(... proprio come nel 1980...)
«il Circuito Nazionale Feste de l'Unità sta allestendo una TV satellitare che trasmetterà per l'intero periodo della festa.
L'organizzazione è in cerca di idee e proposte per i programmi. Se sei un aspirante regista, operatore di camera, fotografo, se ne conosci qualcuno, o sei semplicemente interessato a ricevere via e-mail il programma del palinsesto visita il sito delle Feste de l'Unità: http://www.festaunita.it»
«L'iniziativa è per noi molto impegnativa e potrà avere successo se sarà supportata "dal basso" grazie al sostegno e alla partecipazione di chi la guarda. Per questo abbiamo bisogno di idee, di proposte, anche di un contributo di compagni, amici e militanti con la videocamera. (collaborazioni@festaunita.it oppure info@festaunita.it). Indicateci cose che avete visto e che secondo voi sono importanti da valorizzare, proponete idee di programmi da realizzare alla festa, indicateci televisioni locali che potrebbero collaborare al progetto.
Spediteci materiali, clip, interviste, cortometraggi, documentari a questo indirizzo:
Arianna Camellini, c/o Federazione bolognese dei DS, via della Beverara 9, 40131 Bologna.
Li guarderemo e quando possibile, li manderemo in onda»
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»
L'ASSOCIAZIONE CULTURALE
giovedì 31 luglio 2003
da adesso è ufficiale: Marco Bellocchio, con Buongiorno Notte, in concorso a Venezia per il Leone d'Oro!
Repubblica online 31.7.03
Festival di Venezia, dal 27 agosto al 6 settembre
Presentata l'edizione numero 60, con una folta pattuglia
di titoli italiani: in gara Bellocchio, Benvenuti e Winspeare
(...) ma [Bertolucci e] i film Usa scelgono di stare fuori concorso
di Claudia Morgoglione
(...)
Tra le pellicole lunghe, tre sono inserite nel concorso principale, quello chiamato Venezia 60, e che assegna il Leone d'Oro: Buongiorno notte di Marco Bellocchio, con Luigi Lo Cascio; Segreti di Stato di Paolo Benvenuti, una ricostruzione inedita della strage mafiosa di Portella della Ginestra; Il miracolo di Edoardo Winspeare, ambientato a Taranto. Mentre The dreamers, l'attesissima opera di Bernardo Bertolucci ambientata negli anni della contestazione, è presente fuori concorso.
Il Riformista 31 Luglio 2003
VENEZIA. CINEMA
Ma com'è di sinistra la Biennale di destra
Moritz de Hadeln sa di essere sotto tiro. Benché abbia cambiato la suoneria del suo cellulare, che fino a pochi mesi fa replicava le note dell'Internazionale, questo sessantenne anglo-svizzero, esperto nel maneggiare cine-festival (Locarno, Berlino), continua a non piacere al centrodestra, che pure gli ha consegnato il timone della prestigiosa Mostra di Venezia. In verità fu Franco Bernabè, manager scelto dal ministro Urbani per presiedere la Biennale, a nominarlo due anni fa, chiudendo così una brutta storia di nomi bruciati e dinieghi imbarazzati. Lo straniero, fatto passare per "tecnico" puro, doveva salvare l'edizione del 2002 e fare le valigie: invece è ancora al Lido, e chissà che non vi resti a lungo. Lui ci tiene. Bernabè, pur pensando a un candidato diverso, più giovane, se possibile italiano, non sembra intenzionato a smuovere più di tanto le acque. E il centrodestra? Mugugna, s'incazza e abbozza.
L'anno scorso, dopo il film collettivo sull'11 Settembre, considerato antiamericano, e il Leone d'oro a Magdalene, considerato anticattolico, de Hadeln fu messo sulla graticola dal consigliere Valerio Riva, il quale minacciò addirittura provvedimenti disciplinari. E anche Urbani, pur attenendosi ad una linea più diplomatica, fece filtrare qualche disappunto rispetto alla linea estetico-culturale della Mostra.
Risultato: un piccolo paradosso destinato a rinnovarsi anche quest'anno, in occasione del sessantesimo. Proprio stamattina il direttore rivelerà il menù del festival (27 agosto-6 settembre), che si annuncia più "di sinistra" e antagonista che mai. Roba da far venire il mal di pancia a Riva, che non mancherà di esternare il proprio disappunto. Coi suoi fidati selezionatori, quasi tutti di area ulivista (da Silvio Danese a Oscar Iarussi, da Tilde Corsi a Serafino Murri), de Hadeln ha messo a punto, infatti, un palinsesto fortemente politicizzato, hollywoodiano con giudizio, certo non rassicurante. Pensate: con I sognatori Bernardo Bertolucci, al suo ritorno a sei anni da L'assedio, racconta in una chiave ideologico-scandalosa il Sessantotto francese, allestendo un triangolo adolescenziale sessualmente disinibito; con Buongiorno notte, da un verso di Emily Dickinson*, Marco Bellocchio ricostruisce il sequestro Moro dal punto di vista dei carcerieri che tennero in ostaggio, in quei lunghi 55 giorni, lo statista dc (Roberto Herlitzka incarna "il prigioniero", Luigi Lo Cascio e Maya Sansa i brigatisti Mario Moretti e Anna Laura Braghetti); con Segreti di Stato Paolo Benvenuti, cineasta marxista con la passione di Dreyer e Bresson, riscrive la dinamica della strage di Portella della Ginestra (1° maggio 1947, undici morti e ventisette feriti sul terreno), tirando in ballo, sulla base di documenti de-secretati trovati a Washington, l'intervento dei servizi segreti americani in quella pagina oscura di storia patria. Forse ci sarà anche Ettore Scola col suo Gente di Roma, che si chiude con la manifestazione dei girotondi del 14 settembre 2002. De Hadeln si confessa sereno: sono film belli, Venezia non poteva rifiutarli. Ma vedrete che il centrodestra, ritenendosi truffato, alla fine chiederà di nuovo la testa del direttore «venuto dal freddo».
*Good Morning - Midnight -
I'm coming Home -
Day - got tired of Me -
How could I - of Him?
Sunshine was a sweet place -
I liked to stay -
But Morn - did'nt want me - now -
So - Goodnight - Day!
I can look - cant I -
When the East is Red?
The Hills - have a way - then -
That puts the Heart - abroad -
You - are not so fair - Midnight -
I chose - Day -
But - please take a little Girl -
He turned away!
(di Emily Dickinson)
...e questa che segue è una traduzione, tratta da http://www.incipitario.com/ed0421-0500.html:
Buongiorno - Mezzanotte -
Sto tornando a Casa -
Il Giorno - si è stancato di Me -
Come potrei Io - di Lui?
La luce del sole era un dolce luogo -
Mi piaceva starci -
Ma il Mattino - non mi voleva - ormai -
Così - Buonanotte - Giorno!
Posso guardare - dai -
Quando è Rosso ad Oriente?
Le Colline - hanno un aspetto - allora -
Che fa traboccare - il Cuore -
Tu - non sei così bella - Mezzanotte -
Io scelsi -il Giorno -
Ma - per favore prendi una Ragazzina -
Che Lui ha cacciato via!
Festival di Venezia, dal 27 agosto al 6 settembre
Presentata l'edizione numero 60, con una folta pattuglia
di titoli italiani: in gara Bellocchio, Benvenuti e Winspeare
(...) ma [Bertolucci e] i film Usa scelgono di stare fuori concorso
di Claudia Morgoglione
(...)
Tra le pellicole lunghe, tre sono inserite nel concorso principale, quello chiamato Venezia 60, e che assegna il Leone d'Oro: Buongiorno notte di Marco Bellocchio, con Luigi Lo Cascio; Segreti di Stato di Paolo Benvenuti, una ricostruzione inedita della strage mafiosa di Portella della Ginestra; Il miracolo di Edoardo Winspeare, ambientato a Taranto. Mentre The dreamers, l'attesissima opera di Bernardo Bertolucci ambientata negli anni della contestazione, è presente fuori concorso.
Il Riformista 31 Luglio 2003
VENEZIA. CINEMA
Ma com'è di sinistra la Biennale di destra
Moritz de Hadeln sa di essere sotto tiro. Benché abbia cambiato la suoneria del suo cellulare, che fino a pochi mesi fa replicava le note dell'Internazionale, questo sessantenne anglo-svizzero, esperto nel maneggiare cine-festival (Locarno, Berlino), continua a non piacere al centrodestra, che pure gli ha consegnato il timone della prestigiosa Mostra di Venezia. In verità fu Franco Bernabè, manager scelto dal ministro Urbani per presiedere la Biennale, a nominarlo due anni fa, chiudendo così una brutta storia di nomi bruciati e dinieghi imbarazzati. Lo straniero, fatto passare per "tecnico" puro, doveva salvare l'edizione del 2002 e fare le valigie: invece è ancora al Lido, e chissà che non vi resti a lungo. Lui ci tiene. Bernabè, pur pensando a un candidato diverso, più giovane, se possibile italiano, non sembra intenzionato a smuovere più di tanto le acque. E il centrodestra? Mugugna, s'incazza e abbozza.
L'anno scorso, dopo il film collettivo sull'11 Settembre, considerato antiamericano, e il Leone d'oro a Magdalene, considerato anticattolico, de Hadeln fu messo sulla graticola dal consigliere Valerio Riva, il quale minacciò addirittura provvedimenti disciplinari. E anche Urbani, pur attenendosi ad una linea più diplomatica, fece filtrare qualche disappunto rispetto alla linea estetico-culturale della Mostra.
Risultato: un piccolo paradosso destinato a rinnovarsi anche quest'anno, in occasione del sessantesimo. Proprio stamattina il direttore rivelerà il menù del festival (27 agosto-6 settembre), che si annuncia più "di sinistra" e antagonista che mai. Roba da far venire il mal di pancia a Riva, che non mancherà di esternare il proprio disappunto. Coi suoi fidati selezionatori, quasi tutti di area ulivista (da Silvio Danese a Oscar Iarussi, da Tilde Corsi a Serafino Murri), de Hadeln ha messo a punto, infatti, un palinsesto fortemente politicizzato, hollywoodiano con giudizio, certo non rassicurante. Pensate: con I sognatori Bernardo Bertolucci, al suo ritorno a sei anni da L'assedio, racconta in una chiave ideologico-scandalosa il Sessantotto francese, allestendo un triangolo adolescenziale sessualmente disinibito; con Buongiorno notte, da un verso di Emily Dickinson*, Marco Bellocchio ricostruisce il sequestro Moro dal punto di vista dei carcerieri che tennero in ostaggio, in quei lunghi 55 giorni, lo statista dc (Roberto Herlitzka incarna "il prigioniero", Luigi Lo Cascio e Maya Sansa i brigatisti Mario Moretti e Anna Laura Braghetti); con Segreti di Stato Paolo Benvenuti, cineasta marxista con la passione di Dreyer e Bresson, riscrive la dinamica della strage di Portella della Ginestra (1° maggio 1947, undici morti e ventisette feriti sul terreno), tirando in ballo, sulla base di documenti de-secretati trovati a Washington, l'intervento dei servizi segreti americani in quella pagina oscura di storia patria. Forse ci sarà anche Ettore Scola col suo Gente di Roma, che si chiude con la manifestazione dei girotondi del 14 settembre 2002. De Hadeln si confessa sereno: sono film belli, Venezia non poteva rifiutarli. Ma vedrete che il centrodestra, ritenendosi truffato, alla fine chiederà di nuovo la testa del direttore «venuto dal freddo».
*Good Morning - Midnight -
I'm coming Home -
Day - got tired of Me -
How could I - of Him?
Sunshine was a sweet place -
I liked to stay -
But Morn - did'nt want me - now -
So - Goodnight - Day!
I can look - cant I -
When the East is Red?
The Hills - have a way - then -
That puts the Heart - abroad -
You - are not so fair - Midnight -
I chose - Day -
But - please take a little Girl -
He turned away!
(di Emily Dickinson)
...e questa che segue è una traduzione, tratta da http://www.incipitario.com/ed0421-0500.html:
Buongiorno - Mezzanotte -
Sto tornando a Casa -
Il Giorno - si è stancato di Me -
Come potrei Io - di Lui?
La luce del sole era un dolce luogo -
Mi piaceva starci -
Ma il Mattino - non mi voleva - ormai -
Così - Buonanotte - Giorno!
Posso guardare - dai -
Quando è Rosso ad Oriente?
Le Colline - hanno un aspetto - allora -
Che fa traboccare - il Cuore -
Tu - non sei così bella - Mezzanotte -
Io scelsi -il Giorno -
Ma - per favore prendi una Ragazzina -
Che Lui ha cacciato via!
grandi fondazioni teoriche...
Gazzetta di Parma 31.7.03
Lo psichiatra Fausto Manara svela segreti dell'intelligenza in «Il sale in zucca» (Sperling&Kupfer)
Un cervello per amico
di Silvia Ugolotti
Un gigante che sonnecchia, il cervello. L'intelligenza un bradipo a riposo: «L'uomo ha raccolto tutta la saggezza dei suoi predecessori e guardate quanto è stupido», disse Elias Canetti.
«Il sale in zucca» (Sperling&Kupfer, 233 pagine, 15 euro), proprio quello che manca, ora che, usare la testa, sembra sia diventato un sogno impossibile.
Fausto Manara, psichiatra e autore di questo saggio che dalla stupidità ci vuole salvare, intravede una speranza. Vivere con la mente e con il cuore, un efficace antidoto alla pigrizia dei neuroni. Un modo per sfuggire a comportamenti sconclusionati che non derivano dalla miseria cerebrale, ma dal cattivo uso delle risorse in nostro possesso.
Quello che Manara propone è un viaggio alla scoperta: di un modo di sentire, osservare e comportarsi. La capacità di evitare ogni atteggiamento o pensiero estremo, pena il rischio di scavare pericolose distanze tra noi e gli altri. Tra noi e noi stessi. Senza escludere l'importanza di imparare a ricomporre le piccole fratture quotidiane, lasciando spazio alla creatività e a nuove strategie di azione. I sensi all'erta, onorando emozioni e bisogni, innamorandosi della vita con ironia. In una parola buonsenso.
Spesso ci spiega l'autore, «intelligenza e stupidità seguano una sorta di bioritmo. Così come ci sono fasi di sonno e di veglia, di tonicità e spossatezza, altrettanto si alternano i due poli dell'agire. Con prevalenza dell'uno o dell'altro, a seconda dei soggetti e della loro predisposizione».
Cosa saggia, essere abili nel mantenersi in stretto contatto con la nostra intelligenza per poter avere la consapevolezza di essere stupidi. Detto così sembra facile. Ma anche metterlo in pratica lo è, sostiene Manara.
Intelligenti non solo si nasce. Soprattutto si diventa. Con l'allenamento. Tutti veniamo al mondo dotati di uno sbalorditivo biocomputer. Una sorta di premio in partenza. Perché possa funzionare bene è necessaria una seria e costante manutenzione con gli strumenti che abbiamo a portata di testa. Dalla fantasia all'autocritica. Dalla curiosità all'apertura, la flessibilità e l'ironia. E la capacità di amare.
Bene. Capito cosa fare, il passo successivo è metterlo in pratica.
Come? Con l'ora di intelligenza: «E' il luogo in cui siamo stimolati ad ampliare la nostra capacità di valutazione e di critica. Frequentandola con assiduità, ci renderemo anche conto che, quanti più insegnamenti ne trarremo, tanto più potremo usarli con flessibilità, concedendoci anche qualche sana pausa di riposo dal praticarli».
In fondo, l'aveva detto anche Woody Allen che il vantaggio di essere intelligente è che si può sempre fare l'imbecille, mentre il contrario è impossibile.
Lo psichiatra Fausto Manara svela segreti dell'intelligenza in «Il sale in zucca» (Sperling&Kupfer)
Un cervello per amico
di Silvia Ugolotti
Un gigante che sonnecchia, il cervello. L'intelligenza un bradipo a riposo: «L'uomo ha raccolto tutta la saggezza dei suoi predecessori e guardate quanto è stupido», disse Elias Canetti.
«Il sale in zucca» (Sperling&Kupfer, 233 pagine, 15 euro), proprio quello che manca, ora che, usare la testa, sembra sia diventato un sogno impossibile.
Fausto Manara, psichiatra e autore di questo saggio che dalla stupidità ci vuole salvare, intravede una speranza. Vivere con la mente e con il cuore, un efficace antidoto alla pigrizia dei neuroni. Un modo per sfuggire a comportamenti sconclusionati che non derivano dalla miseria cerebrale, ma dal cattivo uso delle risorse in nostro possesso.
Quello che Manara propone è un viaggio alla scoperta: di un modo di sentire, osservare e comportarsi. La capacità di evitare ogni atteggiamento o pensiero estremo, pena il rischio di scavare pericolose distanze tra noi e gli altri. Tra noi e noi stessi. Senza escludere l'importanza di imparare a ricomporre le piccole fratture quotidiane, lasciando spazio alla creatività e a nuove strategie di azione. I sensi all'erta, onorando emozioni e bisogni, innamorandosi della vita con ironia. In una parola buonsenso.
Spesso ci spiega l'autore, «intelligenza e stupidità seguano una sorta di bioritmo. Così come ci sono fasi di sonno e di veglia, di tonicità e spossatezza, altrettanto si alternano i due poli dell'agire. Con prevalenza dell'uno o dell'altro, a seconda dei soggetti e della loro predisposizione».
Cosa saggia, essere abili nel mantenersi in stretto contatto con la nostra intelligenza per poter avere la consapevolezza di essere stupidi. Detto così sembra facile. Ma anche metterlo in pratica lo è, sostiene Manara.
Intelligenti non solo si nasce. Soprattutto si diventa. Con l'allenamento. Tutti veniamo al mondo dotati di uno sbalorditivo biocomputer. Una sorta di premio in partenza. Perché possa funzionare bene è necessaria una seria e costante manutenzione con gli strumenti che abbiamo a portata di testa. Dalla fantasia all'autocritica. Dalla curiosità all'apertura, la flessibilità e l'ironia. E la capacità di amare.
Bene. Capito cosa fare, il passo successivo è metterlo in pratica.
Come? Con l'ora di intelligenza: «E' il luogo in cui siamo stimolati ad ampliare la nostra capacità di valutazione e di critica. Frequentandola con assiduità, ci renderemo anche conto che, quanti più insegnamenti ne trarremo, tanto più potremo usarli con flessibilità, concedendoci anche qualche sana pausa di riposo dal praticarli».
In fondo, l'aveva detto anche Woody Allen che il vantaggio di essere intelligente è che si può sempre fare l'imbecille, mentre il contrario è impossibile.
donne nella storia
Gazzetta di Brescia 31.7.03
Santa Giuliana di Norwich
SUI PASSI DI UNA DONNA RELIGIOSA
di Curzia Ferrari
La santa è di scarsa nomea, le enciclopedie la liquidano con un paio di righe, nella storia delle donne ha inciso poco o nulla. Ma il libro che narra la sua vita (Ralph Milton - «La cella di Juliana» - San Paolo ed.) è davvero bello, molto intrigante, ispirato direi, sia nella forma con cui viene offerto, sia per la trama vivace, piena di colpi di scena e di situazioni (per fortuna) imperfette. Approcciando storie di santi si ha sempre il timore di venire fagocitati da un catalogo di virtù, di esperienze superiori, di prodigi e innaturali vicende che niente hanno a che fare con l’uomo: sembra che lo scopo degli estensori sia quello di attirare il lettore in un gorgo di stupida credulità. Questo Milton, invece, sa giostrare bene, approfittando delle sfaccettature della protagonista. Giuliana di Norwich - Juliana, appunto, nasce nella seconda metà del XIV secolo, nell’Inghilterra sud-orientale, durante il regno di re Edoardo III, iniziatore della Guerra dei Cento Anni; al quale seguono, in rapida successione, Riccardo II ed Enrico IV. Ma a riempire la scena inglese sono le lotte religiose e le pestilenze; ed è proprio l’orrendo male nero a portarsi via il marito e i due figli della giovane. Juliana ha subìto da sempre il fascino del divino: ma è nella solitudine, nel vuoto che si è fatto intorno a lei a delinearsi l’iter della chiamata. Chiamata per dove? Verso l’isolamento di una cella che, nella realtà, risulta assai affollata. Riciclata nel nuovo nome, per via della chiesa di san Giuliano di Norwich dove per la prima volta vide da vicino un vescovo, colei che all’anagrafe si chiamava Katerine, studia, prega, riceve, trasforma la clausura in uno stretto incontro interiore - mentre le forze più periferiche dell’anima partecipano alla vita che si svolge intorno a lei: Per assistente ha un’ex-prostituta; allaccia rapporti con la mistica Margery Kempe, una laica madre di quattordici figli, pellegrina sulle strade d’Europa e ritenuta eretica dalla Chiesa ufficiale e con la spirituale e veemente Maggie Baxter, della cui esistenza conosciamo pochi dettagli. Sono tutte illetterate (come esse si dichiaravano) e tutte autrici di libri di edificazione (di Juliana di Norwich si ricorda «Il libro delle rivelazioni»). Donne irregolari, fanatiche, da iscriversi tra coloro che rappresentano l’aspetto paradossale del cristianesimo, cristocentrico, tipico della santità tardomedievale. Alla cella di Juliana si presentano spesso anche la madre, Maud (che aveva partecipato alla sua vita di sposa e l’aveva aiutata a partorire), nonché personaggi che hanno storicamente a che fare con le vicende inglesi dell’epoca. La corruzione dei preti, il Lollardismo e i processi che ne nacquero, il disamore verso la Chiesa di Roma, i dubbi sulla Trinità, la tragica storia di Thomas Becket (rivisitata in chiave ironica dalla Baxter), queste cose e molte altre ancora vengono discusse alla grata della cella di colei che, freudianamente, diremmo oggi, immagina Cristo come Madre - perché l’idea di maternità nel suo essere, dare e avere allaga l’intera vita di Juliana. Striscia dal principio alla fine del libro quello che era uno dei dilemmi laceranti del tempo: il conflitto fra anima e corpo, l’idea del peccato della carne perfino nel matrimonio, l’assurdo desiderio della madre (Margery Kempe) di tornare alla verginità. Concetti che diedero vita a molti drammi religiosi, i mysteries, i quali andarono a formare fra il 1200 e il 1300 un prezioso catalogo della letteratura popolare dell’Inghilterra.
Santa Giuliana di Norwich
SUI PASSI DI UNA DONNA RELIGIOSA
di Curzia Ferrari
La santa è di scarsa nomea, le enciclopedie la liquidano con un paio di righe, nella storia delle donne ha inciso poco o nulla. Ma il libro che narra la sua vita (Ralph Milton - «La cella di Juliana» - San Paolo ed.) è davvero bello, molto intrigante, ispirato direi, sia nella forma con cui viene offerto, sia per la trama vivace, piena di colpi di scena e di situazioni (per fortuna) imperfette. Approcciando storie di santi si ha sempre il timore di venire fagocitati da un catalogo di virtù, di esperienze superiori, di prodigi e innaturali vicende che niente hanno a che fare con l’uomo: sembra che lo scopo degli estensori sia quello di attirare il lettore in un gorgo di stupida credulità. Questo Milton, invece, sa giostrare bene, approfittando delle sfaccettature della protagonista. Giuliana di Norwich - Juliana, appunto, nasce nella seconda metà del XIV secolo, nell’Inghilterra sud-orientale, durante il regno di re Edoardo III, iniziatore della Guerra dei Cento Anni; al quale seguono, in rapida successione, Riccardo II ed Enrico IV. Ma a riempire la scena inglese sono le lotte religiose e le pestilenze; ed è proprio l’orrendo male nero a portarsi via il marito e i due figli della giovane. Juliana ha subìto da sempre il fascino del divino: ma è nella solitudine, nel vuoto che si è fatto intorno a lei a delinearsi l’iter della chiamata. Chiamata per dove? Verso l’isolamento di una cella che, nella realtà, risulta assai affollata. Riciclata nel nuovo nome, per via della chiesa di san Giuliano di Norwich dove per la prima volta vide da vicino un vescovo, colei che all’anagrafe si chiamava Katerine, studia, prega, riceve, trasforma la clausura in uno stretto incontro interiore - mentre le forze più periferiche dell’anima partecipano alla vita che si svolge intorno a lei: Per assistente ha un’ex-prostituta; allaccia rapporti con la mistica Margery Kempe, una laica madre di quattordici figli, pellegrina sulle strade d’Europa e ritenuta eretica dalla Chiesa ufficiale e con la spirituale e veemente Maggie Baxter, della cui esistenza conosciamo pochi dettagli. Sono tutte illetterate (come esse si dichiaravano) e tutte autrici di libri di edificazione (di Juliana di Norwich si ricorda «Il libro delle rivelazioni»). Donne irregolari, fanatiche, da iscriversi tra coloro che rappresentano l’aspetto paradossale del cristianesimo, cristocentrico, tipico della santità tardomedievale. Alla cella di Juliana si presentano spesso anche la madre, Maud (che aveva partecipato alla sua vita di sposa e l’aveva aiutata a partorire), nonché personaggi che hanno storicamente a che fare con le vicende inglesi dell’epoca. La corruzione dei preti, il Lollardismo e i processi che ne nacquero, il disamore verso la Chiesa di Roma, i dubbi sulla Trinità, la tragica storia di Thomas Becket (rivisitata in chiave ironica dalla Baxter), queste cose e molte altre ancora vengono discusse alla grata della cella di colei che, freudianamente, diremmo oggi, immagina Cristo come Madre - perché l’idea di maternità nel suo essere, dare e avere allaga l’intera vita di Juliana. Striscia dal principio alla fine del libro quello che era uno dei dilemmi laceranti del tempo: il conflitto fra anima e corpo, l’idea del peccato della carne perfino nel matrimonio, l’assurdo desiderio della madre (Margery Kempe) di tornare alla verginità. Concetti che diedero vita a molti drammi religiosi, i mysteries, i quali andarono a formare fra il 1200 e il 1300 un prezioso catalogo della letteratura popolare dell’Inghilterra.
