domenica 13 marzo 2005

la storia dell'India

Domani con il «Corriere» la «Storia dell’India» di Michelguglielmo Torri, con una presentazione di Ettore Mo
Il Paese di Gandhi riconquista il suo passato
di GIORGIO MILANETTI
Docente di Storia dell’India moderna e contemporanea, Università «La Sapienza» di Roma

Tra i pregiudizi che riguardano l’India ce n’è uno, assai radicato, secondo il quale la civiltà indiana, da sola, non ha mai prodotto una vera storiografia. Non è un’opinione recente. Se ne lamentava già lo studioso musulmano al-Biruni, che visitò l’India intorno all’anno 1000. Più tardi, nel periodo coloniale, questa presunta lacuna fu presentata, assieme a tante altre, come dimostrazione della superiorità dell’Occidente e, dunque, della sua idoneità a dominare e persino a educare il sub-continente. È pur vero che le prime date certe della storia indiana, secondo la cronologia occidentale, coincidono con la spedizione di Alessandro Magno. Persino il periodo della vita del Buddha, che viene preso come base per ulteriori datazioni, è ancora avvolto da dubbi. Bisogna dunque concordare con quei pareri? O si deve invece nutrire il sospetto che, se nell’India antica e medievale non si trova la «storia», è perché si cerca una cosa sbagliata?
Allarghiamo l’esame alla geografia, un altro campo in cui le pretese della scienza occidentale rimangono ampiamente deluse: nelle più antiche raccolte di testi, i Veda , i nomi di luoghi sono rarissimi. Dei fiumi e delle montagne si parla in modo generico o convenzionale. È evidente che le genti seminomadi di lingua indo-aria che composero queste opere, privilegiavano il movimento: un’estensione di terra, desha , è innanzitutto una direzione, dish ; lo spazio fisso, destinato allo stanziamento, è dominio di Yama, il signore della morte. Ne risulta un mondo fatto di forze, e non di oggetti, nel quale l’elemento fisso, singolare, localizzato, non suscita interesse. Un mondo in cui, come ha ben scritto Michel Angot in un recente articolo, vige «il primato della relazione su ciò che è messo in relazione», perché solo da questa relazione, e dai rituali che la istituiscono, gli uomini possono comprendere l’autentico senso delle cose.
Per la storia si può fare lo stesso discorso. La delimitazione del tempo, la sua scansione cronologica, in quanto successione di singoli eventi, non conferisce senso. Il tempo lineare, kala , al pari dello spazio fisso, è dominio, e persino sinonimo, della morte. Per questa ragione la «storia» che l’India si racconta non corrisponde a quella che noi in genere cerchiamo: come aveva già intuito Heinrich Heine, la memoria dell’India antica sono i suoi immensi poemi. Inserita in queste opere, all’interno di un quadro narrativo estremamente complesso, eppure coerente fino al dettaglio, ecco che la storia moltiplica i propri significati: è al tempo stesso mito e repertorio enciclopedico, epos e fondamento delle istituzioni sociali, emozione poetica e persino riflessione su se stessa. Ma la scienza occidentale, che non aveva gli strumenti per dipanare questa complessità, preferì affermare, con Hegel, che l’elemento indiano è oscuramente preistorico, o, con Ranke, che la cultura indiana è primitiva.
Nei due secoli del periodo coloniale, alcuni tra i migliori ingegni occidentali si preoccuparono di far uscire l’India da questa preistoria. Per compiere l’impresa, presero a scavare siti abbandonati e a decifrare testi dimenticati, ad analizzare lingue e religioni i cui nomi e le cui identità erano spesso creati dal processo stesso di analisi, a ricostruire cronologie dove cronologie non c’erano perché non erano mai servite. Impadronitosi del monopolio del sapere, l’Occidente lo impose, manu militari , come ermeneutica del «vero spirito» del Paese. Tutto ciò che non si conformava, snaturandosi, ai nuovi standard e alle nuove categorie, veniva marginalizzato, come le forme di istruzione tradizionale, o persino criminalizzato, come la danza. Emblema di questo sapere gerarchico e divisivo, le relazioni censuarie, dove tutto, dalle professioni ai misteri spirituali, doveva trovare posto in una riga, una colonna, una casella.
La storiografia nazionalista, figlia di tre concetti impiantati in India dai colonizzatori - quelli di storia, nazione e nazionalismo - non fece altro che adattare il medesimo processo alle esigenze delle nuove élite indigene. Anch’essa separò, categorizzò, stabilì primati e gerarchie. Prima dell’indipendenza, contribuì a legittimare l’ascesa delle classi che aspiravano a prendere il posto dei colonizzatori, e non fu estranea alla genesi dei massacri di hindu e musulmani a cavallo del 1947. Dopo quella data, continuò a escludere dalla lettura del processo di costruzione nazionale le classi subalterne e intermedie, le popolazioni tribali, le donne, la sterminata massa della gente comune.
Oggi, a questi limiti interni, si aggiungono quelli esterni: nell’era della mondializzazione, nessuna storia nazionale, da sola, appare idonea a spiegare, a dare senso. Le tendenze più recenti riscoprono l’ambito locale o regionale; compaiono eccellenti studi trasversali, come la storia agraria dell’Asia meridionale di David Ludden. Si tenta di tracciare schemi unificanti interdisciplinari, si utilizzano metodologie non convenzionali e materiali inconcepibili per lo storico tradizionale, quali la letteratura, il patrimonio orale, le arti e le tradizioni popolari, il cinema. La memoria torna finalmente ad assomigliare più a un poema che a una cronaca dinastica.