sociali, migrazioni. Questa è l’India nella quale visse Buddha, a questo mondo tentò di dare un altro significato che andava cercato dentro l’essere umano. Fu il primo che diede risposta all’angoscia e all’incertezza della modernità, così come la si intende anche oggi.
Curiosamente le condizioni dell’oggi presentano tratti comuni ad allora. E Misha tratti comuni con lo stesso Buddha. Anche lui è nato da una famiglia indù che nelle trasformazioni sociali ha perso i suoi averi e si è spostata dal confine nepalese vero una grande città. Privato di identità, privato dello status quo della casta Misha si trovava esattamente in quella posizione dolorosa dove la libertà si confonde con il dolore. Decide di partire per un viaggio nei luoghi sperduti, di villaggio in villaggio per capire veramente il Buddha perché non gli basta frequentarlo trasmutato e forse manipolato dall’Occidente. Quando torna e va a Londra, vede negli occhi delle gente che prende la metropolitana la frettolosità ipercinetica che rende ciechi e rivela un enorme panico interiore. Occorre fermarsi, trasformare le costrizioni e gli eccessi del nostro vivere in mezzo alla moltiplicazione dei desideri. In fondo è questa la forza del buddismo nel nostro mondo. Prolifica ora, che il terreno abitato dall’occidente si trova in un caotico, antropico, febbrile fermento. Misha sottolinea anche nel suo libro appassionato, impegnato, ingenuo e semplice, complicato e profondamente umano (così lo definisce il Nyt) la difficile applicazione che l’Occidente fa della filosofia buddista, che non ha divinità, peccati originali, inferno o paradiso. Ma che non per questo è più semplice o più consolatoria. Buddha come Aristotele o Platone, non come Dio, questo è il punto di vista di Mishra. Non un accecato credere per ottenere ma un profondo comprendere per lasciare.