Michelangelo Buonarroti
La Gazzetta di Brescia 31.7.03
GRANDI ARCHITETTI
L’esperienza di Michelangelo nella città eterna, oltre gli schemi dell’arte antica
L’impronta del genio su Roma rinascimentale
di Chiara Fabbrizi
E venne Michelangelo. Pittore, scultore, poeta, mistico, e architetto. Nelle sue lettere il Buonarroti dice di rifiutare la «professione di architettore», ma sia vera o falsa la modestia che si nascondeva dietro questa affermazione, magari fatta dal nostro genio per distinguersi dagli altri architetti in un momento in cui questa professione era piuttosto degradata, è certo che già nella Cappella Sistina egli fece architettura. Nell’immenso affresco, infatti, il meccanismo narrativo è scandito da una netta struttura architettonica creata non solo da archi, cornici e pilastri dipinti, ma anche da alcune figure, come gli Ignudi, collocate in posizioni simmetriche e usate come se fossero elementi architettonici. L’architettura non diviene con ciò serva della pittura, ma si fonde ad essa: è un miracolo reso possibile dalla forza del linguaggio michelangiolesco. Una delle caratteristiche di questo gigante dell’arte è che lasciò molte opere incompiute, in particolare quelle architettoniche; e se nessuno si sognerebbe di completare con qualche altro colpo di scalpello i celebri Prigioni, che così come sono sembrano tesi nello sforzo di uscire dalla pietra, non ci si è potuti permettere il lusso di tenersi palazzi e chiese allo stadio di abbozzi; e la conseguenza è stata un inevitabile snaturamento dei progetti da parte di coloro che gli succedettero: così i Dioscuri snaturano piazza del Campidoglio, la piatta facciata del Maderno nasconde la cupola michelangiolesca di San Pietro, il geniale progetto per Santa Maria degli Angeli a Roma non ebbe seguito, le fortificazioni per Firenze rimasero sulla carta e così via. L’incompiutezza di queste opere, tuttavia, non scalfisce il loro valore rivoluzionario. Che prendesse in mano un pennello, uno scalpello o un compasso, infatti, Buonarroti riuscì sempre a creare qualcosa di nuovo, avventurandosi su strade mai battute prima, senza temere di affrontare percorsi faticosi e accidentati. L’originalità del genio michelangiolesco è già evidente nelle opere fiorentine, come la Biblioteca Laurenziana, la prima biblioteca di formazione profana a gareggiare in lustro con l’Apostolica in Vaticano; o la Sagrestia Nuova di San Lorenzo, rispettosa del precedente edificio progettato da Brunelleschi. È nelle opere romane, tuttavia, che si riflette chiaramente la forza della gestione michelangiolesca dello spazio, e innanzitutto nella piazza del Campidoglio, esempio di architettura e urbanistica di altissimo livello, benché del progetto michelangiolesco conservi tracce frammentarie e discontinue. Prima dell’intervento di Michelangelo il colle era raggiungibile dalla scala dell’Aracoeli e appariva sormontato, oltre che dalla chiesa dell’Aracoeli, dal Palazzo Senatorio e da quello dei Conservatori, tra loro convergenti: Michelangelo ruppe la continuità che c’era con la chiesa chiudendo la piazza con un terzo palazzo, gemello di quello dei Conservatori e attuale sede dei Musei Capitolini. Con questo gesto creò di fatto una distinzione tra Stato e politica da una parte, e Chiesa e apostolato dall’altra. Lo spazio della piazza risulta compresso in modo da essere esplosivo; la simmetria dei due palazzi gemelli e divergenti crea un’apertura in più direzioni, e le facciate dei palazzi sono allo stesso tempo le pareti della piazza, che appare così una vera e propria struttura architettonica. Una nuova scala ne rese poi l’accesso autonomo da quello dell’Aracoeli: si trattava di una cordonata, ovvero una scalea con gradini larghi e bassi che nel progetto michelangiolesco non prevedeva le statue dei Dioscuri che oggi offuscano sia la prospettiva sui palazzi, sia la statua di Marco Aurelio. Sotto appariva la città varia e multiforme, sopra, la forma perfetta e unica della piazza, simile a una sala «nella quale attrarre e chiudere il visitatore», come dice Bonelli: da lassù ben presto si sarebbe potuto dominare anche la cupola della nuova chiesa intitolata a San Pietro. Questa è una delle tracce più grandiose che il passaggio di Michelangelo lasciò nella Città Eterna. Per il più grande tempio della Cristianità l’artista aveva in animo di riprendere la pianta a croce greca progettata da Bramante, ma la basilica che oggi conosciamo, frutto del contributo di tanti architetti diversi, conserva ben poco delle idee michelangiolesche, spazzate via soprattutto dall’intervento di Maderno. Fu invece Bernini, con la costruzione del baldacchino, a restituire centralità alla cupola michelangiolesca riflettendone la luce, così come con il colonnato esterno pose tra due parentesi la piatta facciata di Maderno deviando lo sguardo verso il «Cuppolone» tanto caro ai romani. Poco distante dal Campidoglio la mano di Michelangelo si nasconde ancora dietro l’originalissima Porta Pia, un’opera nella quale il lessico del classicismo viene rielaborato ed espresso in una sintassi nuova, eretica: ecco allora che una pausa, uno spazio vuoto sostituisce il capitello sopra i pilastri, in un gioco alternato di fedeltà e apostasia nei confronti del repertorio rinascimentale. Fu proprio questa libertà nell’interpretare la tradizione che rese il Buonarroti poco simpatico agli architetti suoi contemporanei. Odiato dal Vignola e dalla cosiddetta «setta sangallesca», fu letteralmente detestato da Pietro Ligorio, il quale, quando seppe di dover collaborare con lui a San Pietro, si dimise pubblicamente. L’ostilità dei suoi colleghi più «allineati» si riflette nel modo in cui le opere da lui iniziate o progettate furono portate a termine. Basta guardare la chiesa di Santa Maria degli Angeli nell’area delle Terme di Diocleziano, sempre a Roma, per capire che avremmo avuto un altro notevolissimo esempio di ottima architettura e gestione urbanistica, se solo si fosse seguito il progetto michelangiolesco: la chiesa sarebbe risultata perfettamente fusa alla zona archeologica nella quale è inserita e il luogo sacro avrebbe interloquito con lo spazio profano delle antiche terme dalle quali sarebbe stata ricavata - invece di esserne isolata come appare oggi, - proprio come desiderava il committente Pio IV, che intendeva sì alimentare il culto divino, ma anche tutelare quella «veneranda antichità». Forse fu solo un caso se Michelangelo non lasciò opere architettoniche finite. Tuttavia è più suggestiva l’ipotesi, avanzata da Bruno Zevi, che il non-finito sia la cifra caratteristica di un’arte che vuole celebrare la sconfitta della forma rispetto alla vita, il rifiuto programmatico di non dare soluzioni definitive a problemi necessariamente sempre aperti. E forse Roma stessa, città organica e policentrica, sempre in corso di definizione, può essere considerata, per dirla ancora con Zevi, un gigantesco «non-finito michelangiolesco», a cui gli immediati successori del Buonarroti non poterono fare altro che apportare piccoli ritocchi.
GRANDI ARCHITETTI
L’esperienza di Michelangelo nella città eterna, oltre gli schemi dell’arte antica
L’impronta del genio su Roma rinascimentale
di Chiara Fabbrizi
E venne Michelangelo. Pittore, scultore, poeta, mistico, e architetto. Nelle sue lettere il Buonarroti dice di rifiutare la «professione di architettore», ma sia vera o falsa la modestia che si nascondeva dietro questa affermazione, magari fatta dal nostro genio per distinguersi dagli altri architetti in un momento in cui questa professione era piuttosto degradata, è certo che già nella Cappella Sistina egli fece architettura. Nell’immenso affresco, infatti, il meccanismo narrativo è scandito da una netta struttura architettonica creata non solo da archi, cornici e pilastri dipinti, ma anche da alcune figure, come gli Ignudi, collocate in posizioni simmetriche e usate come se fossero elementi architettonici. L’architettura non diviene con ciò serva della pittura, ma si fonde ad essa: è un miracolo reso possibile dalla forza del linguaggio michelangiolesco. Una delle caratteristiche di questo gigante dell’arte è che lasciò molte opere incompiute, in particolare quelle architettoniche; e se nessuno si sognerebbe di completare con qualche altro colpo di scalpello i celebri Prigioni, che così come sono sembrano tesi nello sforzo di uscire dalla pietra, non ci si è potuti permettere il lusso di tenersi palazzi e chiese allo stadio di abbozzi; e la conseguenza è stata un inevitabile snaturamento dei progetti da parte di coloro che gli succedettero: così i Dioscuri snaturano piazza del Campidoglio, la piatta facciata del Maderno nasconde la cupola michelangiolesca di San Pietro, il geniale progetto per Santa Maria degli Angeli a Roma non ebbe seguito, le fortificazioni per Firenze rimasero sulla carta e così via. L’incompiutezza di queste opere, tuttavia, non scalfisce il loro valore rivoluzionario. Che prendesse in mano un pennello, uno scalpello o un compasso, infatti, Buonarroti riuscì sempre a creare qualcosa di nuovo, avventurandosi su strade mai battute prima, senza temere di affrontare percorsi faticosi e accidentati. L’originalità del genio michelangiolesco è già evidente nelle opere fiorentine, come la Biblioteca Laurenziana, la prima biblioteca di formazione profana a gareggiare in lustro con l’Apostolica in Vaticano; o la Sagrestia Nuova di San Lorenzo, rispettosa del precedente edificio progettato da Brunelleschi. È nelle opere romane, tuttavia, che si riflette chiaramente la forza della gestione michelangiolesca dello spazio, e innanzitutto nella piazza del Campidoglio, esempio di architettura e urbanistica di altissimo livello, benché del progetto michelangiolesco conservi tracce frammentarie e discontinue. Prima dell’intervento di Michelangelo il colle era raggiungibile dalla scala dell’Aracoeli e appariva sormontato, oltre che dalla chiesa dell’Aracoeli, dal Palazzo Senatorio e da quello dei Conservatori, tra loro convergenti: Michelangelo ruppe la continuità che c’era con la chiesa chiudendo la piazza con un terzo palazzo, gemello di quello dei Conservatori e attuale sede dei Musei Capitolini. Con questo gesto creò di fatto una distinzione tra Stato e politica da una parte, e Chiesa e apostolato dall’altra. Lo spazio della piazza risulta compresso in modo da essere esplosivo; la simmetria dei due palazzi gemelli e divergenti crea un’apertura in più direzioni, e le facciate dei palazzi sono allo stesso tempo le pareti della piazza, che appare così una vera e propria struttura architettonica. Una nuova scala ne rese poi l’accesso autonomo da quello dell’Aracoeli: si trattava di una cordonata, ovvero una scalea con gradini larghi e bassi che nel progetto michelangiolesco non prevedeva le statue dei Dioscuri che oggi offuscano sia la prospettiva sui palazzi, sia la statua di Marco Aurelio. Sotto appariva la città varia e multiforme, sopra, la forma perfetta e unica della piazza, simile a una sala «nella quale attrarre e chiudere il visitatore», come dice Bonelli: da lassù ben presto si sarebbe potuto dominare anche la cupola della nuova chiesa intitolata a San Pietro. Questa è una delle tracce più grandiose che il passaggio di Michelangelo lasciò nella Città Eterna. Per il più grande tempio della Cristianità l’artista aveva in animo di riprendere la pianta a croce greca progettata da Bramante, ma la basilica che oggi conosciamo, frutto del contributo di tanti architetti diversi, conserva ben poco delle idee michelangiolesche, spazzate via soprattutto dall’intervento di Maderno. Fu invece Bernini, con la costruzione del baldacchino, a restituire centralità alla cupola michelangiolesca riflettendone la luce, così come con il colonnato esterno pose tra due parentesi la piatta facciata di Maderno deviando lo sguardo verso il «Cuppolone» tanto caro ai romani. Poco distante dal Campidoglio la mano di Michelangelo si nasconde ancora dietro l’originalissima Porta Pia, un’opera nella quale il lessico del classicismo viene rielaborato ed espresso in una sintassi nuova, eretica: ecco allora che una pausa, uno spazio vuoto sostituisce il capitello sopra i pilastri, in un gioco alternato di fedeltà e apostasia nei confronti del repertorio rinascimentale. Fu proprio questa libertà nell’interpretare la tradizione che rese il Buonarroti poco simpatico agli architetti suoi contemporanei. Odiato dal Vignola e dalla cosiddetta «setta sangallesca», fu letteralmente detestato da Pietro Ligorio, il quale, quando seppe di dover collaborare con lui a San Pietro, si dimise pubblicamente. L’ostilità dei suoi colleghi più «allineati» si riflette nel modo in cui le opere da lui iniziate o progettate furono portate a termine. Basta guardare la chiesa di Santa Maria degli Angeli nell’area delle Terme di Diocleziano, sempre a Roma, per capire che avremmo avuto un altro notevolissimo esempio di ottima architettura e gestione urbanistica, se solo si fosse seguito il progetto michelangiolesco: la chiesa sarebbe risultata perfettamente fusa alla zona archeologica nella quale è inserita e il luogo sacro avrebbe interloquito con lo spazio profano delle antiche terme dalle quali sarebbe stata ricavata - invece di esserne isolata come appare oggi, - proprio come desiderava il committente Pio IV, che intendeva sì alimentare il culto divino, ma anche tutelare quella «veneranda antichità». Forse fu solo un caso se Michelangelo non lasciò opere architettoniche finite. Tuttavia è più suggestiva l’ipotesi, avanzata da Bruno Zevi, che il non-finito sia la cifra caratteristica di un’arte che vuole celebrare la sconfitta della forma rispetto alla vita, il rifiuto programmatico di non dare soluzioni definitive a problemi necessariamente sempre aperti. E forse Roma stessa, città organica e policentrica, sempre in corso di definizione, può essere considerata, per dirla ancora con Zevi, un gigantesco «non-finito michelangiolesco», a cui gli immediati successori del Buonarroti non poterono fare altro che apportare piccoli ritocchi.
repressione culturale: i cristiani sempre in prima fila
Gazzetta del Sud 31.7.03
Da Tacito a Savonarola, dalla Bibbia ai nazisti
Storia paradossale di censure e roghi
di Paolo Petroni
«I libri non sono cose morte, ma contengono in sé un potere vitale pari a quello delle anime di cui essi sono progenie». Cita quanto il poeta Milton scrisse nel 1644 Giorgio Patrizi, docente di storia della letteratura italiana a Campobasso, per aprire il suo discorso su una storia, spesso paradossale, dei libri bruciati e censurati nel corso del tempo. Si pensi che spesso censori a istigatori al rogo di pagine stampate sono stati eroi libertari e rivoluzionari, da Savonarola a Mao, o che Giuseppe Gioacchino Belli, cantore senza peli sulla lingua della Roma papalina con sonetti pubblicati solo dopo la sua morte, fece il censore e il tagliatore di copioni teatrali. Una storia curiosa insomma, che un volume curato appunto da Patrizi, della collana dell'Istituto Poligrafico intitolata «Cento libri per Mille anni», affronta, proponendo proprio un excursus sui testi proibiti ieri e oggi. Si va da Petrarca, persino lui censurato e espurgato, passando per Casanova come Silvio Pellico, sino a Ignazio Silone e Alberto Moravia, limitandoci alla nostra letteratura. Il celeberrimo «Canzoniere» di Petrarca che canta il suo amore per Laura, modello per secoli dei nostri poeti, venne accusato a inizio '500 di aver scritto «in tante rime e versi gli sconci e molto disordinati affetti e l'angosciose passioni dè miseri innamorati» da un monaco veneziano, Girolamo Malipiero, che non dovrebbe esser meno famoso del Braghettone che coprì le parti nude del Giudizio Universale di Michelangelo. Questi infatti riscrisse, col titolo «Petrarca spirituale», i componimenti del Canzoniere tagliandoli e correggendoli per armonizzarli a un sistema ideologico e linguistico consono al potere egemone, ovvero tramutando l'amore sensuale di un uomo per una donna in un amore tutto spirituale in cui quello tra i sessi non deve essere diverso o portare lontano da quello per Dio. Patrizi cita, come caso esemplare dello spesso complesso rapporto tra letteratura e potere (lasciando da parte casi più netti come quello dell'inquisizione o del nazismo e di tutti i regimi totalitari), il Savonarola che si assunse il ruolo di difensore delle libertà civili nella precaria repubblica fiorentina a fine '400, e lo fa puntando nelle sue celebri prediche su una moralizzazione delle idee, dei costumi e della cultura così che sotto i suoi strali cade, per esempio tutta la letteratura comica, a cominciare dal Pulci, che non edifica e corrompe gli spiriti. E due volte Savonarola spinse i concittadini a portare al rogo i libri che avevano in casa perché «il fuoco distruttore fosse un emblema della purificazione delle anime, attraverso la cancellazione del peccato. Ma la stessa tragica simbologia – ricorda Patrizi – sarà in azione qualche anno dopo... quando lo stesso Savonarola, scomunicato, verrà arrestato, sommariamente processato, impiccato e bruciato», per essersi ribellato a alcune richieste pontificie. Un saggio di Mario Infelise, docente di Storia a Venezia, intitolato proprio «I libri proibiti (da Gutemberg all'Encyclopedie)» edito da Laterza, comincia ricordando comunque che i roghi di libri hanno ben più storia di quella della stampa se Tacito ricorda che un tale Cremuzio Cordo fu accusato di «novum ac tunc auditum crimen» (delitto nuovo e inaudito) sotto Tiberio Imperatore, per aver scritto pagine di rimpianto verso le antiche virtù repubblicane, e il Senato decretò i suoi libri fossero dati alle fiamme. Naturalmente furono la Controriforma e l'Inquisizione che segnarono la svolta nella repressione culturale con metodi e una vastità d'intervento che non aveva precedenti e non conosceva confini, se nei famosi Indici dei libri proibiti finì anche la Bibbia nell'edizione in volgare. E a questo capillare e quotidiano sistema di controllo e repressione Infelise dedica gran parte del suo studio. E anche lui cita l'Areopagitica di Milton: «Uccidere un buon libro è in un certo senso quasi peggio che uccidere un uomo, perché chi uccide un uomo, uccide una creatura dotata di ragione, ma chi distrugge un buon libro uccide la ragione stessa». Per la prima, pubblica proclamazione della libertà di stampa bisognerà aspettare la Rivoluzione francese e la Dichiarazione dei diritti dell'uomo del 1789. Ma la storia dei roghi non si fermerà per questo, e a Berlino, nel mezzo della piazza dove nel 1933 si bruciavano i libri della adiacente biblioteca imperiale, oggi c'è in ricordo un suggestivo e concettuale monumento sotterraneo visibile da un oblò, una stanza bianca vuota foderata di scaffali egualmente bianchi e vuoti.
Da Tacito a Savonarola, dalla Bibbia ai nazisti
Storia paradossale di censure e roghi
di Paolo Petroni
«I libri non sono cose morte, ma contengono in sé un potere vitale pari a quello delle anime di cui essi sono progenie». Cita quanto il poeta Milton scrisse nel 1644 Giorgio Patrizi, docente di storia della letteratura italiana a Campobasso, per aprire il suo discorso su una storia, spesso paradossale, dei libri bruciati e censurati nel corso del tempo. Si pensi che spesso censori a istigatori al rogo di pagine stampate sono stati eroi libertari e rivoluzionari, da Savonarola a Mao, o che Giuseppe Gioacchino Belli, cantore senza peli sulla lingua della Roma papalina con sonetti pubblicati solo dopo la sua morte, fece il censore e il tagliatore di copioni teatrali. Una storia curiosa insomma, che un volume curato appunto da Patrizi, della collana dell'Istituto Poligrafico intitolata «Cento libri per Mille anni», affronta, proponendo proprio un excursus sui testi proibiti ieri e oggi. Si va da Petrarca, persino lui censurato e espurgato, passando per Casanova come Silvio Pellico, sino a Ignazio Silone e Alberto Moravia, limitandoci alla nostra letteratura. Il celeberrimo «Canzoniere» di Petrarca che canta il suo amore per Laura, modello per secoli dei nostri poeti, venne accusato a inizio '500 di aver scritto «in tante rime e versi gli sconci e molto disordinati affetti e l'angosciose passioni dè miseri innamorati» da un monaco veneziano, Girolamo Malipiero, che non dovrebbe esser meno famoso del Braghettone che coprì le parti nude del Giudizio Universale di Michelangelo. Questi infatti riscrisse, col titolo «Petrarca spirituale», i componimenti del Canzoniere tagliandoli e correggendoli per armonizzarli a un sistema ideologico e linguistico consono al potere egemone, ovvero tramutando l'amore sensuale di un uomo per una donna in un amore tutto spirituale in cui quello tra i sessi non deve essere diverso o portare lontano da quello per Dio. Patrizi cita, come caso esemplare dello spesso complesso rapporto tra letteratura e potere (lasciando da parte casi più netti come quello dell'inquisizione o del nazismo e di tutti i regimi totalitari), il Savonarola che si assunse il ruolo di difensore delle libertà civili nella precaria repubblica fiorentina a fine '400, e lo fa puntando nelle sue celebri prediche su una moralizzazione delle idee, dei costumi e della cultura così che sotto i suoi strali cade, per esempio tutta la letteratura comica, a cominciare dal Pulci, che non edifica e corrompe gli spiriti. E due volte Savonarola spinse i concittadini a portare al rogo i libri che avevano in casa perché «il fuoco distruttore fosse un emblema della purificazione delle anime, attraverso la cancellazione del peccato. Ma la stessa tragica simbologia – ricorda Patrizi – sarà in azione qualche anno dopo... quando lo stesso Savonarola, scomunicato, verrà arrestato, sommariamente processato, impiccato e bruciato», per essersi ribellato a alcune richieste pontificie. Un saggio di Mario Infelise, docente di Storia a Venezia, intitolato proprio «I libri proibiti (da Gutemberg all'Encyclopedie)» edito da Laterza, comincia ricordando comunque che i roghi di libri hanno ben più storia di quella della stampa se Tacito ricorda che un tale Cremuzio Cordo fu accusato di «novum ac tunc auditum crimen» (delitto nuovo e inaudito) sotto Tiberio Imperatore, per aver scritto pagine di rimpianto verso le antiche virtù repubblicane, e il Senato decretò i suoi libri fossero dati alle fiamme. Naturalmente furono la Controriforma e l'Inquisizione che segnarono la svolta nella repressione culturale con metodi e una vastità d'intervento che non aveva precedenti e non conosceva confini, se nei famosi Indici dei libri proibiti finì anche la Bibbia nell'edizione in volgare. E a questo capillare e quotidiano sistema di controllo e repressione Infelise dedica gran parte del suo studio. E anche lui cita l'Areopagitica di Milton: «Uccidere un buon libro è in un certo senso quasi peggio che uccidere un uomo, perché chi uccide un uomo, uccide una creatura dotata di ragione, ma chi distrugge un buon libro uccide la ragione stessa». Per la prima, pubblica proclamazione della libertà di stampa bisognerà aspettare la Rivoluzione francese e la Dichiarazione dei diritti dell'uomo del 1789. Ma la storia dei roghi non si fermerà per questo, e a Berlino, nel mezzo della piazza dove nel 1933 si bruciavano i libri della adiacente biblioteca imperiale, oggi c'è in ricordo un suggestivo e concettuale monumento sotterraneo visibile da un oblò, una stanza bianca vuota foderata di scaffali egualmente bianchi e vuoti.
l'idea di Atlantide, e il nesso con la società di Creta
Liberazione 31.7.03
Le prime fonti storiche risalgono addirittura a...
di Claudio Asciuti
Le prime fonti storiche risalgono addirittura a Platone, nel 347 avanti l'era volgare. Il padre della filosofia occidentale, nei due dialoghi Timeo e Crizia, indica le prime coordinate del paradiso perduto. Combinando le due trattazioni possiamo coglierne alcuni elementi: siamo all'incirca nel 9000 a. e. v. e gli abitanti felici di questa terra posta oltre le Colonne d'Ercole vivono in pace, fra animali al pascolo, campi pingui, acque pescose e vene minerarie. Il sistema politico è una federazione di dieci provincie rette da altrettanti re; il popolo è assolutamente pacifico sebbene abbia combattuto un'antica guerra contro i Greci. Fino a quando, come in ogni eden, sopraggiunse il desiderio, la violenza e, allora, Zeus decise di intervenire. Non sappiamo cosa avvenne, ma l'isola fu distrutta in un giorno e in una notte da terremoti e maremoti. Poi scomparve...
Stiamo parlando di Atlantide, naturalmente, luogo utopico per eccellenza, unica mappa certa nell'immaginario cartografico perduto. La terra che tutti, occultisti, avventurieri, maghi e ciarlatani intravidero, descrissero e documentarono, ma di cui nessuna traccia fu mai attestata.
Platone, quando scrisse i due dialoghi, aveva in mente di raccontare attraverso un mito verità politiche e filosofiche, com'era suo costume e, fino all'avvento del cristianesimo (non particolarmente favorevole ai paradisi in terra), si continuò di tanto in tanto a discuterne, poi su tutto cadde il velo.
Ma come sempre accade, dopo un lungo silenzio, il mito comincia a vivere di vita propria: l'idea di Atlantide si ripropose quando, con le mutate condizioni geografiche e naturalmente politiche, si riprese a parlare di luoghi perduti. A partire dal 1552, quando Francisco Lopez de Gòmara ipotizzò che il continente scoperto da Colombo fosse l'Atlantide, fu tutto un fiorire di interpretazioni, che videro protagonisti, fra gli altri, il mago John Dee, Francesco Bacone, il naturalista Buffon. Ma solo alla fine dell'Ottocento il problema uscì da un dibattito ristretto a pochi per diventare oggetto comune di discussione, grazie soprattutto a Ignatius Donnelly, il quale per primo teorizzò Atlantide come centro da cui s'irradiò la civiltà mondiale. Donnelly è considerato il primo "atlantideologo" e la sua trattazione non è certo il massimo del rigore scientifico. Tuttavia egli fissò il punto da cui nacquero le grandi falsificazioni che ancor oggi imperversano: perché Atlantide è naturalmente il luogo delle falsificazioni e degli imbrogli… Nello spazio di un solo articolo sarebbe impossibile far riferimento alle invenzioni che gente più o meno in buona o cattiva fede elaborò in proposito. Qualche nome, però, possiamo farlo.
