martedì 8 febbraio 2005

Lebensborn: il progetto nazista di "eugenetica ariana"

La Gazzetta di Parma 8.2.04
In un libro l'esperienza di chi si è scoperto frutto di quell'orrore
di Giuseppe Martini


Il sessantesimo anniversario della fine della Seconda Guerra Mondiale, che il 27 gennaio scorso ha sottolineato di più intensi significati la Giornata della Memoria, non ha modificato sensibilmente il ritmo di uscita di libri sulla Shoah e sulle persecuzioni naziste, che annualmente non conoscono flessioni editoriali, evidentemente per naturale risposta a un interesse diffuso e ininterrotto dei lettori per quei drammi storicamente, e persino quotidianamente, ancora operanti nelle scelte etiche e ideologiche di milioni di persone - e non certo « per non dimenticare » ( proviamo anche a rinfrescare parole che rischiano lo svuotamento, poichè dimenticare sarebbe francamente assai difficile) . Ci sono anche storie laterali ma non meno catastrofiche, dai centomila omosessuali massacrati in Germania durante i cinque anni della guerra, ai drammi che vivono ancora oggi i discendenti per anni inconsapevoli dei tortuosi progetti nazisti. Uno di questi è stato consegnato a un racconto autobiografico che Baldini Castoldi Dalai editore ha tradotto di recente, «In nome della razza ariana» , ampia confessione-indagine di una donna tedesco-norvegese, Gisela Heidenreich, che oggi di mestiere fa la psicoterapeuta e che nel 1943 fu partorita all'interno del focoso progetto Lebensborn. Heidenreich è nata a Oslo. Ha sempre saputo di essere nata in un Lebensborn, sua nonna le spiegava che si trattava di un asilo d'infanzia, un asilo di cui era segretaria la madre di Gisela stessa. Lo shock arriva a tredici anni appena: Gisela scopre che quel Lebensborn altro non era che una delle centinaia di istituzioni tedesche artatamente predisposte dal piano partorito dalla mente di Himmler per accoppiare donne dotate di opportuni requisiti genetici a ufficiali delle SS, in modo da riprodurre e perpetuare una razza ariana "perfetta". Con frequenza le donne scelte erano scandinave, anche se spesso risultavano imbarazzantemente alte per i già alti ufficiali del Terzo Reich. Anche Gisela è figlia di un SS e di una donna norvegese, che credeva segretaria d'asilo. I bambini venivano accolti in questi campi di isolata e geometrica educazione alla razza superiore, spesso dati in adozione a famiglie di inattaccabile fede nazista, gli asili erano gestiti dalle SS stesse, i documenti furono naturalmente distrutti alla fine della guerra. Grande fioritura perciò di leggende e informazioni scorrette, specie di stampo statunitense, nell'ultimo mezzo secolo, che hanno trasformato i Lebensborn in istituti di riproduzione coatta (mentre trattavasi piuttosto di luogo dove venivano controllate le gravidanze «arianamente scorrette»). Gisela Heidenreich ha ritrovato dopo anni il padre, che credeva morto, e le è bastato sapere che non aveva mai lavorato in campi di concentramento - l'avrebbe certamente respinto, dice, e ha vissuto l'attesa di incontrarlo con la paura di una risposta che glielo avrebbe fatto perdere. Narrazione fitta, ma con la grazia di chi ha accettato un passato e lo smarrimento di chi torna sulle piste di un'identità incerta. Flash analogici rendono vivacissimo il meccanismo mentale del racconto: quando un signore nel 1996 si avvicina all'autrice chiedendo la testimonianza della madre di lei per riconoscere la propria genesi Lebensborn, citando Norimberga, ecco trasudare il flashback del ricordo di quella città, quando la madre della piccolissima Gisela dovette andare a testimoniare al Processo. C'è, in questa insospettabile placidità narrativa, la tensione aggrovigliata di un linguaggio che finge, dev'essere senz'altro per pudore, di non avere bisogno di un urlo di orrore, e si assume il lusso di una levità imperfettibile. A sostenere questa donna prodigiosa che si ritrova riassettare le bricie di una personalità perplessa non è, stando a quel che dice, la cultura psicoterapeutica o la consapevolezza stessa di possedere una cultura, sontuoso placebo a ogni crisi di indentità, ma l'amore del marito e il profumo della sua pelle, sula quale addormentarsi come appunto una bambina. Nonostante la sospettosa oleosità dei sentimenti, sono i sentimenti che assicurano ancora a questa donna invero fortissima un «Ich bin», un'autocoscienza in posizione eretta. Ma, stando alle lettere del padre alla madre della Heidenreich, il dramma fu anche ex parte patri, che non avrebbe disdegnato vedere la sua « Gisellina » . È il culmine di un periplo conoscitivo di Heidenreich durato mezzo secolo di ricerche e che qui prosegue per centinaia di pagine senza ombra di cachessía. Tale dissennata e rozza rovina di sentimenti avviata da un gigantesco meccanismo impazzito rivela in primo luogo l'inattitudine umana a programmare la sofferenza, destinata a ritorcersi senza controllo. In secondo luogo come la sofferenza sia destinata, con il tempo, a trasformarsi in fastidio. Gisela nelle ultime pagine ha ancora la forza di commuoversi, e questo la preserva per ora in un suo piccolo paradiso privato.