domenica 13 marzo 2005

l'ultimo Sartre

Corriere della Sera 13.3.05
Le confessioni definitive su vita e politica fatte al segretario Benny Lévy.

E l’ostinata esplorazione dei limiti della «buona convivenza liberale»
Gli ultimi giorni di Sartre, nemico della democrazia
NEL MIRINO

È trascorso esattamente un quarto di secolo da quando, sul Nouvel Observateur del 10 marzo 1980, Jean-Paul Sartre pubblicò il primo dei tre dialoghi intitolati L’espoir, maintenant... che di lì a poco - dopo la morte del filosofo, il 15 maggio di quell’anno - avrebbero assunto il valore di suo testamento spirituale. Intervista lunga e memorabile, che Luciano Canfora ha avuto modo di evocare nel suo pugnace intervento sul Corriere della Sera a proposito dei «fratelli nemici» Sartre ed Aron. Peccato che anche agli studiosi più attenti càpiti talvolta di sbagliarsi. Così, è successo a Canfora di non riconoscere chi era l’interlocutore di Sartre in quella famosa intervista, lo sparring partner del filosofo nella sua estrema riflessione intorno ai grandi temi della sua vita filosofica: l’essere e il nulla, la responsabilità e la scelta, la libertà e il comunismo, la fraternità e la violenza.
Secondo Canfora, sarebbe rivelatore del percorso che Sartre aveva compiuto negli ultimi decenni - da «compagno di strada» del Partito comunista francese ad alfiere dell’anticomunismo libertario - il fatto che il suo intervistatore del 1980 fosse Bernard-Henri Lévy, «il cui anticomunismo è notoriamente a prova di bomba». Il problema è che Bernard-Henri Lévy non era affatto l’autore di quell’intervista! La quale risultò dal dialogo di Sartre con un altro Lévy, che di nome faceva Benny. E che era per lui molto più di un interlocutore giornalistico, poiché da qualche anno gli serviva da segretario (l’anziano filosofo era quasi completamente cieco) nonché, in qualche modo, da alter ego esistenziale. Di più: da figlio adottivo, per un Sartre che non aveva avuto figli naturali e che da sempre (aveva perso il padre da neonato) si interrogava appassionatamente sul significato della paternità.
Oltre i confini della biografia sartriana, la confusione tra l’uno e l’altro Lévy non meriterebbe neppure di essere rilevata, se non fosse che il vero Lévy di quel dialogo - Benny - rappresentava allora, nel demi-monde della Rive Gauche parigina, un personaggio per molti aspetti più noto e più significativo di Bernard-Henri. Ebreo egiziano naturalizzato francese, allievo di Althusser all’École Normale, dopo il Sessantotto Benny Lévy era stato - sotto lo pseudonimo di Pierre Victor - non solo un fondatore della Gauche prolétarienne, ma la testa pensante del maoismo transalpino. E nel 1974 aveva firmato con Sartre, per le edizioni Gallimard, un altro dialogo in pubblico che aveva fatto grande scalpore, significativamente intitolato On a raison de se révolter .
Almeno per la nostra sensibilità di lettori odierni, quest’ultimo testo (un libro di oltre trecento pagine) complica assai il ritratto «buonista» del filosofo da vecchio - quasi il santino di un Sartre combattente di ogni buona causa - tratteggiato da Canfora in polemica con Pierluigi Battista. Ad apertura di pagina, si ritrovano infatti nelle parole del filosofo i luoghi comuni più vieti del peggiore gauchismo. «Il suffragio universale è un’astuzia del potere borghese per sostituire una legalità alla legittimità dei movimenti popolari e della democrazia diretta». La vera priorità del buon rivoluzionario consiste nel «rigetto via via più radicale di qualunque obbligo imposto all’individuo da una classe che non è la sua». Il maoismo vale più del trotzkismo perché i maoisti si fanno beffe della «commedia elettorale», e sono gli unici militanti della sinistra a porsi «sul piano della completa illegalità», eccetera. In compenso, Sartre taceva a proposito del tema più delicato per il movimento rivoluzionario di quegli anni: la questione della violenza politica e del suo nesso con le pratiche terroristiche.
È un silenzio che venne meno sei anni dopo, nell’intervista-testamento con Benny Lévy sul Nouvel Observateur . E Canfora è lettore di testi troppo acuto perché si possa rimproverargli di avere equivocato sul messaggio di questo postremo dialogo in pubblico, la cui seconda puntata ruotava finalmente intorno al tema ineludibile e decisivo, Violence et fraternité . Con una franchezza tanto più lodevole in quanto rimediava alle reticenze del ’74, il Sartre del 1980 riconobbe apertamente il primato morale della fraternità sulla violenza, all’insegna di un umanesimo assoluto: «Quando vedo un uomo, penso: ha la mia stessa origine, discende come me dalla madre-umanità».
Peraltro, nell’ultimissimo Sartre l’(auto)critica rispetto alla cultura gauchista del conflitto non si traduceva per nulla in un elogio della buona convivenza liberale. In particolare - alla consapevole vigilia della propria morte - Sartre si mostrava impaziente di procedere più avanti possibile sulla strada di una critica ab ovo della democrazia moderna: non soltanto del suffragio universale o del sistema dei partiti, ma della categoria essenziale di sovranità popolare, quale la Rivoluzione francese l’aveva trasmessa alla posterità. A sentir lui, la polverizzazione del popolo sovrano, l’individualizzazione sempre più spinta delle vite umane nella società contemporanea, renderebbero il sacro gesto della democrazia - l’esercizio del diritto di voto - poco più che un rito privato, dunque un simulacro liturgico della presunta volontà generale.
Inutile negare l’evidenza: sino alla fine, Sartre è stato un pensatore fondamentalmente antidemocratico. Resta semmai da chiedersi - a fronte del disagio, oggi diffuso in Occidente, per il cattivo funzionamento della democrazia rappresentativa - se proprio nell’ostinata esplorazione dei limiti intrinseci al concetto di rappresentanza politica non risieda l’elemento più vitale del pensiero di Sartre, la ragione migliore della sua persistente e dispettosa attualità.