Nel 1888 Helena Petrovna Blavatsky, turbolenta fondatrice della Società Teosofica (l'organismo internazionale nato nel 1875 che si poneva come base per uno sviluppo futuro dell'umanità, accogliendo studiando e comparando dottrine d'ogni genere), affermò di aver ricevuto in trance rivelazioni sui mondi sotterranei di Agharta e Shambala e teorizzò l'esistenza delle cosiddette "razze radicali", di cui l'Atlantidea sarebbe la quarta. Un attento esame dei suoi scritti avrebbe fatto certamente comprendere anche al lettore più ingenuo che si trattava di una mistificazione, ma gli esseri umani sono creduloni e così un suo adepto, W. Scott-Elliot, una decina d'anni dopo ebbe buon gioco a descrivere con abbondanza di particolari la civiltà di Atlantide, completa di aerei che volavano grazie a una forza misteriosa.
Paul Schliemann, nipote di Heinrich Schliemann, lo scopritore di Troia, non esitò nel 1912 a spacciare per buona l'idea che il celebre nonno gli avesse lasciato reperti atlantidei e che addirittura alcuni li avesse trovati egli stesso: reperti che, ovviamente, nessuno ebbe modo di vedere. Poi toccò a Edgar Cayce, "veggente" americano morto nel 1945, uno dei più grandi mistificatori della storia del paranormale, riportato in auge dalla New Age, e che nelle sue visioni descrisse Atlantide come un arcipelago di cinque isole, arrivando a profetizzare che nel 1976 una di esse, Poseidia, sarebbe riemersa!
In questo bizzarro repertorio non poteva mancare il nazismo. E, infatti, arrivò con la sua coorte di cerimonie lugubri e di saperi perduti, attraverso le teorie ereditate da Donnelly e dalla Blavatsky. Basta dare un'occhiata a una delle molte documentazioni che circolano oggidì sull'origine esoterica del nazismo per rendersi conto di come Hitler fosse interessato all'idea delle razze, delle distruzioni più o meno palingenetiche e soprattutto al mondo misterioso di Agharta.
Ma l'interesse non scemò con la guerra, anzi. Medium, ciarlatani, scrittori di fantascienza improvvisamente divenuti archeologi del mistero (è il caso di Richard Shaver, autore di "I remember Lemuria") hanno alimentato e alimentano un ricco giro di denaro e potere, facendo leva sulla dabbenaggine umana, mescolando Atlantide ad altrettanto immaginarie terre (Thule, Lemuria, Mu, Gondwana, Iperborea) mentre, a seconda dei periodi storici, il sito viene individuato indifferentemente nell'Atlantico, nel Caucaso, nel Sahara, nel Mediterraneo, in Antartide e in Artide, al punto che la civiltà atlantidea cambia a seconda degli orientamenti: abbiamo detto aerei mossi da forze invisibili, poi abbiamo avuto (dopo Hiroshima) civiltà distrutte non da catastrofi naturali bensì da guerre atomiche e, attualmente, con l'avvento della cristalloterapia, si è scoperto che anche questa pseudo-scienza nacque ad Atlantide.
La maggior parte di queste teorie sono ridicole, mentre altre, seppur provviste di buon senso (per esempio quella dell'italiano Flavio Barbero che situa Atlantide in Antartide), non sembrano molto credibili. Allora la civiltà misteriosa descritta da Platone fu soltanto un mito? L'archeologia ha dato una possibile risposta. Il primo a intuire la verità fu K. T. Frost, professore a Belfast, in un articolo nel 1909. Frost intravide per primo le somiglianze fra quanto descritto da Platone e le scoperte cretesi che allora stavano venendo alla luce. La sua teoria non fu presa in considerazione negli ambienti scientifici, ed egli morì in combattimento durante la Prima guerra mondiale senza aver potuto ampliarla. Si dovettero aspettare diversi anni fino a quando Spiridion Marinatos, direttore degli scavi di Thira, ovvero l'isola greca di Santorini, non imputò, nel 1939, la scomparsa della civiltà minoica all'eruzione del vulcano di Thira. Da allora gli scavi effettuati prima da Marinatos, poi dal suo allievo Christos Doumas, confermarono questa ipotesi, con progressivi aggiustamenti per quanto riguardava datazioni, reperti, identità. Ma presto John Luce, lo stesso Marinatos e poi Doumas cominciarono a pensare che la situazione andava letta diversamente: ciò che Platone chiamava Atlantide era solo il ricordo, deformato, della grande catastrofe sismica seguita all'eruzione del vulcano di Thira che, verso il 1600 a. e. v., spazzò via una fiorente civiltà.
John Luce e il palentologo Charles Pellegrino hanno lavorato a lungo su questa ipotesi - a tutt'oggi la più convincente - e che ancora una volta ci fa pensare come, al di là delle speculazioni, degli imbrogli, dei deliri di occultisti e ciarlatani, il principio di Schliemann sia ancora valido. Ogni mito contiene in sé un principio di realtà, il ricordo di ciò che è stato. Sta, naturalmente, all'intelligenza e alla serietà del ricercatore trovare il filo che lega il mito all'evento.
Le prime fonti storiche risalgono addirittura a...
di Claudio Asciuti
Le prime fonti storiche risalgono addirittura a Platone, nel 347 avanti l'era volgare. Il padre della filosofia occidentale, nei due dialoghi Timeo e Crizia, indica le prime coordinate del paradiso perduto. Combinando le due trattazioni possiamo coglierne alcuni elementi: siamo all'incirca nel 9000 a. e. v. e gli abitanti felici di questa terra posta oltre le Colonne d'Ercole vivono in pace, fra animali al pascolo, campi pingui, acque pescose e vene minerarie. Il sistema politico è una federazione di dieci provincie rette da altrettanti re; il popolo è assolutamente pacifico sebbene abbia combattuto un'antica guerra contro i Greci. Fino a quando, come in ogni eden, sopraggiunse il desiderio, la violenza e, allora, Zeus decise di intervenire. Non sappiamo cosa avvenne, ma l'isola fu distrutta in un giorno e in una notte da terremoti e maremoti. Poi scomparve...
Stiamo parlando di Atlantide, naturalmente, luogo utopico per eccellenza, unica mappa certa nell'immaginario cartografico perduto. La terra che tutti, occultisti, avventurieri, maghi e ciarlatani intravidero, descrissero e documentarono, ma di cui nessuna traccia fu mai attestata.
Platone, quando scrisse i due dialoghi, aveva in mente di raccontare attraverso un mito verità politiche e filosofiche, com'era suo costume e, fino all'avvento del cristianesimo (non particolarmente favorevole ai paradisi in terra), si continuò di tanto in tanto a discuterne, poi su tutto cadde il velo.
Ma come sempre accade, dopo un lungo silenzio, il mito comincia a vivere di vita propria: l'idea di Atlantide si ripropose quando, con le mutate condizioni geografiche e naturalmente politiche, si riprese a parlare di luoghi perduti. A partire dal 1552, quando Francisco Lopez de Gòmara ipotizzò che il continente scoperto da Colombo fosse l'Atlantide, fu tutto un fiorire di interpretazioni, che videro protagonisti, fra gli altri, il mago John Dee, Francesco Bacone, il naturalista Buffon. Ma solo alla fine dell'Ottocento il problema uscì da un dibattito ristretto a pochi per diventare oggetto comune di discussione, grazie soprattutto a Ignatius Donnelly, il quale per primo teorizzò Atlantide come centro da cui s'irradiò la civiltà mondiale. Donnelly è considerato il primo "atlantideologo" e la sua trattazione non è certo il massimo del rigore scientifico. Tuttavia egli fissò il punto da cui nacquero le grandi falsificazioni che ancor oggi imperversano: perché Atlantide è naturalmente il luogo delle falsificazioni e degli imbrogli… Nello spazio di un solo articolo sarebbe impossibile far riferimento alle invenzioni che gente più o meno in buona o cattiva fede elaborò in proposito. Qualche nome, però, possiamo farlo.
Nel 1888 Helena Petrovna Blavatsky, turbolenta fondatrice della Società Teosofica (l'organismo internazionale nato nel 1875 che si poneva come base per uno sviluppo futuro dell'umanità, accogliendo studiando e comparando dottrine d'ogni genere), affermò di aver ricevuto in trance rivelazioni sui mondi sotterranei di Agharta e Shambala e teorizzò l'esistenza delle cosiddette "razze radicali", di cui l'Atlantidea sarebbe la quarta. Un attento esame dei suoi scritti avrebbe fatto certamente comprendere anche al lettore più ingenuo che si trattava di una mistificazione, ma gli esseri umani sono creduloni e così un suo adepto, W. Scott-Elliot, una decina d'anni dopo ebbe buon gioco a descrivere con abbondanza di particolari la civiltà di Atlantide, completa di aerei che volavano grazie a una forza misteriosa.
Paul Schliemann, nipote di Heinrich Schliemann, lo scopritore di Troia, non esitò nel 1912 a spacciare per buona l'idea che il celebre nonno gli avesse lasciato reperti atlantidei e che addirittura alcuni li avesse trovati egli stesso: reperti che, ovviamente, nessuno ebbe modo di vedere. Poi toccò a Edgar Cayce, "veggente" americano morto nel 1945, uno dei più grandi mistificatori della storia del paranormale, riportato in auge dalla New Age, e che nelle sue visioni descrisse Atlantide come un arcipelago di cinque isole, arrivando a profetizzare che nel 1976 una di esse, Poseidia, sarebbe riemersa!
In questo bizzarro repertorio non poteva mancare il nazismo. E, infatti, arrivò con la sua coorte di cerimonie lugubri e di saperi perduti, attraverso le teorie ereditate da Donnelly e dalla Blavatsky. Basta dare un'occhiata a una delle molte documentazioni che circolano oggidì sull'origine esoterica del nazismo per rendersi conto di come Hitler fosse interessato all'idea delle razze, delle distruzioni più o meno palingenetiche e soprattutto al mondo misterioso di Agharta.
Ma l'interesse non scemò con la guerra, anzi. Medium, ciarlatani, scrittori di fantascienza improvvisamente divenuti archeologi del mistero (è il caso di Richard Shaver, autore di "I remember Lemuria") hanno alimentato e alimentano un ricco giro di denaro e potere, facendo leva sulla dabbenaggine umana, mescolando Atlantide ad altrettanto immaginarie terre (Thule, Lemuria, Mu, Gondwana, Iperborea) mentre, a seconda dei periodi storici, il sito viene individuato indifferentemente nell'Atlantico, nel Caucaso, nel Sahara, nel Mediterraneo, in Antartide e in Artide, al punto che la civiltà atlantidea cambia a seconda degli orientamenti: abbiamo detto aerei mossi da forze invisibili, poi abbiamo avuto (dopo Hiroshima) civiltà distrutte non da catastrofi naturali bensì da guerre atomiche e, attualmente, con l'avvento della cristalloterapia, si è scoperto che anche questa pseudo-scienza nacque ad Atlantide.
La maggior parte di queste teorie sono ridicole, mentre altre, seppur provviste di buon senso (per esempio quella dell'italiano Flavio Barbero che situa Atlantide in Antartide), non sembrano molto credibili. Allora la civiltà misteriosa descritta da Platone fu soltanto un mito? L'archeologia ha dato una possibile risposta. Il primo a intuire la verità fu K. T. Frost, professore a Belfast, in un articolo nel 1909. Frost intravide per primo le somiglianze fra quanto descritto da Platone e le scoperte cretesi che allora stavano venendo alla luce. La sua teoria non fu presa in considerazione negli ambienti scientifici, ed egli morì in combattimento durante la Prima guerra mondiale senza aver potuto ampliarla. Si dovettero aspettare diversi anni fino a quando Spiridion Marinatos, direttore degli scavi di Thira, ovvero l'isola greca di Santorini, non imputò, nel 1939, la scomparsa della civiltà minoica all'eruzione del vulcano di Thira. Da allora gli scavi effettuati prima da Marinatos, poi dal suo allievo Christos Doumas, confermarono questa ipotesi, con progressivi aggiustamenti per quanto riguardava datazioni, reperti, identità. Ma presto John Luce, lo stesso Marinatos e poi Doumas cominciarono a pensare che la situazione andava letta diversamente: ciò che Platone chiamava Atlantide era solo il ricordo, deformato, della grande catastrofe sismica seguita all'eruzione del vulcano di Thira che, verso il 1600 a. e. v., spazzò via una fiorente civiltà.
John Luce e il palentologo Charles Pellegrino hanno lavorato a lungo su questa ipotesi - a tutt'oggi la più convincente - e che ancora una volta ci fa pensare come, al di là delle speculazioni, degli imbrogli, dei deliri di occultisti e ciarlatani, il principio di Schliemann sia ancora valido. Ogni mito contiene in sé un principio di realtà, il ricordo di ciò che è stato. Sta, naturalmente, all'intelligenza e alla serietà del ricercatore trovare il filo che lega il mito all'evento.
mercoledì 30 luglio 2003
un convegno del Ministero della salute
Repubblica Salute 24.7.03
Riconoscere i disagi prima dei dodici anni
Convegno del ministero della Salute sul tema della prevenzione nell’età evolutiva.
Cosa osservare
DI ANNAMARIA MESSA
Crisi, problemi, ‘complessi’ più o meno esagerati, reazioni a volte eccessive, umore altalenante, difficoltà a scuola o nella routine quotidiana? A 15/16 anni sono problemi dell’età si dice in famiglia e si pazienta in attesa che l’adolescente "cresca e capisca"… Invece non sempre è così e possono consolidarsi disturbi difficili poi da risolvere ma che più facilmente potevano essere curati prima che esplodessero. «In genere si fa caso all’adolescenza (tutti sono un po’ matti, qualcuno lo è di più) o alla primissima infanzia (tutti a rischio, mamme terribili, mostri dietro la porta…) ma si dimentica che nei 12 anni di vita tra il secondo e il 14esimo succedono molti fatti e proprio in questa fascia d’età cominciano problemi psichiatrici che emergeranno dopo ma si possono prevenire e qualcuno già curare».
Si può soprattutto individuare chi sta maturando un problema, ribadisce Gabriel Levi, docente di Psichiatria dell’età evolutiva all’università La Sapienza di Roma. «Sopra i 14 è come chiudere la stalla quando i buoi sono scappati: la maggior parte dei problemi che scoppiano nell’adolescenza si possono riconoscere già prima dei 12 anni», commenta durante il convegno sulla Prevenzione in psichiatria dell’età evolutiva, organizzato insieme al ministero della Salute.
«Per prevenire non si va più solo a guardare chi ha i problemi (e lo si prende in carico senza far finta che non ne ha) ma si studiano le problematiche come noia, pigrizia, ansia, tristezza, deconcentrazione, che tutti hanno e qualcuno di più. Si affronta la situazione di salute mentale evolutiva in generale, con le caratteristiche d’identità di ognuno, per capire come un bambino che oggi si comporta in un certo modo potrà essere a rischio di avere problemi da adulto». I disturbi di personalità riguardano l’12% degli adulti in genere. «Occorre saper riconoscere quei segnali di disagio e quei comportamenti parafisiologici che in realtà possono rappresentare la prima espressione di un disturbo di personalità ancora fluttuante e non strutturato. La ricerca dimostra che diverse condizioni individuali (ritardi e disturbi cognitivi e di sviluppo, disturbi di regolazione del temperamento, disturbi dell’umore) e ambientali (abuso, trascuratezza, problemi di caregiving) possono favorire l’insorgenza di disturbi di personalità nel bambino e nell’adolescente, che tendono a mantenersi stabili nel tempo», sottolinea al convegno romano Ernesto Caffo, Neuropsichiatra Infantile, Univ. Modena e Reggio Emilia, «La mancanza di attenzione ai primi segnali di disagio, più o meno accompagnati da fattori ambientali sfavorenti, può portare a situazioni di disturbo emergente, ancora fluttuante e non strutturato, fino a un disturbo riconoscibile e trattabile le cui conseguenze possono protrarsi lungo tutto l’arco della vita».
Prevenzione primaria dunque come intervento tra il rischio e il disturbo.
Già la noia è un indicatore importante: al di là di un livello accettabile suona l’allarme. Così la pigrizia, l’ansia troppo pesante, paure diffuse… per qualunque problema c’è una percentuale di bambini che sta un po’ peggio anche per altri motivi e minaccia di scompensarsi. Bisogna individuare chi sta slittando dal problema alla patologia e aiutarlo in tempo utile nelle sedi giuste, senza paura, sapendo che un intervento fatto 3 anni prima fa soffrire di meno, dura di meno e ha risultati maggiori. «I bambini a rischio non si mettono direttamente in cura: devono ricevere un’attenzione maggiore insieme agli altri bambini», precisa Levi. La prevenzione guarda insomma i problemi in modo nuovo, mentre crescono, con un’alleanza tra famiglia, scuola, sanità, servizi sociali, conferma il sottosegretario alla Salute Antonio Guidi ribadendo la volontà del ministero di camminare sulla stessa strada.
Riconoscere i disagi prima dei dodici anni
Convegno del ministero della Salute sul tema della prevenzione nell’età evolutiva.
Cosa osservare
DI ANNAMARIA MESSA
Crisi, problemi, ‘complessi’ più o meno esagerati, reazioni a volte eccessive, umore altalenante, difficoltà a scuola o nella routine quotidiana? A 15/16 anni sono problemi dell’età si dice in famiglia e si pazienta in attesa che l’adolescente "cresca e capisca"… Invece non sempre è così e possono consolidarsi disturbi difficili poi da risolvere ma che più facilmente potevano essere curati prima che esplodessero. «In genere si fa caso all’adolescenza (tutti sono un po’ matti, qualcuno lo è di più) o alla primissima infanzia (tutti a rischio, mamme terribili, mostri dietro la porta…) ma si dimentica che nei 12 anni di vita tra il secondo e il 14esimo succedono molti fatti e proprio in questa fascia d’età cominciano problemi psichiatrici che emergeranno dopo ma si possono prevenire e qualcuno già curare».
Si può soprattutto individuare chi sta maturando un problema, ribadisce Gabriel Levi, docente di Psichiatria dell’età evolutiva all’università La Sapienza di Roma. «Sopra i 14 è come chiudere la stalla quando i buoi sono scappati: la maggior parte dei problemi che scoppiano nell’adolescenza si possono riconoscere già prima dei 12 anni», commenta durante il convegno sulla Prevenzione in psichiatria dell’età evolutiva, organizzato insieme al ministero della Salute.
«Per prevenire non si va più solo a guardare chi ha i problemi (e lo si prende in carico senza far finta che non ne ha) ma si studiano le problematiche come noia, pigrizia, ansia, tristezza, deconcentrazione, che tutti hanno e qualcuno di più. Si affronta la situazione di salute mentale evolutiva in generale, con le caratteristiche d’identità di ognuno, per capire come un bambino che oggi si comporta in un certo modo potrà essere a rischio di avere problemi da adulto». I disturbi di personalità riguardano l’12% degli adulti in genere. «Occorre saper riconoscere quei segnali di disagio e quei comportamenti parafisiologici che in realtà possono rappresentare la prima espressione di un disturbo di personalità ancora fluttuante e non strutturato. La ricerca dimostra che diverse condizioni individuali (ritardi e disturbi cognitivi e di sviluppo, disturbi di regolazione del temperamento, disturbi dell’umore) e ambientali (abuso, trascuratezza, problemi di caregiving) possono favorire l’insorgenza di disturbi di personalità nel bambino e nell’adolescente, che tendono a mantenersi stabili nel tempo», sottolinea al convegno romano Ernesto Caffo, Neuropsichiatra Infantile, Univ. Modena e Reggio Emilia, «La mancanza di attenzione ai primi segnali di disagio, più o meno accompagnati da fattori ambientali sfavorenti, può portare a situazioni di disturbo emergente, ancora fluttuante e non strutturato, fino a un disturbo riconoscibile e trattabile le cui conseguenze possono protrarsi lungo tutto l’arco della vita».
Prevenzione primaria dunque come intervento tra il rischio e il disturbo.
Già la noia è un indicatore importante: al di là di un livello accettabile suona l’allarme. Così la pigrizia, l’ansia troppo pesante, paure diffuse… per qualunque problema c’è una percentuale di bambini che sta un po’ peggio anche per altri motivi e minaccia di scompensarsi. Bisogna individuare chi sta slittando dal problema alla patologia e aiutarlo in tempo utile nelle sedi giuste, senza paura, sapendo che un intervento fatto 3 anni prima fa soffrire di meno, dura di meno e ha risultati maggiori. «I bambini a rischio non si mettono direttamente in cura: devono ricevere un’attenzione maggiore insieme agli altri bambini», precisa Levi. La prevenzione guarda insomma i problemi in modo nuovo, mentre crescono, con un’alleanza tra famiglia, scuola, sanità, servizi sociali, conferma il sottosegretario alla Salute Antonio Guidi ribadendo la volontà del ministero di camminare sulla stessa strada.
lo psichiatra della Camera, Piero Rocchini
Il Gazzettino di Venezia Mercoledì, 30 Luglio 2003
In "Onorevoli sul lettino" lo psichiatra Piero Rocchini racconta i suoi incontri con nevrosi, vizi e patologie dei politici
Quando la schizofrenia è al potere
C’è l’ipocondriaco, l’ossessivo, il superstizioso, il narcisista e il più pericoloso: il sanguigno
di GINO DATO
Narcisisti, sanguigni, ipocondriaci, dipendenti, depressi lo siamo un po' tutti. Ma che succede quando la psicopatologia quotidiana invade i banchi del Parlamento? Che garanzie offre un politico che intraprende la carriera della cosa pubblica per riflettersi nello specchio del potere, per prosciugare la sua sete di dominio, per vincere la sua ipocondria? Questi pericoli e aberrazioni hanno già scritto pagine vergognose della nostra storia, ma oggi sono tanto più immanenti quanto più la democrazia non si nutre più di ideologie e di valori ma di sistemi fondati sul trionfo di personalità individuali.
Piero Rocchini, per molti anni consulente in psicologia clinica della Camera dei deputati, ha accolto illustri parlamentari sul suo lettino di psicoanalista: una necessità di singoli onorevoli che può tradursi in lezione di molti comuni mortali, di noi tutti che alla politica affidiamo la conquista del benessere e dovremmo perciò blindarla. Nevrosi e vizi, fuori della vita privata, diventano un danno pubblico, come lo psichiatra prova a raccontare nel suo ultimo libro "Onorevoli sul lettino" (Marco Tropea editore).
Professore, possiamo allora parafrasare il motto sessantottino "la fantasia al potere" in "la schizofrenia al potere"?
«Oggi mancano gli elementi di unità che esistevano una volta. Ogni cosa concepita attraverso la politica, un tempo, serviva a unire più che a cercare una autoaffermazione pura e semplice. Quindi in sé e per sé, la politica, in qualunque ambito fosse svolta, svolgeva un ruolo di socializzazione, da un lato, di convalida di certi valori, dall'altro, soprattutto della società in cui si era inseriti, anche quando questa veniva contestata».
E oggi?
«Oggi non è crollato solo il muro di Berlino, è crollato quel contenitore che bastava a tenerci insieme. Molti di coloro che vivono all'interno di questa società, non hanno ben chiari i motivi dello stare insieme, o non lo ritrovano se non in un vantaggio personale. Alla politica per star meglio insieme, dal punto di vista esistenziale, si è sostituita la ricerca dei vantaggi che possiamo ottenere dalla società».
Ma quali sono i disturbi tipici di un politico?
«Forse dovremmo fare una distinzione tra disturbi che permettono una più facile affermazione di un politico o di un dirigente in genere, e disturbi collegati alla conquista di un certo ruolo all'interno della società».
Vediamo i primi.
«Sono i più pericolosi per noi. Non casualmente si parla di psicopatici perché attualmente, anche secondo lo strapotere di un certo tipo di massmedia, quello strapotere che si cerca di foraggiare in tutti i modi, per chi voglia affermarsi è fondamentale saper mentire».
Questo è il principio dell'autoaffermazione?
«Intanto è molto comune la figura del narcisista che dice: gli altri esistono per il mio piacere. Non c'è una empatia, una sensazione profonda di quello che l'altro possa provare, un senso di vicinanza. C'è invece una volontà di utilizzo ma solo per il proprio piacere individuale: tanti personaggi che chiedono di essere al centro del palcoscenico e noi, al massimo, nel ruolo di un pubblico che applaude o in qualche modo dà piacere. Nello stesso momento in cui diciamo: "non ho timore dell'eventuale dolore dell'altro, non ho dispiacere per il danno che posso infliggere all'altro", mi sono dato una carta in più rispetto a chi nutre valori morali, a chi ha remore, a chi si pone dei limiti proprio perché considera l'altro un valore fondamentale da rispettare».
Lei enumera figure tipiche di politico: l'ipocondriaco, il dipendente, il superstizioso, l'ossessivo
«Molti di noi si sono abituati a concepire il capo come qualcuno che riassume il meglio di una società. Nella nostra, estremamente individualistica, è esattamente il contrario: forse il capo riassume tanti dei difetti della gente comune. Soltanto che, avendo pelo sullo stomaco, e nessuna remora a farsi largo a gomitate, più facilmente riesce a realizzare quello che potremmo considerare purtroppo un sogno abbastanza comune: prevalere a tutti i costi».
Ma il potere - secondo il vecchio adagio - non logora chi non ce l'ha?
«Il problema nasce per il politico quando, raggiunto quel gradino, c'è da mantenerlo. Il potere allora logora, sì, chi non ce l'ha, ma logora anche chi deve mantenere il potere, soprattutto se lo si è raggiunto non per capacità intrinseche ma per il vantaggio che chi sta ancora più sopra di noi poteva avere attraverso noi.
Neanche il narcisista ci tranquillizza?
«Il problema del leader narcisista è che non vuole folle intorno a sé, e neanche persone valide, ma preferisce essere l'unico e non quello capace di organizzare una squadra. Allora servono figure di secondo piano per avere la garanzia di non ribellione. Io dico che siamo giunti agli ultimi giorni dell'impero romano, quando si preferiva sterminare la propria famiglia piuttosto che correre il rischio di concorrenze pericolose».
Qual è la tipologia di politico più pericolosa?
«Forse il sanguigno, insieme a un certo tipo di narcisista. Unirei i due aspetti. Esistono varie forme di narcisismo: di chi punta alla grande impresa per lasciare il ricordo di sé, e questo potrebbe star bene a noi gente comune, perché in fondo quel tipo di narcisista cercherà di fare il meglio. Come potrebbe star bene anche il narcisista che cerca il successo più che il potere, quindi una persona che proverà in tutti i modi a capire che sogni potremmo realizzare attraverso di lui. Esiste invece un altro tipo di narcisismo patologico, quello che descrivo nel sanguigno, che appare pericoloso perché vuole il potere per il potere, il controllo assoluto. Come dicevo prima, l'imperatore degli ultimi giorni dell'impero romano, quello che deve controllare e dominare al di là di ogni limite».
La psicologia politica può andare a scoprire - lei scrive - che cosa c'è nella scatola che vogliono venderci, per cui possiamo tornare a mettere al centro il consumatore, l'elettore. E' così realmente? E questo lo può fare anche la gente comune?
«Sì, con l'aiuto della stampa. Una cosa molto diversa nel nostro paese rispetto ad altre democrazie più mature, è che in queste le informazioni sui politici viaggiano con estrema facilità. Ho la possibilità di consultare attraverso internet le prove d'esame di Bush figlio, per esempio, e quindi sapere che capacità o incapacità aveva manifestato a suo tempo. Se tento di fare la stessa cosa in Italia, molti politici cominciano a gridare alla violazione della privacy. Allora dobbiamo imporre la regola - con l'aiuto della psicologia - che chi vuole avere un potere deve accettare di stare sotto i riflettori, quindi di essere spulciato in tutti i suoi comportamenti, perché si deve dare la possibilità - soprattutto nel momento in cui ci si muove verso un maggioritario spinto o verso il presidenzialismo - di conoscere fino in fondo il personaggio».
Che cosa non deve essere allora un politico?
«Prima accennavo a un certo tipo di narcisismo che potremmo considerare patologico o alla personalità sanguigna. Ecco, quelle sono le caratteristiche che dobbiamo considerare pericolose nel politico. Ho invertito l'ordine della sua domanda. Perché credo che dovremmo cominciare a ripensare come noi i depositari del potere: siamo noi che dobbiamo scegliere o non scegliere persone che hanno o meno alcune caratteristiche di personalità. Difficilmente un politico potrebbe modificare certe caratteristiche. Il sanguigno rimarrà sanguigno, il narcisista potrà limitare un po' certe sue peculiarità ma difficilmente, se ha sete di potere, potrà saziarla se non acquisendo potere».
Ma la gente tiene conto di questi elementi quando dà un voto nell'urna?
«Dobbiamo sviluppare la possibilità di ottenere più informazioni personali. Nel momento in cui contano meno i partiti e contano sempre più i programmi, che sono spesso fotocopia, e i personaggi, tanto più dobbiamo accedere alle informazioni. Guardo allora come un pericolo tutte quelle leggi sulla stampa che in qualche modo potrebbero limitare questa circolazione di notizie. Non credo che scelta del maggioritario e limitazione della capacità di informazione possano andare d'accordo per fondare e mantenere una reale democrazia»
In "Onorevoli sul lettino" lo psichiatra Piero Rocchini racconta i suoi incontri con nevrosi, vizi e patologie dei politici
Quando la schizofrenia è al potere
C’è l’ipocondriaco, l’ossessivo, il superstizioso, il narcisista e il più pericoloso: il sanguigno
di GINO DATO
Narcisisti, sanguigni, ipocondriaci, dipendenti, depressi lo siamo un po' tutti. Ma che succede quando la psicopatologia quotidiana invade i banchi del Parlamento? Che garanzie offre un politico che intraprende la carriera della cosa pubblica per riflettersi nello specchio del potere, per prosciugare la sua sete di dominio, per vincere la sua ipocondria? Questi pericoli e aberrazioni hanno già scritto pagine vergognose della nostra storia, ma oggi sono tanto più immanenti quanto più la democrazia non si nutre più di ideologie e di valori ma di sistemi fondati sul trionfo di personalità individuali.
Piero Rocchini, per molti anni consulente in psicologia clinica della Camera dei deputati, ha accolto illustri parlamentari sul suo lettino di psicoanalista: una necessità di singoli onorevoli che può tradursi in lezione di molti comuni mortali, di noi tutti che alla politica affidiamo la conquista del benessere e dovremmo perciò blindarla. Nevrosi e vizi, fuori della vita privata, diventano un danno pubblico, come lo psichiatra prova a raccontare nel suo ultimo libro "Onorevoli sul lettino" (Marco Tropea editore).
Professore, possiamo allora parafrasare il motto sessantottino "la fantasia al potere" in "la schizofrenia al potere"?
«Oggi mancano gli elementi di unità che esistevano una volta. Ogni cosa concepita attraverso la politica, un tempo, serviva a unire più che a cercare una autoaffermazione pura e semplice. Quindi in sé e per sé, la politica, in qualunque ambito fosse svolta, svolgeva un ruolo di socializzazione, da un lato, di convalida di certi valori, dall'altro, soprattutto della società in cui si era inseriti, anche quando questa veniva contestata».
E oggi?
«Oggi non è crollato solo il muro di Berlino, è crollato quel contenitore che bastava a tenerci insieme. Molti di coloro che vivono all'interno di questa società, non hanno ben chiari i motivi dello stare insieme, o non lo ritrovano se non in un vantaggio personale. Alla politica per star meglio insieme, dal punto di vista esistenziale, si è sostituita la ricerca dei vantaggi che possiamo ottenere dalla società».
Ma quali sono i disturbi tipici di un politico?
«Forse dovremmo fare una distinzione tra disturbi che permettono una più facile affermazione di un politico o di un dirigente in genere, e disturbi collegati alla conquista di un certo ruolo all'interno della società».
Vediamo i primi.
«Sono i più pericolosi per noi. Non casualmente si parla di psicopatici perché attualmente, anche secondo lo strapotere di un certo tipo di massmedia, quello strapotere che si cerca di foraggiare in tutti i modi, per chi voglia affermarsi è fondamentale saper mentire».
Questo è il principio dell'autoaffermazione?
«Intanto è molto comune la figura del narcisista che dice: gli altri esistono per il mio piacere. Non c'è una empatia, una sensazione profonda di quello che l'altro possa provare, un senso di vicinanza. C'è invece una volontà di utilizzo ma solo per il proprio piacere individuale: tanti personaggi che chiedono di essere al centro del palcoscenico e noi, al massimo, nel ruolo di un pubblico che applaude o in qualche modo dà piacere. Nello stesso momento in cui diciamo: "non ho timore dell'eventuale dolore dell'altro, non ho dispiacere per il danno che posso infliggere all'altro", mi sono dato una carta in più rispetto a chi nutre valori morali, a chi ha remore, a chi si pone dei limiti proprio perché considera l'altro un valore fondamentale da rispettare».
Lei enumera figure tipiche di politico: l'ipocondriaco, il dipendente, il superstizioso, l'ossessivo
«Molti di noi si sono abituati a concepire il capo come qualcuno che riassume il meglio di una società. Nella nostra, estremamente individualistica, è esattamente il contrario: forse il capo riassume tanti dei difetti della gente comune. Soltanto che, avendo pelo sullo stomaco, e nessuna remora a farsi largo a gomitate, più facilmente riesce a realizzare quello che potremmo considerare purtroppo un sogno abbastanza comune: prevalere a tutti i costi».
Ma il potere - secondo il vecchio adagio - non logora chi non ce l'ha?
«Il problema nasce per il politico quando, raggiunto quel gradino, c'è da mantenerlo. Il potere allora logora, sì, chi non ce l'ha, ma logora anche chi deve mantenere il potere, soprattutto se lo si è raggiunto non per capacità intrinseche ma per il vantaggio che chi sta ancora più sopra di noi poteva avere attraverso noi.
Neanche il narcisista ci tranquillizza?
«Il problema del leader narcisista è che non vuole folle intorno a sé, e neanche persone valide, ma preferisce essere l'unico e non quello capace di organizzare una squadra. Allora servono figure di secondo piano per avere la garanzia di non ribellione. Io dico che siamo giunti agli ultimi giorni dell'impero romano, quando si preferiva sterminare la propria famiglia piuttosto che correre il rischio di concorrenze pericolose».
Qual è la tipologia di politico più pericolosa?
«Forse il sanguigno, insieme a un certo tipo di narcisista. Unirei i due aspetti. Esistono varie forme di narcisismo: di chi punta alla grande impresa per lasciare il ricordo di sé, e questo potrebbe star bene a noi gente comune, perché in fondo quel tipo di narcisista cercherà di fare il meglio. Come potrebbe star bene anche il narcisista che cerca il successo più che il potere, quindi una persona che proverà in tutti i modi a capire che sogni potremmo realizzare attraverso di lui. Esiste invece un altro tipo di narcisismo patologico, quello che descrivo nel sanguigno, che appare pericoloso perché vuole il potere per il potere, il controllo assoluto. Come dicevo prima, l'imperatore degli ultimi giorni dell'impero romano, quello che deve controllare e dominare al di là di ogni limite».
La psicologia politica può andare a scoprire - lei scrive - che cosa c'è nella scatola che vogliono venderci, per cui possiamo tornare a mettere al centro il consumatore, l'elettore. E' così realmente? E questo lo può fare anche la gente comune?
«Sì, con l'aiuto della stampa. Una cosa molto diversa nel nostro paese rispetto ad altre democrazie più mature, è che in queste le informazioni sui politici viaggiano con estrema facilità. Ho la possibilità di consultare attraverso internet le prove d'esame di Bush figlio, per esempio, e quindi sapere che capacità o incapacità aveva manifestato a suo tempo. Se tento di fare la stessa cosa in Italia, molti politici cominciano a gridare alla violazione della privacy. Allora dobbiamo imporre la regola - con l'aiuto della psicologia - che chi vuole avere un potere deve accettare di stare sotto i riflettori, quindi di essere spulciato in tutti i suoi comportamenti, perché si deve dare la possibilità - soprattutto nel momento in cui ci si muove verso un maggioritario spinto o verso il presidenzialismo - di conoscere fino in fondo il personaggio».
Che cosa non deve essere allora un politico?
«Prima accennavo a un certo tipo di narcisismo che potremmo considerare patologico o alla personalità sanguigna. Ecco, quelle sono le caratteristiche che dobbiamo considerare pericolose nel politico. Ho invertito l'ordine della sua domanda. Perché credo che dovremmo cominciare a ripensare come noi i depositari del potere: siamo noi che dobbiamo scegliere o non scegliere persone che hanno o meno alcune caratteristiche di personalità. Difficilmente un politico potrebbe modificare certe caratteristiche. Il sanguigno rimarrà sanguigno, il narcisista potrà limitare un po' certe sue peculiarità ma difficilmente, se ha sete di potere, potrà saziarla se non acquisendo potere».
Ma la gente tiene conto di questi elementi quando dà un voto nell'urna?
«Dobbiamo sviluppare la possibilità di ottenere più informazioni personali. Nel momento in cui contano meno i partiti e contano sempre più i programmi, che sono spesso fotocopia, e i personaggi, tanto più dobbiamo accedere alle informazioni. Guardo allora come un pericolo tutte quelle leggi sulla stampa che in qualche modo potrebbero limitare questa circolazione di notizie. Non credo che scelta del maggioritario e limitazione della capacità di informazione possano andare d'accordo per fondare e mantenere una reale democrazia»
psicoterapia... eclettica
Il Gazzettino di Venezia Mercoledì, 30 Luglio 2003
LA PAROLA ALL’ESPERTO
La psicoterapia è un valido aiuto per i pazienti che sono caduti in uno stato di profonda crisi esistenziale
Il dialogo, medicina della mente
La psicoterapia è oramai parte integrale del trattamento dei pazienti. Essa può essere strumento di prima o seconda scelta, ma sulla sua efficacia, nei diversi livelli di intervento psichiatrico, non vi è alcun dubbio. Negli ultimi anni, infatti, vi è stata una considerevole convergenza da parte di scuole nate con criteri assai diversi e contrastanti (ad esempio la psicoanalisi ed il cognitivismo) per arrivare ad un eclettismo. Eclettismo significa sapiente mistura di diverse tecniche, non uso spregiudicato e confuso di molti orientamenti. La prima scelta di psicoterapia è legata all'attitudine empatica e d'ascolto del medico, ma la pratica psicoterapica in senso stretto nasce solo quando si cerca di dare dei fondamenti teorici a questo tipo di trattamento. Karl Jaspers, il filosofo esistenzialista, scrisse, nel 1955, un librettino che puntualizzò i termini della questione e stabilì il termine di "psicoterapia", dal titolo " Essere e critica della psicoterapia", che, ricordo, fu uno dei primi libri che comperai quarant'anni fa, quando decisi di fare questo mestiere. La psicoterapia è strettamente legata alle condizioni della società, intese come modelli culturali, per cui la sua pratica cambia, nello spazio e nel tempo, in maniera continua. La psicoterapia attuale, ad esempio, non è più la stessa di quella che vedevo effettuare quando lessi Jaspers nel 1964. Ci si è resi sempre più conto, infatti, che la psicoterapia, oltre ad influenzare i sintomi della malattia psichiatrica, aveva un effetto terapeutico anche sulle strutture di personalità (per cui rimando al mio articolo "Il temperamento non cambia" del 10 febbraio 2003). Si tende ad interpretare l'effetto psicoterapico come attivo sia sulle situazioni emotive che portano a patologia che su regressioni personologiche, con una concezione mista dell'effetto, terapeutico e psicopedagogico. La psicoterapia serve quindi ad affrontare i problemi in maniera diversa, da angolazioni inusitate, per facilitarne la risoluzione, ma anche a smussare alcune parti della personalità, rafforzandone delle altre. I vari tipi di psicoterapia usano sempre i medesimi strumenti (l'ascolto, la parola, lo strutturarsi di un rapporto emotivo, le condizioni strutturali) anche se, di volta in volta, ne variano l'intensità ed il grado di utilizzo. Le psicoterapie possono mirare vuoi ad un aumento della consapevolezza del proprio funzionamento ("insight") che ad un cambiamento di comportamento: avremo così le psicoterapie esperienziali (di cui la psicoanalisi è la principale rappresentante) e le psicoterapie di cambiamento (di cui la principale è quella legata al cognitivismo).Ciò che importa è l'addestramento specifico dello psicoterapeuta che è particolarmente critico nelle psicoterapie di "insulti", perché il terapeuta deve aver superato le sue situazioni inconsce di conflitto e di fissazione a stadi non evoluti. Oltre a questo un criterio che si è rivelato molto importante è l'empatia, la relazione emotiva non esplicabile e non deducibile, che è determinante nell'assicurare la buona riuscita del trattamento.E' errato pensare che le nevrosi rispondano bene al trattamento psicoterapico e le psicosi ed i disturbi di personalità rispondano assai meno bene. In realtà tutti i disturbi nevrotici afferenti alle vecchia denominazione dell'isteria ed ai disturbi ossessivo-compulsivi si dimostrano eccezionalmente resistenti al solo trattamento psicoterapico, così come particolarmente complicati sono i disturbi di personalità. Per converso i disturbi schizofrenici, oltre al necessario trattamento con neurolettici di seconda generazione, hanno un enorme vantaggio da una psicoterapia orientata all'insight, terapia, peraltro, riservata a pochi terapeuti per le sue difficoltà.
prof. dott. Antonio A. Rizzoli
aa.rizzoli@ve.nettuno.it
LA PAROLA ALL’ESPERTO
La psicoterapia è un valido aiuto per i pazienti che sono caduti in uno stato di profonda crisi esistenziale
Il dialogo, medicina della mente
La psicoterapia è oramai parte integrale del trattamento dei pazienti. Essa può essere strumento di prima o seconda scelta, ma sulla sua efficacia, nei diversi livelli di intervento psichiatrico, non vi è alcun dubbio. Negli ultimi anni, infatti, vi è stata una considerevole convergenza da parte di scuole nate con criteri assai diversi e contrastanti (ad esempio la psicoanalisi ed il cognitivismo) per arrivare ad un eclettismo. Eclettismo significa sapiente mistura di diverse tecniche, non uso spregiudicato e confuso di molti orientamenti. La prima scelta di psicoterapia è legata all'attitudine empatica e d'ascolto del medico, ma la pratica psicoterapica in senso stretto nasce solo quando si cerca di dare dei fondamenti teorici a questo tipo di trattamento. Karl Jaspers, il filosofo esistenzialista, scrisse, nel 1955, un librettino che puntualizzò i termini della questione e stabilì il termine di "psicoterapia", dal titolo " Essere e critica della psicoterapia", che, ricordo, fu uno dei primi libri che comperai quarant'anni fa, quando decisi di fare questo mestiere. La psicoterapia è strettamente legata alle condizioni della società, intese come modelli culturali, per cui la sua pratica cambia, nello spazio e nel tempo, in maniera continua. La psicoterapia attuale, ad esempio, non è più la stessa di quella che vedevo effettuare quando lessi Jaspers nel 1964. Ci si è resi sempre più conto, infatti, che la psicoterapia, oltre ad influenzare i sintomi della malattia psichiatrica, aveva un effetto terapeutico anche sulle strutture di personalità (per cui rimando al mio articolo "Il temperamento non cambia" del 10 febbraio 2003). Si tende ad interpretare l'effetto psicoterapico come attivo sia sulle situazioni emotive che portano a patologia che su regressioni personologiche, con una concezione mista dell'effetto, terapeutico e psicopedagogico. La psicoterapia serve quindi ad affrontare i problemi in maniera diversa, da angolazioni inusitate, per facilitarne la risoluzione, ma anche a smussare alcune parti della personalità, rafforzandone delle altre. I vari tipi di psicoterapia usano sempre i medesimi strumenti (l'ascolto, la parola, lo strutturarsi di un rapporto emotivo, le condizioni strutturali) anche se, di volta in volta, ne variano l'intensità ed il grado di utilizzo. Le psicoterapie possono mirare vuoi ad un aumento della consapevolezza del proprio funzionamento ("insight") che ad un cambiamento di comportamento: avremo così le psicoterapie esperienziali (di cui la psicoanalisi è la principale rappresentante) e le psicoterapie di cambiamento (di cui la principale è quella legata al cognitivismo).Ciò che importa è l'addestramento specifico dello psicoterapeuta che è particolarmente critico nelle psicoterapie di "insulti", perché il terapeuta deve aver superato le sue situazioni inconsce di conflitto e di fissazione a stadi non evoluti. Oltre a questo un criterio che si è rivelato molto importante è l'empatia, la relazione emotiva non esplicabile e non deducibile, che è determinante nell'assicurare la buona riuscita del trattamento.E' errato pensare che le nevrosi rispondano bene al trattamento psicoterapico e le psicosi ed i disturbi di personalità rispondano assai meno bene. In realtà tutti i disturbi nevrotici afferenti alle vecchia denominazione dell'isteria ed ai disturbi ossessivo-compulsivi si dimostrano eccezionalmente resistenti al solo trattamento psicoterapico, così come particolarmente complicati sono i disturbi di personalità. Per converso i disturbi schizofrenici, oltre al necessario trattamento con neurolettici di seconda generazione, hanno un enorme vantaggio da una psicoterapia orientata all'insight, terapia, peraltro, riservata a pochi terapeuti per le sue difficoltà.
prof. dott. Antonio A. Rizzoli
aa.rizzoli@ve.nettuno.it
clonazione umana
ilNuovo.it 12.5.03
Clonato il primo embrione umano
Lo annuncia l'andrologo Zavos, che precisa: "l'esperimento ha fini riproduttivi". Sviluppato fino allo stadio di 8-10 cellule, servirà per nuove analisi molecolari.
ROMA – Il primo embrione umano è stato clonato. A fini riproduttivi. Ad annunciarlo è l'andrologo Panayotis Zavos, dell'università statunitense del Kentucky. Che, di fatto, dichiara di aver fatto sviluppare l’embrione fino allo stadio di 8-10 cellule e di averlo congelato al fine di compiere su di esso ulteriori analisi molecolari.
L’esperimento, precisa Zavos, "è stato condotto fuori dagli Stati Uniti. Nel 2001 Zavos aveva annunciato, insieme all'italiano Severino Antinori, di voler avviare un programma di clonazione umana a fini riproduttivi. In seguito le strade dell'andrologo di origine cipriota e del ginecologo romano si erano separate.
"Recentemente il nostro gruppo di esperti scientifici e medici ha creato il primo embrione umano clonato a scopi riproduttivi", scrive Zavos in un articolo pubblicato sulla rivista internazionale Reproductive BioMedicine Online e intitolato "Clonazione umana riproduttiva: il tempo è vicino".
Zavos rileva che lui e il suo gruppo non hanno mai dichiarato di voler clonare un embrione umano a scopo riproduttivo "ignorando la preoccupazione del pubblico o le critiche degli scienziati". Né, tantomeno, "i risultati contraddittori che negli anni passati hanno ottenuto i ricercatori impegnati nel campo della clonazione animale".
Noi, aggiunge, "volevamo semplicemente imparare dalle difficoltà" finora incontrate da coloro che hanno fatto esperimenti di clonazione. Così, prosegue Zavos, i primi esperimenti affrontati dal suo gruppo hanno riguardato i bovini. Quindi si è passati agli esperimenti con cellule umane: un particolare tipo di cellule del sangue, i granulociti, sono stati trasferiti all'interno di ovociti umani privati del nucleo.
L'embrione così ottenuto, scrive Zavos, "è stato il risultato finale dell'utilizzo di nove ovociti enucleati con tecniche di microchirurgia e fusi, per mezzo di una stimolazione elettrica, con granulociti prelevati da una paziente che desiderava avere un bambino con la tecnica del trasferimento nucleare di cellule somatiche (Scnt)".
L'embrione così ottenuto ha raggiunto lo stadio di 8-10 cellule, "che mostra un ritmo di sviluppo equivalente a quello di un normale embrione ottenuto con la fecondazione in vitro. Il suo sviluppo è stato osservato e registrato, e l'embrione è stato criopreservato per future analisi molecolari e altre osservazioni"
Clonato il primo embrione umano
Lo annuncia l'andrologo Zavos, che precisa: "l'esperimento ha fini riproduttivi". Sviluppato fino allo stadio di 8-10 cellule, servirà per nuove analisi molecolari.
ROMA – Il primo embrione umano è stato clonato. A fini riproduttivi. Ad annunciarlo è l'andrologo Panayotis Zavos, dell'università statunitense del Kentucky. Che, di fatto, dichiara di aver fatto sviluppare l’embrione fino allo stadio di 8-10 cellule e di averlo congelato al fine di compiere su di esso ulteriori analisi molecolari.
L’esperimento, precisa Zavos, "è stato condotto fuori dagli Stati Uniti. Nel 2001 Zavos aveva annunciato, insieme all'italiano Severino Antinori, di voler avviare un programma di clonazione umana a fini riproduttivi. In seguito le strade dell'andrologo di origine cipriota e del ginecologo romano si erano separate.
"Recentemente il nostro gruppo di esperti scientifici e medici ha creato il primo embrione umano clonato a scopi riproduttivi", scrive Zavos in un articolo pubblicato sulla rivista internazionale Reproductive BioMedicine Online e intitolato "Clonazione umana riproduttiva: il tempo è vicino".
Zavos rileva che lui e il suo gruppo non hanno mai dichiarato di voler clonare un embrione umano a scopo riproduttivo "ignorando la preoccupazione del pubblico o le critiche degli scienziati". Né, tantomeno, "i risultati contraddittori che negli anni passati hanno ottenuto i ricercatori impegnati nel campo della clonazione animale".
Noi, aggiunge, "volevamo semplicemente imparare dalle difficoltà" finora incontrate da coloro che hanno fatto esperimenti di clonazione. Così, prosegue Zavos, i primi esperimenti affrontati dal suo gruppo hanno riguardato i bovini. Quindi si è passati agli esperimenti con cellule umane: un particolare tipo di cellule del sangue, i granulociti, sono stati trasferiti all'interno di ovociti umani privati del nucleo.
L'embrione così ottenuto, scrive Zavos, "è stato il risultato finale dell'utilizzo di nove ovociti enucleati con tecniche di microchirurgia e fusi, per mezzo di una stimolazione elettrica, con granulociti prelevati da una paziente che desiderava avere un bambino con la tecnica del trasferimento nucleare di cellule somatiche (Scnt)".
L'embrione così ottenuto ha raggiunto lo stadio di 8-10 cellule, "che mostra un ritmo di sviluppo equivalente a quello di un normale embrione ottenuto con la fecondazione in vitro. Il suo sviluppo è stato osservato e registrato, e l'embrione è stato criopreservato per future analisi molecolari e altre osservazioni"
Maria Zambrano
Il Giornale di Brescia 30.7.03
Una pensatrice «sanguigna» come la sua Spagna
TUTTA LA FORZA DELLA TERRA IBERICA NELLE IDEE DI MARIA ZAMBRANO
Le donne e la filosofia: Maria Zambrano
di Maria Mataluno
Maria Zambrano aveva già deciso di abbandonare la filosofia quando, una mattina di maggio, un raggio di sole penetrò attraverso una tendina nell’aula dell’Università di Madrid dove seguiva una lezione di Xavier Zubiri. Mentre il filosofo era intento a spiegare le Categorie di Aristotele, Maria, colpita in volto da quel fascio di luce, si sentì invasa da una sorta di rivelazione, o meglio, da una «penombra toccata d’allegria». Capì allora che non aveva nessuna ragione per abbandonare la filosofia, ma che anzi proprio in quella penombra - del cuore, più che della mente - avrebbe trovato un nuovo punto di partenza per la sua riflessione. L’estate seguente s’immerse nella lettura dell’Etica di Spinoza e della terza Enneade di Plotino. Profondamente radicata nella temperie intellettuale della Spagna del suo tempo e orgogliosa delle sue radici europee, sensibile interprete del pensiero di Unamuno e della poesia di Machado, Maria Zambrano trascorse la sua giovinezza tra Malaga e Madrid, dove si laureò in filosofia sotto l’ala protettrice di Ortega y Gasset e di Zubiri e lavorò come assistente all’università dal 1931 al ’36, riuscendo ad aprirsi faticosamente una strada in un ambiente fortemente maschilista e in un’epoca in cui una filosofa «era quasi una "donna barbuta", un’eresia, una curiosità da circo». La sua vita fu costellata da una serie di crisi, che descrive nell’autobiografia Delirio e destino: la prima fu quella «malattia creativa» che tra il 1928 e il 1929 la spinse a isolarsi e a interrompere gli studi. La seconda, la più densa di conseguenze per la sua vita e il suo pensiero, fu rappresentata dall’esilio: dopo aver partecipato alla guerra civile, nel ’39 Maria dovette fuggire dalla Spagna caduta nelle mani dei franchisti. Cominciò allora una peregrinazione che in quarantacinque anni la portò dal Cile al Messico, da Parigi a Roma - nelle due capitali europee strinse rapporti di amicizia con intellettuali come Cioran, Sartre, Camus, Moravia e Cristina Campo -, da Cuba a Puerto Rico, dal Giura francese alla Svizzera; finché, negli anni Ottanta, non ritornò a Madrid, dove rimase per il resto della sua vita scrivendo e insegnando. L’esilio fu da lei vissuto come un’esperienza limite: in quell’essere «gettati nel mondo», abbandonati a un «deserto senza frontiere» per una scelta non propria, credette di riconoscere l’essenza stessa della condizione umana. «Non concepisco la mia vita senza l’esilio che ho vissuto - scriverà nel 1989 -. L’esilio è stato la mia patria, come la dimensione di una patria sconosciuta ma che, una volta conosciuta, diventa irrinunciabile. (…) Credo che l’esilio sia una dimensione essenziale della natura umana, ma dicendo questo mi mordo le labbra, perché vorrei che non ci fossero esseri esiliati, ma che tutti fossero esseri umani e al tempo stesso cosmici, che non si conoscesse l’esilio». Altrettanto dolorosa ma anche altrettanto feconda fu per Maria la terza crisi: il «parricidio» nei confronti del suo maestro, Ortega y Gasset. Nemica di ogni sistema filosofico, che considerava «un castello di ragioni, muraglia chiusa del pensiero di fronte al vuoto», Maria Zambrano dedicò tutti i suoi sforzi intellettuali alla costruzione di un pensiero vivente, capace di confrontarsi con la realtà umana in tutta la sua interezza, di esplorare non solo il mondo della razionalità e del pensiero, ma anche quello del cuore, del «logos che scorre nelle viscere». «Il pensiero, a quanto sembra, tende a farsi sangue. O forse è che il sangue deve rispondere al pensiero, come se l’atto più puro, libero, disinteressato compiuto dall’uomo dovesse essere pagato, o quanto meno legittimato, da quella "materia" preziosa tra tutte, essenza della vita, vita stessa che scorre nascosta». Ortega y Gasset l’accusò di «mancanza di obiettività». Ma alla trasparente razionalità del cogito cartesiano Maria continuò a opporre con determinazione il cuore, con la sua oscurità e il suo mistero; davanti al sole della ragione metteva l’aurora, promessa di luce che emerge dalle tenebre della notte e di esse reca ancora in sé le tracce. «La prima cosa che avvertiamo nella vita del cuore - scrisse - è la sua condizione di oscura cavità, di recinto ermetico; è Viscere, interiora. Il cuore è il simbolo e la massima rappresentazione di tutte le viscere della vita, il viscere in cui tutte trovano la loro unità definitiva e la loro nobiltà. (…) Il cuore è il viscere più nobile perché porta in sé l’immagine di uno spazio, di un dentro oscuro, segreto e misterioso che, in alcune occasioni, si apre». Per conoscere una simile realtà occorre elaborare una nuova forma di sapere, un sapere dell’anima, che non è tanto una disciplina intellettuale - le domande a cui esso tenta di rispondere non sono «che cosa è il mondo?» o «che cosa sono le cose», ma «chi sono io?», «da dove vengo?», «qual è il mio destino?», - quanto un’attitudine a unificare l’uno col molteplice, l’essere con la vita, l’uguaglianza con la differenza. A questo scopo possono essere utili, secondo Maria Zambrano, la Confessione e la scrittura, alle quali dedicò le sue pagine più originali. Come la Confessione rappresenta la possibilità di ricostruire la propria identità raccontandosi a un interlocutore privilegiato, così la scrittura è un mezzo grazie al quale l’uomo rende comunicabile il proprio sapere più intimo, qualcosa che non sa chiarire fino in fondo, ma che deve comunicare ad altri, lasciando che siano essi ad attribuirle un senso. Non si tratta solo di una necessità, ma anche di un dovere, di un obbligo di fedeltà verso ciò che è nascosto e che chiede di venire alla luce. «Scrivere - si legge in un testo del 1961 - è difendere la solitudine in cui ci si trova, è un’azione che scaturisce unicamente dall’isolamento effettivo, non comunicabile, nel quale proprio per la lontananza da tutte le cose concrete, si rende possibile una scoperta dei rapporti tra di esse». Lo stesso principio che è alla base della letteratura è, secondo Maria Zambrano, anche il motore della vita politica. Come la scrittura nasce dal desiderio dell’anima di essere «tratta fuori dal silenzio», così lo spazio della democrazia ha origine dal «desiderio di forma» di chi si sente umiliato o emarginato, come le donne. La democrazia non promette alcuna utopia, ma solo la possibilità di prendere parte al gioco comune, così come il singolo orchestrale partecipa all’esecuzione di una sinfonia. Per questo «l’ordine di una società democratica è più ricerca di un ordine musicale che architettonico». La vera rivoluzione, dunque, sarebbe far sì che la storia, catena di violenze che generalmente prende inizio da un atto di fondazione, un giorno nascesse invece dalla musica, ossia da un ordine che armonizza la complessità e la diversità nella sapiente architettura del contrappunto.
Una pensatrice «sanguigna» come la sua Spagna
TUTTA LA FORZA DELLA TERRA IBERICA NELLE IDEE DI MARIA ZAMBRANO
Le donne e la filosofia: Maria Zambrano
di Maria Mataluno
Maria Zambrano aveva già deciso di abbandonare la filosofia quando, una mattina di maggio, un raggio di sole penetrò attraverso una tendina nell’aula dell’Università di Madrid dove seguiva una lezione di Xavier Zubiri. Mentre il filosofo era intento a spiegare le Categorie di Aristotele, Maria, colpita in volto da quel fascio di luce, si sentì invasa da una sorta di rivelazione, o meglio, da una «penombra toccata d’allegria». Capì allora che non aveva nessuna ragione per abbandonare la filosofia, ma che anzi proprio in quella penombra - del cuore, più che della mente - avrebbe trovato un nuovo punto di partenza per la sua riflessione. L’estate seguente s’immerse nella lettura dell’Etica di Spinoza e della terza Enneade di Plotino. Profondamente radicata nella temperie intellettuale della Spagna del suo tempo e orgogliosa delle sue radici europee, sensibile interprete del pensiero di Unamuno e della poesia di Machado, Maria Zambrano trascorse la sua giovinezza tra Malaga e Madrid, dove si laureò in filosofia sotto l’ala protettrice di Ortega y Gasset e di Zubiri e lavorò come assistente all’università dal 1931 al ’36, riuscendo ad aprirsi faticosamente una strada in un ambiente fortemente maschilista e in un’epoca in cui una filosofa «era quasi una "donna barbuta", un’eresia, una curiosità da circo». La sua vita fu costellata da una serie di crisi, che descrive nell’autobiografia Delirio e destino: la prima fu quella «malattia creativa» che tra il 1928 e il 1929 la spinse a isolarsi e a interrompere gli studi. La seconda, la più densa di conseguenze per la sua vita e il suo pensiero, fu rappresentata dall’esilio: dopo aver partecipato alla guerra civile, nel ’39 Maria dovette fuggire dalla Spagna caduta nelle mani dei franchisti. Cominciò allora una peregrinazione che in quarantacinque anni la portò dal Cile al Messico, da Parigi a Roma - nelle due capitali europee strinse rapporti di amicizia con intellettuali come Cioran, Sartre, Camus, Moravia e Cristina Campo -, da Cuba a Puerto Rico, dal Giura francese alla Svizzera; finché, negli anni Ottanta, non ritornò a Madrid, dove rimase per il resto della sua vita scrivendo e insegnando. L’esilio fu da lei vissuto come un’esperienza limite: in quell’essere «gettati nel mondo», abbandonati a un «deserto senza frontiere» per una scelta non propria, credette di riconoscere l’essenza stessa della condizione umana. «Non concepisco la mia vita senza l’esilio che ho vissuto - scriverà nel 1989 -. L’esilio è stato la mia patria, come la dimensione di una patria sconosciuta ma che, una volta conosciuta, diventa irrinunciabile. (…) Credo che l’esilio sia una dimensione essenziale della natura umana, ma dicendo questo mi mordo le labbra, perché vorrei che non ci fossero esseri esiliati, ma che tutti fossero esseri umani e al tempo stesso cosmici, che non si conoscesse l’esilio». Altrettanto dolorosa ma anche altrettanto feconda fu per Maria la terza crisi: il «parricidio» nei confronti del suo maestro, Ortega y Gasset. Nemica di ogni sistema filosofico, che considerava «un castello di ragioni, muraglia chiusa del pensiero di fronte al vuoto», Maria Zambrano dedicò tutti i suoi sforzi intellettuali alla costruzione di un pensiero vivente, capace di confrontarsi con la realtà umana in tutta la sua interezza, di esplorare non solo il mondo della razionalità e del pensiero, ma anche quello del cuore, del «logos che scorre nelle viscere». «Il pensiero, a quanto sembra, tende a farsi sangue. O forse è che il sangue deve rispondere al pensiero, come se l’atto più puro, libero, disinteressato compiuto dall’uomo dovesse essere pagato, o quanto meno legittimato, da quella "materia" preziosa tra tutte, essenza della vita, vita stessa che scorre nascosta». Ortega y Gasset l’accusò di «mancanza di obiettività». Ma alla trasparente razionalità del cogito cartesiano Maria continuò a opporre con determinazione il cuore, con la sua oscurità e il suo mistero; davanti al sole della ragione metteva l’aurora, promessa di luce che emerge dalle tenebre della notte e di esse reca ancora in sé le tracce. «La prima cosa che avvertiamo nella vita del cuore - scrisse - è la sua condizione di oscura cavità, di recinto ermetico; è Viscere, interiora. Il cuore è il simbolo e la massima rappresentazione di tutte le viscere della vita, il viscere in cui tutte trovano la loro unità definitiva e la loro nobiltà. (…) Il cuore è il viscere più nobile perché porta in sé l’immagine di uno spazio, di un dentro oscuro, segreto e misterioso che, in alcune occasioni, si apre». Per conoscere una simile realtà occorre elaborare una nuova forma di sapere, un sapere dell’anima, che non è tanto una disciplina intellettuale - le domande a cui esso tenta di rispondere non sono «che cosa è il mondo?» o «che cosa sono le cose», ma «chi sono io?», «da dove vengo?», «qual è il mio destino?», - quanto un’attitudine a unificare l’uno col molteplice, l’essere con la vita, l’uguaglianza con la differenza. A questo scopo possono essere utili, secondo Maria Zambrano, la Confessione e la scrittura, alle quali dedicò le sue pagine più originali. Come la Confessione rappresenta la possibilità di ricostruire la propria identità raccontandosi a un interlocutore privilegiato, così la scrittura è un mezzo grazie al quale l’uomo rende comunicabile il proprio sapere più intimo, qualcosa che non sa chiarire fino in fondo, ma che deve comunicare ad altri, lasciando che siano essi ad attribuirle un senso. Non si tratta solo di una necessità, ma anche di un dovere, di un obbligo di fedeltà verso ciò che è nascosto e che chiede di venire alla luce. «Scrivere - si legge in un testo del 1961 - è difendere la solitudine in cui ci si trova, è un’azione che scaturisce unicamente dall’isolamento effettivo, non comunicabile, nel quale proprio per la lontananza da tutte le cose concrete, si rende possibile una scoperta dei rapporti tra di esse». Lo stesso principio che è alla base della letteratura è, secondo Maria Zambrano, anche il motore della vita politica. Come la scrittura nasce dal desiderio dell’anima di essere «tratta fuori dal silenzio», così lo spazio della democrazia ha origine dal «desiderio di forma» di chi si sente umiliato o emarginato, come le donne. La democrazia non promette alcuna utopia, ma solo la possibilità di prendere parte al gioco comune, così come il singolo orchestrale partecipa all’esecuzione di una sinfonia. Per questo «l’ordine di una società democratica è più ricerca di un ordine musicale che architettonico». La vera rivoluzione, dunque, sarebbe far sì che la storia, catena di violenze che generalmente prende inizio da un atto di fondazione, un giorno nascesse invece dalla musica, ossia da un ordine che armonizza la complessità e la diversità nella sapiente architettura del contrappunto.
martedì 29 luglio 2003
Modigliani
La Gazzetta del Mezzogiorno 29.7.03
Intervista.
A Christian Parisot Modigliani & Jeanne
le loro mani nella tela ritrovata
di Maria Paola Porcelli
Secondo una recente notizia, dei gitani avrebbero collaborato con i carabinieri di Monza e di Roma al ritrovamento del quadro La ragazza con le calze rosse, ritratto di Germaine Escudié, la piccola ballerina di Montmartre, dipinto a due mani da Modigliani e dalla sua compagna Jeanne Hébuterne. La notizia sarebbe piaciuta molto a Modì, che aveva gran rispetto per i vagabondi, padroni del mondo. Meno contento il proprietario francese del quadro che certo non avrà molto gradito questa passeggiata del suo dipinto, valutato alcuni milioni di euro, in un campo nomadi.
Abbiamo intervistato il professor Christian Parisot, massimo esperto sull'opera di Amedeo Modigliani e Jeanne Hébuterne, presidente degli Archives légales Modigliani di Parigi, nonché curatore della mostra «Amedeo Modigliani, Jeanne Hébuterne e gli artisti di Montmartre e Montparnasse» in corso nel Castello svevo di Bari sino al 25 agosto.
«Si tratta di un olio su cartone - ci dice Parisot - dipinto tra il 1918 ed il '19 a due mani, quella di Jeanne e quella di Amedeo, in due momenti distinti. Due tecniche in uno stesso quadro».
Una pratica diffusa nella «Scuola di Parigi»?
«Certo. Spesso i 'fondi' erano eseguiti con e da altri artisti. Moise Kisling ne ha preparati molti per Modigliani. Le loro mani si alternavano sulle rispettive tele, di fronte alla stessa modella, nello stesso appartamento della rue Joseph Bara a Montparnasse. Stessa donna, stessi pennelli, stessi colori, come aveva già raccontato lo stesso Kisling».
L'opera ritrovata nei giorni scorsi a Monza in un campo rom è conosciuta da vent'anni, ma come opera «da verificare», in un dossier già catalogato da Jeanne Modigliani, figlia di Amedeo.
«Certo. Oggi anche analisi chimiche ufficiali del supporto hanno confermato che risulta d'epoca, come la firma di Modigliani che risulta perfettamente inserita nella pasta cromatica del fondo».
Questa è la sua perizia sul quadro. Eppure esiste qualcuno che insinua il sospetto che l'opera sia un falso?
«Le voci, le polemiche, le opinioni nelle expertise non sono sufficienti. Come può facilmente immaginare, gli interessi che girano attorno ad un'opera del genere sono tanti. Qualcuno prova a confondere il valore commerciale con quello artistico. Una cosa è certa: nel tempo nessuno ha fornito prove scientifiche sufficienti a provare il contrario delle nostre tesi. Due anni fa, dopo aver analizzato l'opera in una riunione di esperti, abbiamo espresso il nostro parere controfirmato da me e da Jean Kisling. Nel parere ufficiale mi soffermavo anche sul cartone incollato su un supporto ligneo col quale si era voluto in passato 'restaurare' l'opera compromettendone una parte importante. È possibile sbagliarsi, ma è molto, molto difficile».
Oggi conferma le sue valutazioni?
«Certo. Confermo l'autenticità dell'opera La ragazza con le calze rosse eseguita da Amedeo con la partecipazione nel 'fondo' della Hébuterne. Una tesi ancora più inconfutabile oggi, dopo i recentissimi ritrovamenti di molte opere di Jeanne nella cantina parigina del fratello André e ora esposte per la prima volta a Bari».
Ci descriva questi segni di riconoscimento.
«Soprattutto il fondo leggermente sfumato con i tre quadretti appesi al muro ripresi e sottolineati da un contorno nero e legati tra loro da un tratto lineare, una sorta di filo nero presente anche in La ragazza con le calze rosse. Segni che appartengono alla costruzione orizzontale degli interni di Jeanne Hébuterne che dipingeva quasi esclusivamente su cartone. Tutti segni d'autenticità che l'artista-musa ha riproposto puntualmente, come fosse una firma, anche sulle altre sue opere».
E la figura centrale? Cosa hanno rivelato le analisi?
«La figura centrale della ragazza seduta è stata dipinta d'un sol getto da Amedeo, in pochi minuti come dimostrano le analisi. Pochi colori sulla superficie liscia del cartone con un pennello ruvido su un fondo ancora umido. Pochi tratti per dipingere dal basso verso l'alto, dalle scarpe slacciate di questa ballerina, la silhouette con il tutu da ballo, la prospettiva assente, il ritratto frontale, la visione centrale tipicamente toscana, scultorea. Il viso inquadrato da due trecce verticali, gli occhi assenti a ricordare la "paura del vuoto"».
Un volto triste?
«Come tutti quelli che Modigliani cercava di eseguire in fretta dopo una richiesta specifica del committente: colori diluiti con la vernice finale affinché l'olio potesse seccare rapidamente. Jeanne e Amedeo hanno dimostrato che la loro unione poteva esprimersi in un segno pittorico di grande livello legati dal colore su di un supporto comune. Nella mostra di Bari c'è una tela, questa volta un supporto caro ad Amedeo, autore solo di dettagli e su cui ha invece dipinto principalmente Jeanne. Esattamente il contrario di quanto è avvenuto in La ragazza con le calze rosse».
Ecco le prime immagini
del kolossal Modigliani
Le prime immagini del kolossal "Modigliani" interpretato da Andy Garcia con la regia di Mike Davis, saranno proposte in anteprima mondiale da Rai Educational oggi (martedì 29.7.03) su Raitre alle 0.20. Il film uscirà in Usa a dicembre proprio per lanciare verso l'Oscar un travolgente Andy Garcia.
Intervista.
A Christian Parisot Modigliani & Jeanne
le loro mani nella tela ritrovata
di Maria Paola Porcelli
Secondo una recente notizia, dei gitani avrebbero collaborato con i carabinieri di Monza e di Roma al ritrovamento del quadro La ragazza con le calze rosse, ritratto di Germaine Escudié, la piccola ballerina di Montmartre, dipinto a due mani da Modigliani e dalla sua compagna Jeanne Hébuterne. La notizia sarebbe piaciuta molto a Modì, che aveva gran rispetto per i vagabondi, padroni del mondo. Meno contento il proprietario francese del quadro che certo non avrà molto gradito questa passeggiata del suo dipinto, valutato alcuni milioni di euro, in un campo nomadi.
Abbiamo intervistato il professor Christian Parisot, massimo esperto sull'opera di Amedeo Modigliani e Jeanne Hébuterne, presidente degli Archives légales Modigliani di Parigi, nonché curatore della mostra «Amedeo Modigliani, Jeanne Hébuterne e gli artisti di Montmartre e Montparnasse» in corso nel Castello svevo di Bari sino al 25 agosto.
«Si tratta di un olio su cartone - ci dice Parisot - dipinto tra il 1918 ed il '19 a due mani, quella di Jeanne e quella di Amedeo, in due momenti distinti. Due tecniche in uno stesso quadro».
Una pratica diffusa nella «Scuola di Parigi»?
«Certo. Spesso i 'fondi' erano eseguiti con e da altri artisti. Moise Kisling ne ha preparati molti per Modigliani. Le loro mani si alternavano sulle rispettive tele, di fronte alla stessa modella, nello stesso appartamento della rue Joseph Bara a Montparnasse. Stessa donna, stessi pennelli, stessi colori, come aveva già raccontato lo stesso Kisling».
L'opera ritrovata nei giorni scorsi a Monza in un campo rom è conosciuta da vent'anni, ma come opera «da verificare», in un dossier già catalogato da Jeanne Modigliani, figlia di Amedeo.
«Certo. Oggi anche analisi chimiche ufficiali del supporto hanno confermato che risulta d'epoca, come la firma di Modigliani che risulta perfettamente inserita nella pasta cromatica del fondo».
Questa è la sua perizia sul quadro. Eppure esiste qualcuno che insinua il sospetto che l'opera sia un falso?
«Le voci, le polemiche, le opinioni nelle expertise non sono sufficienti. Come può facilmente immaginare, gli interessi che girano attorno ad un'opera del genere sono tanti. Qualcuno prova a confondere il valore commerciale con quello artistico. Una cosa è certa: nel tempo nessuno ha fornito prove scientifiche sufficienti a provare il contrario delle nostre tesi. Due anni fa, dopo aver analizzato l'opera in una riunione di esperti, abbiamo espresso il nostro parere controfirmato da me e da Jean Kisling. Nel parere ufficiale mi soffermavo anche sul cartone incollato su un supporto ligneo col quale si era voluto in passato 'restaurare' l'opera compromettendone una parte importante. È possibile sbagliarsi, ma è molto, molto difficile».
Oggi conferma le sue valutazioni?
«Certo. Confermo l'autenticità dell'opera La ragazza con le calze rosse eseguita da Amedeo con la partecipazione nel 'fondo' della Hébuterne. Una tesi ancora più inconfutabile oggi, dopo i recentissimi ritrovamenti di molte opere di Jeanne nella cantina parigina del fratello André e ora esposte per la prima volta a Bari».
Ci descriva questi segni di riconoscimento.
«Soprattutto il fondo leggermente sfumato con i tre quadretti appesi al muro ripresi e sottolineati da un contorno nero e legati tra loro da un tratto lineare, una sorta di filo nero presente anche in La ragazza con le calze rosse. Segni che appartengono alla costruzione orizzontale degli interni di Jeanne Hébuterne che dipingeva quasi esclusivamente su cartone. Tutti segni d'autenticità che l'artista-musa ha riproposto puntualmente, come fosse una firma, anche sulle altre sue opere».
E la figura centrale? Cosa hanno rivelato le analisi?
«La figura centrale della ragazza seduta è stata dipinta d'un sol getto da Amedeo, in pochi minuti come dimostrano le analisi. Pochi colori sulla superficie liscia del cartone con un pennello ruvido su un fondo ancora umido. Pochi tratti per dipingere dal basso verso l'alto, dalle scarpe slacciate di questa ballerina, la silhouette con il tutu da ballo, la prospettiva assente, il ritratto frontale, la visione centrale tipicamente toscana, scultorea. Il viso inquadrato da due trecce verticali, gli occhi assenti a ricordare la "paura del vuoto"».
Un volto triste?
«Come tutti quelli che Modigliani cercava di eseguire in fretta dopo una richiesta specifica del committente: colori diluiti con la vernice finale affinché l'olio potesse seccare rapidamente. Jeanne e Amedeo hanno dimostrato che la loro unione poteva esprimersi in un segno pittorico di grande livello legati dal colore su di un supporto comune. Nella mostra di Bari c'è una tela, questa volta un supporto caro ad Amedeo, autore solo di dettagli e su cui ha invece dipinto principalmente Jeanne. Esattamente il contrario di quanto è avvenuto in La ragazza con le calze rosse».
Ecco le prime immagini
del kolossal Modigliani
Le prime immagini del kolossal "Modigliani" interpretato da Andy Garcia con la regia di Mike Davis, saranno proposte in anteprima mondiale da Rai Educational oggi (martedì 29.7.03) su Raitre alle 0.20. Il film uscirà in Usa a dicembre proprio per lanciare verso l'Oscar un travolgente Andy Garcia.
gli occhi
Galileo, Agosto 2003
NEUROSCIENZE
Oltre gli occhi
di Giovanna Dall'Ongaro
Con circa 150.000 movimenti al giorno, l'occhio ha un'attività motoria più intensa di quella cardiaca. Mentre il cuore infatti scandisce 60 battiti al minuto, la vista può andare al ritmo di quattro o cinque movimenti al secondo. Tanti ne servono infatti per osservare un'immagine. Si tratta di rapidissime occhiate, dette "saccadi", di cui l'osservatore è inconsapevole e che permettono la percezione dell'oggetto. Nonostante questo "terremoto" oculare, però, noi riusciamo ad avere un'immagine stabile del mondo. Come è possibile? Uno studio della facoltà di Psicologia dell'Università Vita-Salute del San Raffaele, getta nuova luce sul processo che permette al cervello di stabilire se siamo noi o sono gli oggetti a muoversi. Galileo ha intervistato Concetta Morrone che, insieme a David Melcher ha condotto la ricerca, i cui risultati verranno pubblicati sul numero di agosto di "Nature Neuroscience".
Nonostante l'esistenza di numerosi studi sui movimenti oculari e sulla percezione delle immagini, ancora non riusciamo, viene proprio da dirlo, a "vederci chiaro". Resta da spiegare soprattutto il comportamento del cervello. Che cosa avete scoperto a riguardo?
"L'abilità dimostrata dal cervello nel fornire un'immagine stabile del mondo, nonostante la particolare 'turbolenza' della percezione visiva, è nota già dall'anno 1000. Fu uno studioso persiano, Al Hazen, il primo a notarla. Ma finora ancora non si era riusciti a capire come ciò fosse possibile. Il nostro studio cerca di colmare proprio questa lacuna e contraddice quanto finora si era creduto".
Che cosa si pensava che accadesse?
"Fino a oggi si riteneva che, nella percezione di un'immagine, il cervello si creasse come delle 'telecamere' capaci di muoversi insieme agli occhi. Si pensava, cioè, che ogni neurone fosse collegato a gruppi specifici di fotorecettori, le cellule incaricate di ricevere la luce, e che a ogni neurone fosse associata una porzione di mondo".
Ossia il cervello che segue lo sguardo. Invece non è così?
"No. Almeno secondo i nostri dati. Il cervello è in grado di elaborare le informazioni provenienti dal campo visivo, indipendentemente dalla posizione dello sguardo. La telecamera è quindi solidale con il mondo esterno e non con gli occhi. I neuroni effettuano una sorta di "rimappatura" collegandosi ad altri fotorecettori, anche se l'occhio si muove. E' come se si creasse una sorta di traccia, di memoria, anche se il termine non è corretto, a cui il cervello si rivolge nonostante l'occhio cada da tutt'altra parte. Tutto ciò accade a livello sensoriale precoce, cioè a una primissima analisi del segnale visivo e non, come si era creduto finora, a un alto livello cognitivo".
La capacità della mente umana di sintonizzarsi sul mondo esterno vale anche per gli altri sensi?
"Sembrerebbe proprio di sì. Sia nel nostro paese sia negli Stati Uniti sono in corso diverse ricerche a riguardo. Per ora si tratta ancora di esperimenti condotti sulle scimmie, ma presto si passerà all'essere umano. Comunque i risultati sembrano confermare quanto dimostrato per la percezione visiva. Da alcune prime indagini sull'udito, per esempio, emergono importanti analogie con la nostra ricerca. Anche in questo caso infatti c'è una ragione per cui continuiamo a percepire il suono dallo stesso luogo, nonostante il movimento della testa o del corpo intero, ed è che il cervello si collega in qualche modo con la realtà esterna, indipendentemente dalla posizione dell'orecchio".
Questa scoperta sembra avere anche delle implicazioni filosofiche. E' un aspetto a cui avete pensato?
"Le riflessioni filosofiche non ci competono. Quello che sicuramente ci sentiamo di dire è che si è fatto un passo avanti nello svelare i misteri e le abilità della mente umana. Grazie alle nostre ricerche si potranno anche curare alcune patologie legate all'instabilità della percezione visiva che affliggono bambini che hanno riportato delle lesioni alla nascita. E questo ci basta".
Magazine, 1 agosto 2003 © Galileo
NEUROSCIENZE
Oltre gli occhi
di Giovanna Dall'Ongaro
Con circa 150.000 movimenti al giorno, l'occhio ha un'attività motoria più intensa di quella cardiaca. Mentre il cuore infatti scandisce 60 battiti al minuto, la vista può andare al ritmo di quattro o cinque movimenti al secondo. Tanti ne servono infatti per osservare un'immagine. Si tratta di rapidissime occhiate, dette "saccadi", di cui l'osservatore è inconsapevole e che permettono la percezione dell'oggetto. Nonostante questo "terremoto" oculare, però, noi riusciamo ad avere un'immagine stabile del mondo. Come è possibile? Uno studio della facoltà di Psicologia dell'Università Vita-Salute del San Raffaele, getta nuova luce sul processo che permette al cervello di stabilire se siamo noi o sono gli oggetti a muoversi. Galileo ha intervistato Concetta Morrone che, insieme a David Melcher ha condotto la ricerca, i cui risultati verranno pubblicati sul numero di agosto di "Nature Neuroscience".
Nonostante l'esistenza di numerosi studi sui movimenti oculari e sulla percezione delle immagini, ancora non riusciamo, viene proprio da dirlo, a "vederci chiaro". Resta da spiegare soprattutto il comportamento del cervello. Che cosa avete scoperto a riguardo?
"L'abilità dimostrata dal cervello nel fornire un'immagine stabile del mondo, nonostante la particolare 'turbolenza' della percezione visiva, è nota già dall'anno 1000. Fu uno studioso persiano, Al Hazen, il primo a notarla. Ma finora ancora non si era riusciti a capire come ciò fosse possibile. Il nostro studio cerca di colmare proprio questa lacuna e contraddice quanto finora si era creduto".
Che cosa si pensava che accadesse?
"Fino a oggi si riteneva che, nella percezione di un'immagine, il cervello si creasse come delle 'telecamere' capaci di muoversi insieme agli occhi. Si pensava, cioè, che ogni neurone fosse collegato a gruppi specifici di fotorecettori, le cellule incaricate di ricevere la luce, e che a ogni neurone fosse associata una porzione di mondo".
Ossia il cervello che segue lo sguardo. Invece non è così?
"No. Almeno secondo i nostri dati. Il cervello è in grado di elaborare le informazioni provenienti dal campo visivo, indipendentemente dalla posizione dello sguardo. La telecamera è quindi solidale con il mondo esterno e non con gli occhi. I neuroni effettuano una sorta di "rimappatura" collegandosi ad altri fotorecettori, anche se l'occhio si muove. E' come se si creasse una sorta di traccia, di memoria, anche se il termine non è corretto, a cui il cervello si rivolge nonostante l'occhio cada da tutt'altra parte. Tutto ciò accade a livello sensoriale precoce, cioè a una primissima analisi del segnale visivo e non, come si era creduto finora, a un alto livello cognitivo".
La capacità della mente umana di sintonizzarsi sul mondo esterno vale anche per gli altri sensi?
"Sembrerebbe proprio di sì. Sia nel nostro paese sia negli Stati Uniti sono in corso diverse ricerche a riguardo. Per ora si tratta ancora di esperimenti condotti sulle scimmie, ma presto si passerà all'essere umano. Comunque i risultati sembrano confermare quanto dimostrato per la percezione visiva. Da alcune prime indagini sull'udito, per esempio, emergono importanti analogie con la nostra ricerca. Anche in questo caso infatti c'è una ragione per cui continuiamo a percepire il suono dallo stesso luogo, nonostante il movimento della testa o del corpo intero, ed è che il cervello si collega in qualche modo con la realtà esterna, indipendentemente dalla posizione dell'orecchio".
Questa scoperta sembra avere anche delle implicazioni filosofiche. E' un aspetto a cui avete pensato?
"Le riflessioni filosofiche non ci competono. Quello che sicuramente ci sentiamo di dire è che si è fatto un passo avanti nello svelare i misteri e le abilità della mente umana. Grazie alle nostre ricerche si potranno anche curare alcune patologie legate all'instabilità della percezione visiva che affliggono bambini che hanno riportato delle lesioni alla nascita. E questo ci basta".
Magazine, 1 agosto 2003 © Galileo
sul caso di Amina
Repubblica Roma 29.7.03
Un libro dedicato alla lotta di Amina
Ci sarà anche Danjo Eguche, ambasciatore nigeriano, oggi in Campidoglio per la presentazione del libro "Amina Lawal", con le immagini dell´installazione di sabbia, stoffe e colori, che il Comune ha chiesto all´artista Maria Dompé di dedicare alla lotta della donna nigeriana contro la condanna alla lapidazione. Alla cerimonia parteciperanno Maria Dompé, Lidia Ravera e gli assessori Mariella Gramaglia, andata alla prima udienza con migliaia di firme di solidarietà, e Gianni Borgna. Il processo d´appello sarà il 27 agosto.
Un libro dedicato alla lotta di Amina
Ci sarà anche Danjo Eguche, ambasciatore nigeriano, oggi in Campidoglio per la presentazione del libro "Amina Lawal", con le immagini dell´installazione di sabbia, stoffe e colori, che il Comune ha chiesto all´artista Maria Dompé di dedicare alla lotta della donna nigeriana contro la condanna alla lapidazione. Alla cerimonia parteciperanno Maria Dompé, Lidia Ravera e gli assessori Mariella Gramaglia, andata alla prima udienza con migliaia di firme di solidarietà, e Gianni Borgna. Il processo d´appello sarà il 27 agosto.
Hans Jonas
Repubblica 29.7.03
MARTEDÌ, 29 LUGLIO 2003
A dieci anni dalla scomparsa esce la sua autobiografia
Quella cotta per la Arendt di Hans Jonas
si rividero a New York dove entrambI insegnavano
ma lei gli disse che amava Heidegger
di Paola Sorge
La notorietà arrivò tardi per Hans Jonas: il filosofo aveva 75 anni quando «Il principio responsabilità - Un´etica per la civiltà tecnologica» - un libro che ebbe una diffusione rapida e vastissima come pochi altri nel mondo del pensiero - gli diede fama internazionale; da allora, era il 1979, il pensatore originario di Monchengladbach che aveva studiato con Husserl e Heidegger, l´insegnante entusiasta e appassionato che faceva della filosofia qualcosa di vivo e affascinante, divenne estremamente popolare, onnipresente nei dibattiti sul futuro del mondo.
La sua intensa vita che abbraccia quasi tutto il Novecento (dal 1903 al 1993) la racconta lui stesso in maniera semplice e disarmante in un volume uscito ora in Germania (Hans Jonas: Erinnerungen, ed. Insel, pagg. 500); nulla di accademico né di costruito nelle memorie di questo grande filosofo che paiono piuttosto le confidenze di un amico che sente il bisogno di confessarsi, di rivelare con estrema franchezza non solo le tappe del suo iter intellettuale - dalla analisi della spiritualità antica a quella della tecnologia moderna fino alla preoccupazione per il futuro dell´umanità - , ma anche le sue vicende personali, gli aspetti meno conosciuti della sua formazione e della sua carriera, i lati oscuri della sua personalità. Jonas rievoca con dovizia di particolari la sua infanzia, il rapporto con il padre, un agiato fabbricante tessile che stenta a capire le aspirazioni e le tensioni spirituali del figlio e il suo impegno per il sionismo, il tenero legame con la madre e la ferita sempre aperta per la sua tragica morte a Auschwitz; come la maggior parte dei suoi compagni di studi, Hans prova una forte attrazione per Hannah Arendt, conosciuta a Marburg nel 1924, ma lei gli confessa subito la sua relazione con Heidegger per non illuderlo e ne fa il suo confidente e amico per la vita. La descrizione dell´ambiente universitario di Friburgo e poi di Marburg e delle lezioni tenute dai due grandi, allora mitici maestri di Jonas, Husserl e Heidegger, è a dir poco disincantata. Il primo, fondatore della fenomenologia, riteneva che tutti i pensatori dell´era moderna, da Descartes in poi, non erano riusciti a risolvere certi problemi della consapevolezza o della teoria della conoscenza perché non conoscevano il suo metodo, l´unico che dava soluzioni. Tra l´altro, si diverte a ricordare Jonas, era presente alle lezioni la moglie di Husserl che, come un cerbero, controllava che gli studenti fossero attenti e prendessero appunti. Quanto a Heidegger, il giovane Hans ne riconosce il grande valore e la suggestione esercitata dalla sua personalità, ma non esita a dichiarare che spesso non lo capiva: il suo messaggio era cifrato, destinato a pochi iniziati e inoltre, intorno a lui, si avvertiva un´atmosfera «malsana» dovuta agli adoratori del filosofo.
«Non riuscivo a sopportare quella congrega di cultori di Heidegger dall´atteggiamento bigotto e altezzoso» - osserva Jonas ricordando i seminari frequentati a Marburgo dal 1924 - «essi credevano di possedere la verità rivelata: quella non era filosofia ma qualcosa di settario, quasi una nuova fede...». Queste prime, sgradevoli impressioni saranno poi rafforzate dal celebre discorso tenuto da Heidegger nel '33 in favore di Hitler e dal suo vergognoso comportamento nei riguardi di Husserl. In realtà per il giovane studente pieno di ideali, che credeva che la filosofia dovesse proteggere l´uomo da errori, migliorarlo e nobilitarlo, l´inaspettata adesione del grande filosofo al nazismo non significa solo il crollo di un idolo, ma anche il fallimento catastrofico della filosofia stessa, «la bancarotta del pensiero filosofico». Dopo la guerra Hans Jonas si distaccherà definitivamente dalla filosofia dell´esistenzialismo contrapponendole la «filosofia della vita»; a differenza della Arendt, non perdonerà mai colui che ritiene il più profondo pensatore del suo tempo, anche se accetterà di incontrarlo brevemente nel 1969, in occasione del suo ottantesimo compleanno. «Ma tra noi ci fu solo uno scambio di ricordi del tempo di Marburg», nota Jonas. Dopo la notizia dell´avvento di Hitler al potere appresa durante un´allegra festa in maschera, Hans si rifugia a Gerusalemme, partecipa alla seconda guerra mondiale arruolandosi nell´esercito inglese, combatte in Italia, a Taranto, a Forlì, a Udine, e rimane piacevolmente sorpreso nel constatare che la popolazione protegge e nasconde gli ebrei in barba alle leggi razziali. Quando nel '45 torna in Germania e vede le città tedesche rase al suolo - città fantasma che sembravano paesaggi lunari, piene di crateri e di rovine - , prova una gioia incontenibile per la vendetta che si è compiuta: «E´ qualcosa che non vorrei mai più provare», confessa Jonas, « ma che non voglio tacere». E, senza remore aggiunge che per molti anni quello è stato per lui il momento di più intensa felicità. «Oggi non lo potrei più dire «, nota il filosofo « perché nella mia vita ho vissuto momenti ben più felici».
A New York, dove dal 1955 ha la cattedra di filosofia, ritrova Hannah Arendt e frequenta la sua cerchia di amici a Manhattan fino a quando la pubblicazione degli articoli della scrittrice sul processo di Eichmann a Gerusalemme lo sconvolge profondamente: Jonas non crede ai suoi occhi, non riesce a capacitarsi delle dure critiche mosse dalla Arendt agli stessi ebrei, del tono tagliente e sarcastico da lei usato nei loro confronti, della sua posizione antisionista. Lo scontro fra i due amici di un tempo è inevitabile: Hans rimprovera a Hannah - che non ha mai letto la Bibbia - la sua ignoranza sulla religione e sulla storia ebraica antica, tenta inutilmente di farla desistere dalle sue posizioni, si rifiuta infine di vederla. Solo dopo due anni riprenderà i contatti con la donna da lui stesso definita «un genio dell´amicizia».
MARTEDÌ, 29 LUGLIO 2003
A dieci anni dalla scomparsa esce la sua autobiografia
Quella cotta per la Arendt di Hans Jonas
si rividero a New York dove entrambI insegnavano
ma lei gli disse che amava Heidegger
di Paola Sorge
La notorietà arrivò tardi per Hans Jonas: il filosofo aveva 75 anni quando «Il principio responsabilità - Un´etica per la civiltà tecnologica» - un libro che ebbe una diffusione rapida e vastissima come pochi altri nel mondo del pensiero - gli diede fama internazionale; da allora, era il 1979, il pensatore originario di Monchengladbach che aveva studiato con Husserl e Heidegger, l´insegnante entusiasta e appassionato che faceva della filosofia qualcosa di vivo e affascinante, divenne estremamente popolare, onnipresente nei dibattiti sul futuro del mondo.
La sua intensa vita che abbraccia quasi tutto il Novecento (dal 1903 al 1993) la racconta lui stesso in maniera semplice e disarmante in un volume uscito ora in Germania (Hans Jonas: Erinnerungen, ed. Insel, pagg. 500); nulla di accademico né di costruito nelle memorie di questo grande filosofo che paiono piuttosto le confidenze di un amico che sente il bisogno di confessarsi, di rivelare con estrema franchezza non solo le tappe del suo iter intellettuale - dalla analisi della spiritualità antica a quella della tecnologia moderna fino alla preoccupazione per il futuro dell´umanità - , ma anche le sue vicende personali, gli aspetti meno conosciuti della sua formazione e della sua carriera, i lati oscuri della sua personalità. Jonas rievoca con dovizia di particolari la sua infanzia, il rapporto con il padre, un agiato fabbricante tessile che stenta a capire le aspirazioni e le tensioni spirituali del figlio e il suo impegno per il sionismo, il tenero legame con la madre e la ferita sempre aperta per la sua tragica morte a Auschwitz; come la maggior parte dei suoi compagni di studi, Hans prova una forte attrazione per Hannah Arendt, conosciuta a Marburg nel 1924, ma lei gli confessa subito la sua relazione con Heidegger per non illuderlo e ne fa il suo confidente e amico per la vita. La descrizione dell´ambiente universitario di Friburgo e poi di Marburg e delle lezioni tenute dai due grandi, allora mitici maestri di Jonas, Husserl e Heidegger, è a dir poco disincantata. Il primo, fondatore della fenomenologia, riteneva che tutti i pensatori dell´era moderna, da Descartes in poi, non erano riusciti a risolvere certi problemi della consapevolezza o della teoria della conoscenza perché non conoscevano il suo metodo, l´unico che dava soluzioni. Tra l´altro, si diverte a ricordare Jonas, era presente alle lezioni la moglie di Husserl che, come un cerbero, controllava che gli studenti fossero attenti e prendessero appunti. Quanto a Heidegger, il giovane Hans ne riconosce il grande valore e la suggestione esercitata dalla sua personalità, ma non esita a dichiarare che spesso non lo capiva: il suo messaggio era cifrato, destinato a pochi iniziati e inoltre, intorno a lui, si avvertiva un´atmosfera «malsana» dovuta agli adoratori del filosofo.
«Non riuscivo a sopportare quella congrega di cultori di Heidegger dall´atteggiamento bigotto e altezzoso» - osserva Jonas ricordando i seminari frequentati a Marburgo dal 1924 - «essi credevano di possedere la verità rivelata: quella non era filosofia ma qualcosa di settario, quasi una nuova fede...». Queste prime, sgradevoli impressioni saranno poi rafforzate dal celebre discorso tenuto da Heidegger nel '33 in favore di Hitler e dal suo vergognoso comportamento nei riguardi di Husserl. In realtà per il giovane studente pieno di ideali, che credeva che la filosofia dovesse proteggere l´uomo da errori, migliorarlo e nobilitarlo, l´inaspettata adesione del grande filosofo al nazismo non significa solo il crollo di un idolo, ma anche il fallimento catastrofico della filosofia stessa, «la bancarotta del pensiero filosofico». Dopo la guerra Hans Jonas si distaccherà definitivamente dalla filosofia dell´esistenzialismo contrapponendole la «filosofia della vita»; a differenza della Arendt, non perdonerà mai colui che ritiene il più profondo pensatore del suo tempo, anche se accetterà di incontrarlo brevemente nel 1969, in occasione del suo ottantesimo compleanno. «Ma tra noi ci fu solo uno scambio di ricordi del tempo di Marburg», nota Jonas. Dopo la notizia dell´avvento di Hitler al potere appresa durante un´allegra festa in maschera, Hans si rifugia a Gerusalemme, partecipa alla seconda guerra mondiale arruolandosi nell´esercito inglese, combatte in Italia, a Taranto, a Forlì, a Udine, e rimane piacevolmente sorpreso nel constatare che la popolazione protegge e nasconde gli ebrei in barba alle leggi razziali. Quando nel '45 torna in Germania e vede le città tedesche rase al suolo - città fantasma che sembravano paesaggi lunari, piene di crateri e di rovine - , prova una gioia incontenibile per la vendetta che si è compiuta: «E´ qualcosa che non vorrei mai più provare», confessa Jonas, « ma che non voglio tacere». E, senza remore aggiunge che per molti anni quello è stato per lui il momento di più intensa felicità. «Oggi non lo potrei più dire «, nota il filosofo « perché nella mia vita ho vissuto momenti ben più felici».
A New York, dove dal 1955 ha la cattedra di filosofia, ritrova Hannah Arendt e frequenta la sua cerchia di amici a Manhattan fino a quando la pubblicazione degli articoli della scrittrice sul processo di Eichmann a Gerusalemme lo sconvolge profondamente: Jonas non crede ai suoi occhi, non riesce a capacitarsi delle dure critiche mosse dalla Arendt agli stessi ebrei, del tono tagliente e sarcastico da lei usato nei loro confronti, della sua posizione antisionista. Lo scontro fra i due amici di un tempo è inevitabile: Hans rimprovera a Hannah - che non ha mai letto la Bibbia - la sua ignoranza sulla religione e sulla storia ebraica antica, tenta inutilmente di farla desistere dalle sue posizioni, si rifiuta infine di vederla. Solo dopo due anni riprenderà i contatti con la donna da lui stesso definita «un genio dell´amicizia».
itinerari
Repubblica Milano 29.7.03
Quello specchio d´acqua che incantò Nietzsche
«Un delizioso piccolo lago ai piedi del Monte Rosa, un´isola ben situata sulle acque calmissime, civettuola e semplice». Così scriveva lo scrittore francese Honoré de Balzac del Lago d´Orta, il più romantico d´Italia, a due passi dalla sponda piemontese del "cugino" Lago Maggiore. Un luogo di grande fascino che ha ispirato anche Browning e Nietzsche, il quale nel 1882 soggiornò per qualche giorno sulle sue rive assieme alla bella e giovanissima Lou Salomé, visitando anche il Sacro Monte che si erge alle spalle. Un´atmosfera di spiritualità, silenzio, raccoglimento mistico avvolge l´Isola di San Giulio (la si raggiunge in battello da Orta), dominata dal convento, dove si è insediata la comunità delle monache Benedettine, e dalla Basilica fondata nel 390 e poi modificata nei secoli successivi. Suggestiva è la leggenda secondo la quale l´Isola era un tempo abitata da un grosso serpente che aveva distrutto ogni cosa. La pace tornò quando Giulio, un santo che sapeva comandare alle acque, si avvicinò al lago e stese il suo mantello facendo dileguare il feroce animale. A pochi chilometri da Milano (per raggiungerlo ci vuole circa un´ora di macchina), il Lago d´Orta, con le sue bellezze paesaggistiche che paiono uscire da un acquarello e le belle ville patrizie, val bene una gita. E, se il visitatore è appassionato di gastonomia, non mancherà di assaggiare la classica mortadella ortese e il tapulon, piatto tipico a base di carne di asino.
(p.z.)
Quello specchio d´acqua che incantò Nietzsche
«Un delizioso piccolo lago ai piedi del Monte Rosa, un´isola ben situata sulle acque calmissime, civettuola e semplice». Così scriveva lo scrittore francese Honoré de Balzac del Lago d´Orta, il più romantico d´Italia, a due passi dalla sponda piemontese del "cugino" Lago Maggiore. Un luogo di grande fascino che ha ispirato anche Browning e Nietzsche, il quale nel 1882 soggiornò per qualche giorno sulle sue rive assieme alla bella e giovanissima Lou Salomé, visitando anche il Sacro Monte che si erge alle spalle. Un´atmosfera di spiritualità, silenzio, raccoglimento mistico avvolge l´Isola di San Giulio (la si raggiunge in battello da Orta), dominata dal convento, dove si è insediata la comunità delle monache Benedettine, e dalla Basilica fondata nel 390 e poi modificata nei secoli successivi. Suggestiva è la leggenda secondo la quale l´Isola era un tempo abitata da un grosso serpente che aveva distrutto ogni cosa. La pace tornò quando Giulio, un santo che sapeva comandare alle acque, si avvicinò al lago e stese il suo mantello facendo dileguare il feroce animale. A pochi chilometri da Milano (per raggiungerlo ci vuole circa un´ora di macchina), il Lago d´Orta, con le sue bellezze paesaggistiche che paiono uscire da un acquarello e le belle ville patrizie, val bene una gita. E, se il visitatore è appassionato di gastonomia, non mancherà di assaggiare la classica mortadella ortese e il tapulon, piatto tipico a base di carne di asino.
(p.z.)
da Le Scienze (ed.it. dello Scientific American)... sulla depressione
Le Scienze 24.07.2003
Un gene raddoppia il rischio di depressione
Scoperto il legame fra una proteina del cervello e un disturbo psichico
Fra le persone che hanno vissuto più eventi stressanti nell'arco di 5 anni, il 43 per cento di chi possiede una determinata versione di un gene sviluppano uno stato di depressione, contro soltanto il 17 per cento di chi ha un'altra versione dello stesso gene. Lo afferma una ricerca finanziata in parte dal National Institute of Mental Health (NIMH) degli Stati Uniti. I soggetti che presentano la versione "corta", o sensibile allo stress, del gene trasportatore della serotonina sono risultati inoltre ad alto rischio di depressione se avevano subito abusi da bambini. Invece, a prescindere da quanti eventi stressanti avessero vissuto o sopportato, le persone con la versione "lunga", o protettiva, non erano soggetti alla depressione più di coloro cui erano stati risparmiati simili eventi difficili.
Secondo Avshalom Caspi, Terrie Moffitt e colleghi dell'Università del Wisconsin e del King’s College di Londra, la variante breve del gene sembra conferire una vulnerabilità agli stress, eventi come la perdita del lavoro, la rottura con il partner, la morte di una persona cara, o una malattia prolungata. Il gene codifica per 5-HTT, la proteina nei neuroni che ricicla il messaggero chimico serotonina dopo che è stato secreto nella sinapsi. Poiché la più diffusa e prescritta classe di antidepressivi agisce bloccando questa proteina, il gene è stato uno dei principali sospettati per i disturbi dell'umore e l'ansia. Eppure il suo legame con la depressione aveva eluso ogni identificazione in otto precedenti studi.
"Abbiamo trovato la connessione - spiega Moffitt - solo perché abbiamo indagato sugli eventi stressanti nel passato dei partecipanti allo studio. Alcuni di questi eventi ambientali cruciali, che possono includere infezioni, tossine e anche traumi psicosociali, possono essere la chiave per svelare i segreti della genetica psichiatrica".
Lo studio è stato descritto in un articolo pubblicato sul numero del 18 luglio della rivista "Science".
Caspi, A. et al. Influence of life stress on depression: moderation by a polymorphism in the 5-HTT gene. Science, 301, 385 - 389, (2003).
© 1999 - 2003 Le Scienze S.p.A.
Un gene raddoppia il rischio di depressione
Scoperto il legame fra una proteina del cervello e un disturbo psichico
Fra le persone che hanno vissuto più eventi stressanti nell'arco di 5 anni, il 43 per cento di chi possiede una determinata versione di un gene sviluppano uno stato di depressione, contro soltanto il 17 per cento di chi ha un'altra versione dello stesso gene. Lo afferma una ricerca finanziata in parte dal National Institute of Mental Health (NIMH) degli Stati Uniti. I soggetti che presentano la versione "corta", o sensibile allo stress, del gene trasportatore della serotonina sono risultati inoltre ad alto rischio di depressione se avevano subito abusi da bambini. Invece, a prescindere da quanti eventi stressanti avessero vissuto o sopportato, le persone con la versione "lunga", o protettiva, non erano soggetti alla depressione più di coloro cui erano stati risparmiati simili eventi difficili.
Secondo Avshalom Caspi, Terrie Moffitt e colleghi dell'Università del Wisconsin e del King’s College di Londra, la variante breve del gene sembra conferire una vulnerabilità agli stress, eventi come la perdita del lavoro, la rottura con il partner, la morte di una persona cara, o una malattia prolungata. Il gene codifica per 5-HTT, la proteina nei neuroni che ricicla il messaggero chimico serotonina dopo che è stato secreto nella sinapsi. Poiché la più diffusa e prescritta classe di antidepressivi agisce bloccando questa proteina, il gene è stato uno dei principali sospettati per i disturbi dell'umore e l'ansia. Eppure il suo legame con la depressione aveva eluso ogni identificazione in otto precedenti studi.
"Abbiamo trovato la connessione - spiega Moffitt - solo perché abbiamo indagato sugli eventi stressanti nel passato dei partecipanti allo studio. Alcuni di questi eventi ambientali cruciali, che possono includere infezioni, tossine e anche traumi psicosociali, possono essere la chiave per svelare i segreti della genetica psichiatrica".
Lo studio è stato descritto in un articolo pubblicato sul numero del 18 luglio della rivista "Science".
Caspi, A. et al. Influence of life stress on depression: moderation by a polymorphism in the 5-HTT gene. Science, 301, 385 - 389, (2003).
© 1999 - 2003 Le Scienze S.p.A.
da Le Scienze (ed.it. dello Scientific American)... sull'autismo
Le Scienze 24.07.2003
Autismo e sviluppo del cervello
Le vaccinazioni in età infantile non sarebbero responsabili del disturbo
I neonati la cui testa comincia di colpo a crescere rapidamente sembrerebbero più a rischio di autismo. Lo indicano i risultati di uno studio che suggerisce come il disturbo, sempre più comune nei paesi industrializzati, potrebbe forse essere dovuto a connessioni mancanti nei cervelli che si espandono troppo velocemente. La ricerca sembra inoltre fornire nuove prove secondo cui le vaccinazioni in tenera età non sarebbero una causa di autismo, come altri scienziati avevano invece ipotizzato.
Lo studio, condotto da Eric Courchesne e colleghi dell'Università della California di San Diego, ha coinvolto 48 pazienti autistici. Il 59 per cento ha presentato una crescita accelerata del cranio - e presumibilmente un'espansione del cervello - a cominciare dall'età di due mesi fino a un'età compresa fra i quattro e i dodici mesi. I risultati, pubblicati sulla rivista "Journal of the American Medical Association", indicano che il cranio dei bambini autistici può passare da essere più piccolo del 75 per cento dei bambini fino a essere più grande dell'84 per cento al termine dell'improvviso sviluppo.
"Questa rapida crescita si verifica in un breve periodo di tempo, - spiega Courchesne - e dunque non può essere causata da eventi che hanno luogo più tardi, come le vaccinazioni contro gli orecchioni, il morbillo o la rosolia, o dall'esposizione a sostanze tossica durante l'infanzia".
In passato, le vaccinazioni e l'esposizione a veleni ambientali come il mercurio sono state considerate come una possibile causa di autismo. Uno studio nei mesi scorsi aveva indagato su una possibile componente genetica legata al cromosoma 15. Ora, la questione fondamentale per i ricercatori è capire se la rapida crescita del cervello - che in teoria è troppo veloce perché si formino le connessioni neurologiche vitali - sia la causa o soltanto un sintomo dell'autismo. Il disturbo di solito viene diagnosticato più tardi, non prima dell'età di due anni.
© 1999 - 2003 Le Scienze S.p.A
Autismo e sviluppo del cervello
Le vaccinazioni in età infantile non sarebbero responsabili del disturbo
I neonati la cui testa comincia di colpo a crescere rapidamente sembrerebbero più a rischio di autismo. Lo indicano i risultati di uno studio che suggerisce come il disturbo, sempre più comune nei paesi industrializzati, potrebbe forse essere dovuto a connessioni mancanti nei cervelli che si espandono troppo velocemente. La ricerca sembra inoltre fornire nuove prove secondo cui le vaccinazioni in tenera età non sarebbero una causa di autismo, come altri scienziati avevano invece ipotizzato.
Lo studio, condotto da Eric Courchesne e colleghi dell'Università della California di San Diego, ha coinvolto 48 pazienti autistici. Il 59 per cento ha presentato una crescita accelerata del cranio - e presumibilmente un'espansione del cervello - a cominciare dall'età di due mesi fino a un'età compresa fra i quattro e i dodici mesi. I risultati, pubblicati sulla rivista "Journal of the American Medical Association", indicano che il cranio dei bambini autistici può passare da essere più piccolo del 75 per cento dei bambini fino a essere più grande dell'84 per cento al termine dell'improvviso sviluppo.
"Questa rapida crescita si verifica in un breve periodo di tempo, - spiega Courchesne - e dunque non può essere causata da eventi che hanno luogo più tardi, come le vaccinazioni contro gli orecchioni, il morbillo o la rosolia, o dall'esposizione a sostanze tossica durante l'infanzia".
In passato, le vaccinazioni e l'esposizione a veleni ambientali come il mercurio sono state considerate come una possibile causa di autismo. Uno studio nei mesi scorsi aveva indagato su una possibile componente genetica legata al cromosoma 15. Ora, la questione fondamentale per i ricercatori è capire se la rapida crescita del cervello - che in teoria è troppo veloce perché si formino le connessioni neurologiche vitali - sia la causa o soltanto un sintomo dell'autismo. Il disturbo di solito viene diagnosticato più tardi, non prima dell'età di due anni.
© 1999 - 2003 Le Scienze S.p.A
lunedì 28 luglio 2003
cinese all'Esquilino, preside il prof. Federico Masini
La Stampa VivereRoma 24 Luglio 2003
La Facoltà di Studi Orientali si è trasferita a piazza Vittorio
L´Esquilino parla cinese al banco e sui banchi
Il preside Masini: «Un quartiere stimolante»
di Licia Pastore
La misteriosa cultura degli ideogrammi cinesi, e le affascinanti influenze dell'estremo Oriente, pervadono entrando nella ex caserma Sani. L'edificio di fine `800, completamente ristrutturato dal Comune, si trova nel cuore dell'Esquilino ed ospita ormai da qualche mese quello che potrebbe definirsi il primo ed unico esperimento di convivenza tra la realtà accademica e una comunità cinese: i 5000 metri quadrati e il cortile dell´ex caserma, infatti, saranno condivisi tra Università e mercato dell'abbigliamento degli ex ambulanti di piazza Vittorio.
Loro, gli accademici, sbarcati all´Esquilino quando è stata trasferita la Facoltà di Studi Orientali, sono arrivati nel quartiere in silenzio. Una discrezione massima proprio come è consuetudine orientale. La facoltà si porta dietro duemila studenti de La Sapienza, 12 aule, un corpo docenti multietnico e un preside di 42 anni (il più giovane d'Italia), Federico Masini, che non è di origine cinese ma, pur essendo romano, è quasi come se lo fosse per lo stile che lo contraddistingue. È alla guida della Facoltà di Studi Orientali dal marzo del 2001, è laureato in filosofia. Ha studiato in Cina per 10 anni e a lungo a Berkeley negli Stati Uniti.
All´ex caserma Sani sorge la prima Facoltà di Studi Orientali Nello stesso edificio presente anche il mercato degli ex ambulanti
Duemila studenti de La Sapienza, 12 aule, un corpo docenti multietnico 3 E il più giovane preside d´Italia, Federico Masini
L´esperimento felice
Cinesi e università a piazza Vittorio si studia convivenza
«Quando il Rettore mi propose questo posto - spiega Federico Masini - capii subito l'importanza di avere qui una struttura universitaria che potesse anche contribuire alla riqualificazione in corso dell'intera zona».
Affacciandosi alle finestre della ex caserma Sani, si vedono solo negozi ed insegne cinesi, arabe e indiane. Sembra di essere catapultati direttamente in una piccola Chinatown. Per i corridoi della facoltà, ragazzi dai tratti assolutamente europei leggono testi con pagine stampate a ideogrammi e altre lingue «impossibili».
Come si annuncia la convivenza tra le due comunità, quella accademica e comunità cinese? «In questa struttura, con posizione strategica - racconta il preside Masini - non ci voleva venire nessuno. Ho pensato subito che sarebbe stata una situazione di grande vantaggio per gli studenti. Le università che insegnano materie orientali non hanno mai trovato collocazione tra grandi masse di immigrati».
Il progetto del preside Masini si propone anche come obiettivo di entrare in contatto con la realtà circostante fornendo così alla comunità un punto di riferimento di sviluppo culturale ed interculturale.
«Verrà creato per gli immigrati - dice - uno "sportello" culturale, gestito dagli studenti, che potrebbero così fare direttamente esperienza, acquisendo crediti per il loro curriculum».
La Facoltà ha un'offerta formativa molto ricca. Si insegnano, oltre al cinese e al giapponese, anche arabo, ebraico, persiano, hindi, urdu, tibetano moderno, sanscrito, bengali e coreano, ma non mancano insegnamenti di lingue «classiche» come assiriologia, sanscrito. «Esistono altri corsi di laurea analoghi a questo a Venezia e a Napoli, ma questa è l'unica Facoltà di Studi Orientali in Italia». I piani di studio prevedono anche altri insegnamenti come letteratura, storia e politica. E aprono buone possibilità di sbocchi professionali, anche perché per ora si contano circa 100 laureati l'anno. Una cooperativa di studenti ha aperto una libreria che procura testi in lingua sia ai residenti sia agli studenti. «Nella mia classe - conclude Masini - ci sono ragazzi cinesi di seconda generazione che parlano la lingua, ma non la scrivono e vengono qui per studiarla». Molto successo oltre al cinese e al giapponese, ha pure il coreano che ha riscosso grande interesse negli ultimi anni.
La Facoltà di Studi Orientali si è trasferita a piazza Vittorio
L´Esquilino parla cinese al banco e sui banchi
Il preside Masini: «Un quartiere stimolante»
di Licia Pastore
La misteriosa cultura degli ideogrammi cinesi, e le affascinanti influenze dell'estremo Oriente, pervadono entrando nella ex caserma Sani. L'edificio di fine `800, completamente ristrutturato dal Comune, si trova nel cuore dell'Esquilino ed ospita ormai da qualche mese quello che potrebbe definirsi il primo ed unico esperimento di convivenza tra la realtà accademica e una comunità cinese: i 5000 metri quadrati e il cortile dell´ex caserma, infatti, saranno condivisi tra Università e mercato dell'abbigliamento degli ex ambulanti di piazza Vittorio.
Loro, gli accademici, sbarcati all´Esquilino quando è stata trasferita la Facoltà di Studi Orientali, sono arrivati nel quartiere in silenzio. Una discrezione massima proprio come è consuetudine orientale. La facoltà si porta dietro duemila studenti de La Sapienza, 12 aule, un corpo docenti multietnico e un preside di 42 anni (il più giovane d'Italia), Federico Masini, che non è di origine cinese ma, pur essendo romano, è quasi come se lo fosse per lo stile che lo contraddistingue. È alla guida della Facoltà di Studi Orientali dal marzo del 2001, è laureato in filosofia. Ha studiato in Cina per 10 anni e a lungo a Berkeley negli Stati Uniti.
All´ex caserma Sani sorge la prima Facoltà di Studi Orientali Nello stesso edificio presente anche il mercato degli ex ambulanti
Duemila studenti de La Sapienza, 12 aule, un corpo docenti multietnico 3 E il più giovane preside d´Italia, Federico Masini
L´esperimento felice
Cinesi e università a piazza Vittorio si studia convivenza
«Quando il Rettore mi propose questo posto - spiega Federico Masini - capii subito l'importanza di avere qui una struttura universitaria che potesse anche contribuire alla riqualificazione in corso dell'intera zona».
Affacciandosi alle finestre della ex caserma Sani, si vedono solo negozi ed insegne cinesi, arabe e indiane. Sembra di essere catapultati direttamente in una piccola Chinatown. Per i corridoi della facoltà, ragazzi dai tratti assolutamente europei leggono testi con pagine stampate a ideogrammi e altre lingue «impossibili».
Come si annuncia la convivenza tra le due comunità, quella accademica e comunità cinese? «In questa struttura, con posizione strategica - racconta il preside Masini - non ci voleva venire nessuno. Ho pensato subito che sarebbe stata una situazione di grande vantaggio per gli studenti. Le università che insegnano materie orientali non hanno mai trovato collocazione tra grandi masse di immigrati».
Il progetto del preside Masini si propone anche come obiettivo di entrare in contatto con la realtà circostante fornendo così alla comunità un punto di riferimento di sviluppo culturale ed interculturale.
«Verrà creato per gli immigrati - dice - uno "sportello" culturale, gestito dagli studenti, che potrebbero così fare direttamente esperienza, acquisendo crediti per il loro curriculum».
La Facoltà ha un'offerta formativa molto ricca. Si insegnano, oltre al cinese e al giapponese, anche arabo, ebraico, persiano, hindi, urdu, tibetano moderno, sanscrito, bengali e coreano, ma non mancano insegnamenti di lingue «classiche» come assiriologia, sanscrito. «Esistono altri corsi di laurea analoghi a questo a Venezia e a Napoli, ma questa è l'unica Facoltà di Studi Orientali in Italia». I piani di studio prevedono anche altri insegnamenti come letteratura, storia e politica. E aprono buone possibilità di sbocchi professionali, anche perché per ora si contano circa 100 laureati l'anno. Una cooperativa di studenti ha aperto una libreria che procura testi in lingua sia ai residenti sia agli studenti. «Nella mia classe - conclude Masini - ci sono ragazzi cinesi di seconda generazione che parlano la lingua, ma non la scrivono e vengono qui per studiarla». Molto successo oltre al cinese e al giapponese, ha pure il coreano che ha riscosso grande interesse negli ultimi anni.
giovedì 24 luglio 2003
dalla tricotillomania alla schizofrenia...
Il Gazzettino Mercoledì, 23 Luglio 2003
LA NOSTRA MENTE
Tra i mali la tricotillomania, la cleptomania, il gioco d'azzardo patologico, l'esibizionismo, il feticismo, il voyeurismo
Le piccole-grandi patologie della vita quotidiana
Queste malattie rispondono, sostanzialmente, allo stesso trattamento farmacologico dei disturbi ossessivi compulsivi
Malattie diverse con radice comune: il concetto di "spettro"
Prof. dott. Antonio Augusto Rizzoli
In fisica "spettro" significa la distribuzione dell'intensità d' una radiazione in funzione dell'energia, della frequenza o di altre grandezze fisiche. Vi sono molte malattie psichiatriche che differiscono tra loro per intensità e ampiezza sintomatologica, ma che sembra abbiano radici comuni. Si è cercato, soprattutto con l'aiuto della genetica, di allineare queste malattie lungo un cosiddetto "spettro".
L'esempio più evidente viene da quello che viene chiamato "Spettro Ossessivo-Compulsivo" e che mette lungo un continuo malattie come le tricotillomania (il vezzo di strapparsi i capelli), la cleptomania, il gioco d'azzardo patologico, la piromania (quello, meno simpatico, di appiccare incendi), l'esibizionismo, il feticismo (l'essere eccitati sessualmente da cose), il voyeurismo (l'essere eccitati sessualmente dal poter ammirare, non visti, nudità altrui), l'anoressia e la bulimia, il dismorfismo corporeo, o quella malattia che fa erompere il soggetto, pieno di tic, soprattutto facciali, in esclamazioni oscene con agitazione psicomotoria e che prende il nome da quel neurologo francese dal nome proustiano di Georges Eduard Albert Brutus Gilles de La Tourette (1855-1909), che la descrisse per primo, entrando a vele spiegate in quell'Olimpo della neurologia, negato a molti. In queste malattie, così diverse, hanno un grande ruolo sia le ossessioni (il dover pensare a certe cose) che le compulsioni (il dover fare certe cose) che sono elementi sintomatologici tipici del cosiddetto Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC). E infatti queste malattie sono collegate e vicine al Disturbo Ossessivo Compulsivo in quanto in ognuna di loro esistono, in varia misura, sia ossessioni che compulsioni. Del resto questi disturbi, così eterogenei tra loro, presentano vuoi dei pensieri intrusivi che il soggetto non vorrebbe avere, vuoi dei comportamenti ripetitivi e disturbanti che la persona si sente obbligata a mettere in atto, nonostante essa le critichi e si senta invasa da angoscia. E' interessante notare che tutte queste malattie rispondono, sostanzialmente, allo stesso trattamento farmacologico dei Disturbi Ossessivi Compulsivi (DOC) ove l'accoppiata inibitore del reuptake della serotonina più triciclico (in pratica Maveral più Anafranil) è in grado di guarire perfettamente i pazienti.
Un altro "spettro" in psichiatria è quello dei Disturbi Schizofrenici. Come noto la schizofrenia ( o meglio le malattie raggruppate sotto questo nome) è il grande problema della psichiatria, essendo la malattia più studiata e più controversa del secolo. Nel 1976 Kety introdusse il concetto di "spettro" avendo notato che i figli di genitori schizofrenici, adottati da non schizofrenici, sviluppavano la schizofrenia. In molti disturbi psicotici le alterazioni biochimiche, morfologiche e funzionali , nonché le determinanti genetiche, erano assai simili. Così si considerarono componenti dello "spettro" schizofrenico il Temperamento (tratti) Schizoide e Schizotipico, i Disturbi di Personalità Schizoide e Schizotipico, la Schizofrenia (simplex, disorganizzata, paranoide, indifferenziata, residua), il Distubo Schizoaffettivo, il Disturbo Psicotico Breve, il Disturbo Delirante (forme "atipiche").
Come per lo spettro dei Disturbi DOC anche qui la terapia con i nuovi neurolettici (la clozapina, l'olanzapina, la quetiapina, lo ziprasidone) si è dimostrata perfettamente in grado di combattere e prevenire ogni sintomo e ogni ricaduta apportando in tal modo un altro ed originale contributo, quello farmacologico ("ex juvantibus"), al concetto di "spettro" che è così convalidato.
LA NOSTRA MENTE
Tra i mali la tricotillomania, la cleptomania, il gioco d'azzardo patologico, l'esibizionismo, il feticismo, il voyeurismo
Le piccole-grandi patologie della vita quotidiana
Queste malattie rispondono, sostanzialmente, allo stesso trattamento farmacologico dei disturbi ossessivi compulsivi
Malattie diverse con radice comune: il concetto di "spettro"
Prof. dott. Antonio Augusto Rizzoli
In fisica "spettro" significa la distribuzione dell'intensità d' una radiazione in funzione dell'energia, della frequenza o di altre grandezze fisiche. Vi sono molte malattie psichiatriche che differiscono tra loro per intensità e ampiezza sintomatologica, ma che sembra abbiano radici comuni. Si è cercato, soprattutto con l'aiuto della genetica, di allineare queste malattie lungo un cosiddetto "spettro".
L'esempio più evidente viene da quello che viene chiamato "Spettro Ossessivo-Compulsivo" e che mette lungo un continuo malattie come le tricotillomania (il vezzo di strapparsi i capelli), la cleptomania, il gioco d'azzardo patologico, la piromania (quello, meno simpatico, di appiccare incendi), l'esibizionismo, il feticismo (l'essere eccitati sessualmente da cose), il voyeurismo (l'essere eccitati sessualmente dal poter ammirare, non visti, nudità altrui), l'anoressia e la bulimia, il dismorfismo corporeo, o quella malattia che fa erompere il soggetto, pieno di tic, soprattutto facciali, in esclamazioni oscene con agitazione psicomotoria e che prende il nome da quel neurologo francese dal nome proustiano di Georges Eduard Albert Brutus Gilles de La Tourette (1855-1909), che la descrisse per primo, entrando a vele spiegate in quell'Olimpo della neurologia, negato a molti. In queste malattie, così diverse, hanno un grande ruolo sia le ossessioni (il dover pensare a certe cose) che le compulsioni (il dover fare certe cose) che sono elementi sintomatologici tipici del cosiddetto Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC). E infatti queste malattie sono collegate e vicine al Disturbo Ossessivo Compulsivo in quanto in ognuna di loro esistono, in varia misura, sia ossessioni che compulsioni. Del resto questi disturbi, così eterogenei tra loro, presentano vuoi dei pensieri intrusivi che il soggetto non vorrebbe avere, vuoi dei comportamenti ripetitivi e disturbanti che la persona si sente obbligata a mettere in atto, nonostante essa le critichi e si senta invasa da angoscia. E' interessante notare che tutte queste malattie rispondono, sostanzialmente, allo stesso trattamento farmacologico dei Disturbi Ossessivi Compulsivi (DOC) ove l'accoppiata inibitore del reuptake della serotonina più triciclico (in pratica Maveral più Anafranil) è in grado di guarire perfettamente i pazienti.
Un altro "spettro" in psichiatria è quello dei Disturbi Schizofrenici. Come noto la schizofrenia ( o meglio le malattie raggruppate sotto questo nome) è il grande problema della psichiatria, essendo la malattia più studiata e più controversa del secolo. Nel 1976 Kety introdusse il concetto di "spettro" avendo notato che i figli di genitori schizofrenici, adottati da non schizofrenici, sviluppavano la schizofrenia. In molti disturbi psicotici le alterazioni biochimiche, morfologiche e funzionali , nonché le determinanti genetiche, erano assai simili. Così si considerarono componenti dello "spettro" schizofrenico il Temperamento (tratti) Schizoide e Schizotipico, i Disturbi di Personalità Schizoide e Schizotipico, la Schizofrenia (simplex, disorganizzata, paranoide, indifferenziata, residua), il Distubo Schizoaffettivo, il Disturbo Psicotico Breve, il Disturbo Delirante (forme "atipiche").
Come per lo spettro dei Disturbi DOC anche qui la terapia con i nuovi neurolettici (la clozapina, l'olanzapina, la quetiapina, lo ziprasidone) si è dimostrata perfettamente in grado di combattere e prevenire ogni sintomo e ogni ricaduta apportando in tal modo un altro ed originale contributo, quello farmacologico ("ex juvantibus"), al concetto di "spettro" che è così convalidato.
«Dal mondo egizio all´antica Grecia, ai romani per giungere fino al '900 di Musil»
Repubblica 23.7.03
NEL MITO DI ISIDE E DELLA TRASGRESSIONE
Perché la divinità femminile si impose su tutte le altre
Ecco la dea che sarebbe piaciuta a Hollywood
Nell´enfasi regale sposò il fratello Osiride
Il ritratto che ne fece Apuleio nelle Metamorfosi [l'Asino d'Oro ndr]
Un libro dedicato alla religione dei misteri la racconta nelle diverse epoche
Dal mondo egizio all´antica Grecia, ai romani per giungere fino al '900 di Musil
Una figura femminile tragica e moderna le cui gesta ci affascinano
di NADIA FUSINI
Il mondo del mito è per me un mondo materno, antico e confuso. Ha il tono leggendario della parola materna; in senso letterale, intendo. Mia madre racconta così del suo passato, in modo leggendario; vertigini del tempo si aprono nelle sue storie che mi lasciano come di fronte al mistero ammutolita. Se rimango stordita è perché non capisco se è proprio vero quello che racconta e tra le varie versioni dello stesso episodio non so mai a quale credere, se a quella che vuole che la bisnonna materna fosse fuggita dalle montagne tra Sansepolcro e Arezzo con un artista del circo, o se invece era la sorella della bisnonna e l´amante non era un acrobata, no, era il padrone del circo... E la nonna paterna, o la bisnonna, lei era russa, ma com´era finita in Maremma? Migrazioni di popoli? O di simboli? Pure fantasie? E perché proprio quelle? Di una cosa però sono certa riguardo a mia madre: c´è un contenuto di verità nei suoi racconti, e se non coincide con il loro contenuto di realtà, questo fatto li rende semmai più intriganti.
Non accade la stessa cosa coi personaggi del mito? Il racconto mitico non è in effetti né meno ombroso, né meno confuso. Prendete ad esempio la figura di Iside, le sue storie, o leggende: secondo alcuni Iside è figlia di Ermes, secondo altri è figlia di Prometeo. C´è chi la identifica con Cerere. Altri ancora sostengono che Osiride e Iside sono figli di Zeus e Era, dèi che appartengono a una specie di seconda repubblica, posteriore a quel rimodernamento del cielo che fu opera di Crono. In certe tradizioni, per la molteplicità dei suoi poteri, Iside è chiamata myrionima, e tra i molti nomi il primo è quello di Demetra. Ma è anche chiamata Core-Persefone-Proserpina. In uno dei quattro inni incisi sui pilastri ai lati dell´ingresso del santuario di Iside a Madinet Madi nel Faiyum la si definisce "inventrice di ogni vita." O "Iside salvatrice". In molte leggende la si paragona a Io. Tra gli animali la vacca le è sacra, e quindi intoccabile e perciò esclusa dal sacrificio. Alla dea si offrono piuttosto buoi. O tori e cervi. Ama la pecora, e perciò non si veste di lana: l´Iside di Nemi possedeva una vera e propria parure in puro lino: tunica e mantello, stola; la cintura era d´oro...
Il mistero di Iside lo racconta in modo mirabile il secondo volume sulle Religioni dei Misteri che la Fondazione Valla ha mandato alle stampe a cura di Paolo Scarpi (pagg. XLVII-616, euro 27). Nel primo (recensito su queste pagine da Salvatore Settis) la raccolta di testi, amplissima, e unica al mondo, delle Religioni dei misteri riguardava Eleusi, il dionisismo, l´orfismo. In questo volume Paolo Scarpi, con la collaborazione di Benedetta Rossignoli, raccoglie quanto c´è di conosciuto sui misteri di Samotracia e di Andania e sui misteri di epoca ellenistica e romana: Iside, Cibele e Attis, e il mitraismo. Ci muoviamo prima per mare, in quello che si chiama oggi Mar di Tracia, approdando in un´isola, al di là della quale per i Greci cominciava la barbarie. E´ un´isola straniera, con un´oscura lingua rituale, e dèi oscuri, che Erodoto chiamava Cabiri, che significherebbe "grandi"; il culto dei quali dèi prevedeva la forma dell´iniziazione e della contemplazione, come a Eleusi.
Poi ci ritroviamo in una piccola città della Messenia, nel cuore del Peloponneso, ad Andania. Con Iside dall´Egitto ci apriamo all´immenso mondo imperiale romano, perché i misteri di Iside ebbero una spettacolare fortuna, trasportando l´icona della dea a una fama hollywoodiana.
E´ in questa sezione dedicata a Iside (curata in modo impeccabile da Benedetta Rossignoli) che mi sono attardata condotta con mano ferma dall´eccellente studiosa. E così ho appreso che in origine, all´epoca dei faraoni, i rituali che vedevano come protagonisti Iside e Osiride erano legati al processo di successione dinastica. Si accompagnava così il trapasso nell´Aldilà del faraone e insieme si celebrava l´insediamento del nuovo signore d´Egitto. In origine, al centro del mito e del rito c'era il mistero del potere, e della vita e della morte e della sopravvivenza del potente. In altri termini, affinché con il terremoto della morte non vacillassero le fondamenta stesse della vita si immaginò una storia che vedeva in Iside la sorella - prima che la sposa di Osiride - la quale Iside sposando Osiride lo elevava al trono. Osiride, però, veniva ucciso dal fratello, che a sua volta veniva ucciso dal figlio di Iside e Osiride... L´enfasi sulla consanguineità era centrale nella teologia regale; si risolveva così, con il genos, il problema del passaggio; passaggio di potere, passaggio dalla vita alla morte.
Fu Tolomeo I a rivitalizzare il culto della divina coppia fraterna Iside-Osiride, al fine di ristabilire un nesso di continuità ideale tra le pratiche cultuali della tradizione faraonica e la politica dinastica dei Tolomei: il matrimonio tra Tolomeo II e la sorella Arsinoe, celebrato da Teocrito nell´Idillio 17, ne è esempio. Negli atteggiamenti esteriori e nell´esercizio del potere, Arsinoe anticipa le regine Cleopatra II e III, fino all´ultima discendente dei Lagidi, Cleopatra VII; rispetto a loro i detentori del potere di sesso maschile sono pallide controfigure. Cleopatra VII (tanto per intenderci, quella shakespeariana) vanterà la memoria di una discendenza diretta dalla prima sovrana d´Egitto, vale a dire Iside.
L´elemento fondamentale del rito di passaggio non sparisce nelle trasformazioni posteriori; rimane anzi fortemente impresso nelle successive riprese del mito, mentre lo sviluppo del corpus dottrinario religioso che si compie in età ellenistica è frutto del rimodellamento che trova la sua espressione più completa nell´esperienza narrata da Apuleio nell´undicesimo libro delle Metamorfosi.
Per Apuleio Iside Regina è soprattutto madre, soccorritrice; con tale titolo la invocano gli iniziati ai suoi misteri. E per tali accenti col tempo la pratica cultuale dedicata alla dea subirà una evoluzione in senso cristiano: il suo ruolo di madre in età tardo-antica è avvertito come anticipazione delle prerogative fondamentali della figura mariana. Frequente in età ellenistico-romana sarà la raffigurazione della dea in trono che allatta Oro e proprio questo tipo iconografico produrrà una forma di sincretismo cultuale tra Iside e Maria.
E´, ripeto, in Apuleio - nel più bel romanzo dell´antichità che porta la sua firma: le Metamorfosi o L´asino d´oro - che si documenta appieno la tendenza universalistica che il culto isaico ha ormai assunto, a testimonianza del processo di assimilazione e sovrapposizione intercorso tra Iside e le diverse figure femminili del mondo mediterraneo. Iside è la dea panthea, assimilata e sovrapposta per identità di funzioni e per sfere di competenza ad altre divinità femminili variamente distribuite nel panorama geografico antico dalla Grande Madre frigia di Pessinunte a Ecate, passando per Persefone e Demetra. Nello stesso tempo rimane numen unicum, superiore alle altre dee.
Il vero nome di questa grande divinità è Iside regina, e con tale nome Lucio prega l´essenza divina della realtà tutta al termine della sua metamorfosi; sì, proprio lei, la sorella e sposa del re Osiride, sulla quale in origine si fondava il principio della regalità egiziana, ora è soprattutto madre. Madre della realtà: «Io degli dèi e delle dee rappresento l´aspetto uniforme e col mio cenno governo i culmini radiosi del cielo, i salubri venti del mare, i silenzi carichi di pianto degli Inferi» - così parla Iside, in Apuleio.
Via via leggendo le testimonianze raccolte con acribìa da Benedetta Rossignoli si ha la conferma dell´indeterminazione, dell´inafferrabilità, dell´evanescenza dei misteri. E´ qui che i misteri somigliano ai racconti di mia madre. La tradizione, v´è chi ha detto, è anche e soprattutto tradimento, e sullo sfondo dei misteri di Iside chi abbia l´orecchio iniziato non può non avvertire l'affiorare di un fraintendimento greco e poi greco-romano dei complessi mitico-rituali altri, stranieri; e straniero è l´Egitto. Per non parlare del fraintendimento degli autori cristiani.
Ed è qui che io - educata come sono a pensare che la vera natura di qualcosa coesiste con la sua propria origine, sì che per conoscerne l´essenza si deve riandare alla sua origine; fervida credente nel legame tra Wesen e Ursprung - mi sono detta: ma qual è il gesto di Iside, in origine? Quale il gesto - anzi, l´azione vera e propria, l´atto drammatico che le è proprio?
Iside era la sorella di Osiride e sua sposa. Alla morte di Osiride, per mano del suo Caino, che cosa fa Iside? Vaga alla ricerca del cadavere del fratello-sposo. La sua ricerca straziante fa dire a Erodoto: «Iside nella lingua greca è Demetra». Così Erodoto coglie la somiglianza dell´azione tra le due figure, Demetra in cerca della figlia, Iside del fratello. Ma Iside somiglia a Demetra, quanto somiglia ad Antigone. O se somiglia alla madre, è perché della madre, ma in quanto sorella e sposa, ripete quel gesto fondante dell´identità della creatura vivente che è la restituzione del corps morcelé all´intero dell´immagine. Atto che secondo Lacan pertiene allo sguardo materno in quella "fase dello specchio" assolutamente centrale allo sviluppo umano.
A ognuno dei pezzi del corps morcelé di Osiride Iside diede sepoltura, moltiplicando cenotafi sul corpo del mondo: questo il suo gesto salvifico. Iside raccoglie il corpo spezzettato del fratello-sposo. «L´unico resto di Osiride che Iside non trovò fu il suo membro virile; era stato, infatti, immediatamente gettato nel fiume e mangiato dal lepidoto, dal fagro e dall´ossirinco, che tra i pesci sono, per gli Egiziani, le creature più aborrite. Ma Iside fece una riproduzione in sostituzione dell´organo genitale e consacrò il fallo, e in suo onore gli Egiziani celebrano ancora oggi una festa», racconta Plutarco.
E´ interessante allora osservare come questo "tipo-femmina" (per riprendere un´espressione della sapiente Lou Andreas Salomé, donna particolarmente versata nella conoscenza dei misteri femminili), il tipo, cioè, della "sorella-sposa" venga progressivamente oscurato dal tipo "materno", la sposa che si fa madre e in quanto madre protegge, conserva, raccoglie. E non a caso proprio Lou Andreas-Salomé (lei che si volle sorella e sposa degli uomini che amò, tra gli altri Nietzsche) in un suo scritto che uscì nel 1914 su Imago col titolo Zum Typus Weib, accenna a un "narciso femminile" che si realizzerebbe per certe donne nell´amore fraterno, o sororale per l´uomo. Iside, mi chiedo, non potrebbe essere il "tipo" di questo amore fraterno incestuoso?
Di questo amore potrei fare vari esempi d´epoca moderna. Giovanni e Annabella in «Peccato che fosse puttana» di John Ford è il primo che mi viene in mente. Siamo in Inghilterra in epoca post-shakespeariana, e per un drammaturgo non è facile sopravvivere; sopravvivere, intendo, alla morte di Shakespeare. E cosa fa Ford? Volendo raccontare la storia di un amore impossibile, non scrive la patetica storia di Romeo e Giulietta, divisi per via dell´odio familiare. Scrive, invece, la cruenta tragedia di due giovani che si amano e congiungono nel più tabuico degli amori, perché sono fratello e sorella. E sapete come si discolpa il libertino Giovanni? Dice che proprio perché sono fratello e sorella si devono amare, così è stato deciso nel grembo materno. Pare di sentire Plutarco - che dopo tutto era conosciuto in Inghilterra - quando afferma: «Iside e Osiride, da parte loro, si amavano e la loro unione si compì prima ancora della nascita, nel buio del ventre materno». Un altro esempio è la coppia Tom e Maggie de Il mulino sulla Floss. Siamo nell´Ottocento e la colta, coltissima George Eliot - donna emancipata quante altre mai ai tempi - con tutte le storie che si può inventare, che cosa va a raccontare? L´amore incestuoso, con tragico annegamento, di un fratello e una sorella, la quale muore per salvare il fratello che muore con lei.
Né meno interessante è osservare che tipo di miti (nel senso proprio di storie, di trame) vanno a cercare nel Novecento uomini alla ricerca dell´ "altro stato", uomini votati al "possibile" - uomini come Musil, voglio dire. Il racconto umano quasi sempre prevede padri e figli, come insegnano Aristotele e Freud, ma se ci sono com´è naturale padri e figli in Kakania, nell´uomo senza qualità i figli non combattono i padri. Anzi, Ulrich proclama il proprio amore per il padre. Non ha gelosia. E´ Oreste. E va a cercare la sua Elettra, che si chiama Agathe.
Ma la faccia nascosta di Oreste è quella di Narciso. Oreste è preoccupato di ritrovare la sorella maggiore Elettra e di unirsi a lei, come Narciso alla propria immagine. Narciso non vuole né uccidere suo padre, né giacere con sua madre, vuole non essere figlio di nessuno, essere solo con se stesso, costituire la propria origine.
Cioè a dire, in epoca moderna, la legge della coppia incestuosa è mortifera. Sterile. Più si avvicinano, più il fratello e la sorella si ritrovano soli. Il frutto della fraternità è il vuoto, la solitudine. Mentre l´unione di Iside e Osiride era fruttuosa. Ma a quei tempi e in quei luoghi, come racconta Diodoro Siculo: «La legislazione contemplava il matrimonio tra fratelli per il successo ottenuto da Iside; costei, infatti, sposò il fratello Osiride e dopo la sua morte fece voto con un giuramento di non accettare altra unione coniugale, vendicò l´assassinio del compagno e regnò trascorrendo il resto della sua vita nel più assoluto rispetto delle leggi, divenendo motivo dei più grandi e numerosi benefici per tutti gli uomini». Chissà se era l´Egitto il nuovo regno che Ulrich e Agathe volevano fondare?
NEL MITO DI ISIDE E DELLA TRASGRESSIONE
Perché la divinità femminile si impose su tutte le altre
Ecco la dea che sarebbe piaciuta a Hollywood
Nell´enfasi regale sposò il fratello Osiride
Il ritratto che ne fece Apuleio nelle Metamorfosi [l'Asino d'Oro ndr]
Un libro dedicato alla religione dei misteri la racconta nelle diverse epoche
Dal mondo egizio all´antica Grecia, ai romani per giungere fino al '900 di Musil
Una figura femminile tragica e moderna le cui gesta ci affascinano
di NADIA FUSINI
Il mondo del mito è per me un mondo materno, antico e confuso. Ha il tono leggendario della parola materna; in senso letterale, intendo. Mia madre racconta così del suo passato, in modo leggendario; vertigini del tempo si aprono nelle sue storie che mi lasciano come di fronte al mistero ammutolita. Se rimango stordita è perché non capisco se è proprio vero quello che racconta e tra le varie versioni dello stesso episodio non so mai a quale credere, se a quella che vuole che la bisnonna materna fosse fuggita dalle montagne tra Sansepolcro e Arezzo con un artista del circo, o se invece era la sorella della bisnonna e l´amante non era un acrobata, no, era il padrone del circo... E la nonna paterna, o la bisnonna, lei era russa, ma com´era finita in Maremma? Migrazioni di popoli? O di simboli? Pure fantasie? E perché proprio quelle? Di una cosa però sono certa riguardo a mia madre: c´è un contenuto di verità nei suoi racconti, e se non coincide con il loro contenuto di realtà, questo fatto li rende semmai più intriganti.
Non accade la stessa cosa coi personaggi del mito? Il racconto mitico non è in effetti né meno ombroso, né meno confuso. Prendete ad esempio la figura di Iside, le sue storie, o leggende: secondo alcuni Iside è figlia di Ermes, secondo altri è figlia di Prometeo. C´è chi la identifica con Cerere. Altri ancora sostengono che Osiride e Iside sono figli di Zeus e Era, dèi che appartengono a una specie di seconda repubblica, posteriore a quel rimodernamento del cielo che fu opera di Crono. In certe tradizioni, per la molteplicità dei suoi poteri, Iside è chiamata myrionima, e tra i molti nomi il primo è quello di Demetra. Ma è anche chiamata Core-Persefone-Proserpina. In uno dei quattro inni incisi sui pilastri ai lati dell´ingresso del santuario di Iside a Madinet Madi nel Faiyum la si definisce "inventrice di ogni vita." O "Iside salvatrice". In molte leggende la si paragona a Io. Tra gli animali la vacca le è sacra, e quindi intoccabile e perciò esclusa dal sacrificio. Alla dea si offrono piuttosto buoi. O tori e cervi. Ama la pecora, e perciò non si veste di lana: l´Iside di Nemi possedeva una vera e propria parure in puro lino: tunica e mantello, stola; la cintura era d´oro...
Il mistero di Iside lo racconta in modo mirabile il secondo volume sulle Religioni dei Misteri che la Fondazione Valla ha mandato alle stampe a cura di Paolo Scarpi (pagg. XLVII-616, euro 27). Nel primo (recensito su queste pagine da Salvatore Settis) la raccolta di testi, amplissima, e unica al mondo, delle Religioni dei misteri riguardava Eleusi, il dionisismo, l´orfismo. In questo volume Paolo Scarpi, con la collaborazione di Benedetta Rossignoli, raccoglie quanto c´è di conosciuto sui misteri di Samotracia e di Andania e sui misteri di epoca ellenistica e romana: Iside, Cibele e Attis, e il mitraismo. Ci muoviamo prima per mare, in quello che si chiama oggi Mar di Tracia, approdando in un´isola, al di là della quale per i Greci cominciava la barbarie. E´ un´isola straniera, con un´oscura lingua rituale, e dèi oscuri, che Erodoto chiamava Cabiri, che significherebbe "grandi"; il culto dei quali dèi prevedeva la forma dell´iniziazione e della contemplazione, come a Eleusi.
Poi ci ritroviamo in una piccola città della Messenia, nel cuore del Peloponneso, ad Andania. Con Iside dall´Egitto ci apriamo all´immenso mondo imperiale romano, perché i misteri di Iside ebbero una spettacolare fortuna, trasportando l´icona della dea a una fama hollywoodiana.
E´ in questa sezione dedicata a Iside (curata in modo impeccabile da Benedetta Rossignoli) che mi sono attardata condotta con mano ferma dall´eccellente studiosa. E così ho appreso che in origine, all´epoca dei faraoni, i rituali che vedevano come protagonisti Iside e Osiride erano legati al processo di successione dinastica. Si accompagnava così il trapasso nell´Aldilà del faraone e insieme si celebrava l´insediamento del nuovo signore d´Egitto. In origine, al centro del mito e del rito c'era il mistero del potere, e della vita e della morte e della sopravvivenza del potente. In altri termini, affinché con il terremoto della morte non vacillassero le fondamenta stesse della vita si immaginò una storia che vedeva in Iside la sorella - prima che la sposa di Osiride - la quale Iside sposando Osiride lo elevava al trono. Osiride, però, veniva ucciso dal fratello, che a sua volta veniva ucciso dal figlio di Iside e Osiride... L´enfasi sulla consanguineità era centrale nella teologia regale; si risolveva così, con il genos, il problema del passaggio; passaggio di potere, passaggio dalla vita alla morte.
Fu Tolomeo I a rivitalizzare il culto della divina coppia fraterna Iside-Osiride, al fine di ristabilire un nesso di continuità ideale tra le pratiche cultuali della tradizione faraonica e la politica dinastica dei Tolomei: il matrimonio tra Tolomeo II e la sorella Arsinoe, celebrato da Teocrito nell´Idillio 17, ne è esempio. Negli atteggiamenti esteriori e nell´esercizio del potere, Arsinoe anticipa le regine Cleopatra II e III, fino all´ultima discendente dei Lagidi, Cleopatra VII; rispetto a loro i detentori del potere di sesso maschile sono pallide controfigure. Cleopatra VII (tanto per intenderci, quella shakespeariana) vanterà la memoria di una discendenza diretta dalla prima sovrana d´Egitto, vale a dire Iside.
L´elemento fondamentale del rito di passaggio non sparisce nelle trasformazioni posteriori; rimane anzi fortemente impresso nelle successive riprese del mito, mentre lo sviluppo del corpus dottrinario religioso che si compie in età ellenistica è frutto del rimodellamento che trova la sua espressione più completa nell´esperienza narrata da Apuleio nell´undicesimo libro delle Metamorfosi.
Per Apuleio Iside Regina è soprattutto madre, soccorritrice; con tale titolo la invocano gli iniziati ai suoi misteri. E per tali accenti col tempo la pratica cultuale dedicata alla dea subirà una evoluzione in senso cristiano: il suo ruolo di madre in età tardo-antica è avvertito come anticipazione delle prerogative fondamentali della figura mariana. Frequente in età ellenistico-romana sarà la raffigurazione della dea in trono che allatta Oro e proprio questo tipo iconografico produrrà una forma di sincretismo cultuale tra Iside e Maria.
E´, ripeto, in Apuleio - nel più bel romanzo dell´antichità che porta la sua firma: le Metamorfosi o L´asino d´oro - che si documenta appieno la tendenza universalistica che il culto isaico ha ormai assunto, a testimonianza del processo di assimilazione e sovrapposizione intercorso tra Iside e le diverse figure femminili del mondo mediterraneo. Iside è la dea panthea, assimilata e sovrapposta per identità di funzioni e per sfere di competenza ad altre divinità femminili variamente distribuite nel panorama geografico antico dalla Grande Madre frigia di Pessinunte a Ecate, passando per Persefone e Demetra. Nello stesso tempo rimane numen unicum, superiore alle altre dee.
Il vero nome di questa grande divinità è Iside regina, e con tale nome Lucio prega l´essenza divina della realtà tutta al termine della sua metamorfosi; sì, proprio lei, la sorella e sposa del re Osiride, sulla quale in origine si fondava il principio della regalità egiziana, ora è soprattutto madre. Madre della realtà: «Io degli dèi e delle dee rappresento l´aspetto uniforme e col mio cenno governo i culmini radiosi del cielo, i salubri venti del mare, i silenzi carichi di pianto degli Inferi» - così parla Iside, in Apuleio.
Via via leggendo le testimonianze raccolte con acribìa da Benedetta Rossignoli si ha la conferma dell´indeterminazione, dell´inafferrabilità, dell´evanescenza dei misteri. E´ qui che i misteri somigliano ai racconti di mia madre. La tradizione, v´è chi ha detto, è anche e soprattutto tradimento, e sullo sfondo dei misteri di Iside chi abbia l´orecchio iniziato non può non avvertire l'affiorare di un fraintendimento greco e poi greco-romano dei complessi mitico-rituali altri, stranieri; e straniero è l´Egitto. Per non parlare del fraintendimento degli autori cristiani.
Ed è qui che io - educata come sono a pensare che la vera natura di qualcosa coesiste con la sua propria origine, sì che per conoscerne l´essenza si deve riandare alla sua origine; fervida credente nel legame tra Wesen e Ursprung - mi sono detta: ma qual è il gesto di Iside, in origine? Quale il gesto - anzi, l´azione vera e propria, l´atto drammatico che le è proprio?
Iside era la sorella di Osiride e sua sposa. Alla morte di Osiride, per mano del suo Caino, che cosa fa Iside? Vaga alla ricerca del cadavere del fratello-sposo. La sua ricerca straziante fa dire a Erodoto: «Iside nella lingua greca è Demetra». Così Erodoto coglie la somiglianza dell´azione tra le due figure, Demetra in cerca della figlia, Iside del fratello. Ma Iside somiglia a Demetra, quanto somiglia ad Antigone. O se somiglia alla madre, è perché della madre, ma in quanto sorella e sposa, ripete quel gesto fondante dell´identità della creatura vivente che è la restituzione del corps morcelé all´intero dell´immagine. Atto che secondo Lacan pertiene allo sguardo materno in quella "fase dello specchio" assolutamente centrale allo sviluppo umano.
A ognuno dei pezzi del corps morcelé di Osiride Iside diede sepoltura, moltiplicando cenotafi sul corpo del mondo: questo il suo gesto salvifico. Iside raccoglie il corpo spezzettato del fratello-sposo. «L´unico resto di Osiride che Iside non trovò fu il suo membro virile; era stato, infatti, immediatamente gettato nel fiume e mangiato dal lepidoto, dal fagro e dall´ossirinco, che tra i pesci sono, per gli Egiziani, le creature più aborrite. Ma Iside fece una riproduzione in sostituzione dell´organo genitale e consacrò il fallo, e in suo onore gli Egiziani celebrano ancora oggi una festa», racconta Plutarco.
E´ interessante allora osservare come questo "tipo-femmina" (per riprendere un´espressione della sapiente Lou Andreas Salomé, donna particolarmente versata nella conoscenza dei misteri femminili), il tipo, cioè, della "sorella-sposa" venga progressivamente oscurato dal tipo "materno", la sposa che si fa madre e in quanto madre protegge, conserva, raccoglie. E non a caso proprio Lou Andreas-Salomé (lei che si volle sorella e sposa degli uomini che amò, tra gli altri Nietzsche) in un suo scritto che uscì nel 1914 su Imago col titolo Zum Typus Weib, accenna a un "narciso femminile" che si realizzerebbe per certe donne nell´amore fraterno, o sororale per l´uomo. Iside, mi chiedo, non potrebbe essere il "tipo" di questo amore fraterno incestuoso?
Di questo amore potrei fare vari esempi d´epoca moderna. Giovanni e Annabella in «Peccato che fosse puttana» di John Ford è il primo che mi viene in mente. Siamo in Inghilterra in epoca post-shakespeariana, e per un drammaturgo non è facile sopravvivere; sopravvivere, intendo, alla morte di Shakespeare. E cosa fa Ford? Volendo raccontare la storia di un amore impossibile, non scrive la patetica storia di Romeo e Giulietta, divisi per via dell´odio familiare. Scrive, invece, la cruenta tragedia di due giovani che si amano e congiungono nel più tabuico degli amori, perché sono fratello e sorella. E sapete come si discolpa il libertino Giovanni? Dice che proprio perché sono fratello e sorella si devono amare, così è stato deciso nel grembo materno. Pare di sentire Plutarco - che dopo tutto era conosciuto in Inghilterra - quando afferma: «Iside e Osiride, da parte loro, si amavano e la loro unione si compì prima ancora della nascita, nel buio del ventre materno». Un altro esempio è la coppia Tom e Maggie de Il mulino sulla Floss. Siamo nell´Ottocento e la colta, coltissima George Eliot - donna emancipata quante altre mai ai tempi - con tutte le storie che si può inventare, che cosa va a raccontare? L´amore incestuoso, con tragico annegamento, di un fratello e una sorella, la quale muore per salvare il fratello che muore con lei.
Né meno interessante è osservare che tipo di miti (nel senso proprio di storie, di trame) vanno a cercare nel Novecento uomini alla ricerca dell´ "altro stato", uomini votati al "possibile" - uomini come Musil, voglio dire. Il racconto umano quasi sempre prevede padri e figli, come insegnano Aristotele e Freud, ma se ci sono com´è naturale padri e figli in Kakania, nell´uomo senza qualità i figli non combattono i padri. Anzi, Ulrich proclama il proprio amore per il padre. Non ha gelosia. E´ Oreste. E va a cercare la sua Elettra, che si chiama Agathe.
Ma la faccia nascosta di Oreste è quella di Narciso. Oreste è preoccupato di ritrovare la sorella maggiore Elettra e di unirsi a lei, come Narciso alla propria immagine. Narciso non vuole né uccidere suo padre, né giacere con sua madre, vuole non essere figlio di nessuno, essere solo con se stesso, costituire la propria origine.
Cioè a dire, in epoca moderna, la legge della coppia incestuosa è mortifera. Sterile. Più si avvicinano, più il fratello e la sorella si ritrovano soli. Il frutto della fraternità è il vuoto, la solitudine. Mentre l´unione di Iside e Osiride era fruttuosa. Ma a quei tempi e in quei luoghi, come racconta Diodoro Siculo: «La legislazione contemplava il matrimonio tra fratelli per il successo ottenuto da Iside; costei, infatti, sposò il fratello Osiride e dopo la sua morte fece voto con un giuramento di non accettare altra unione coniugale, vendicò l´assassinio del compagno e regnò trascorrendo il resto della sua vita nel più assoluto rispetto delle leggi, divenendo motivo dei più grandi e numerosi benefici per tutti gli uomini». Chissà se era l´Egitto il nuovo regno che Ulrich e Agathe volevano fondare?
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