Liberazione 12.1.05
OMAR, ERIKA: LA PIETÀ, LA VENDETTA
di Maria Rosa Cutrufelli
Il mito narra che quando Edipo seppe di aver ucciso il padre (seppure involontariamente), si accecò. È forse qualcosa di istintivo: chiudere gli occhi, rifiutarsi di "vedere" l'inconcepibile, di riconoscere il gesto tremendo della propria mano che si leva sul padre o sulla madre. In questo senso, era cieca Erika Di Nardo, l'assassina di Novi Ligure, la ragazza che, dopo aver massacrato a coltellate la madre e il fratellino con la complicità di Mauro Favaro (detto Omar dagli amici), si presentò al processo con un atteggiamento di narcisistica spavalderia che turbò giornalisti e opinione pubblica. Tutti la spiavano, in quei giorni. Tutti aspettavano, con un'ansia morbosa da giustizieri, il momento del crollo. E lei pianse, finalmente. Pianse quando il giudice pronunciò la sentenza del tribunale, sedici anni di carcere: come se soltanto la condanna avesse il potere di riportarla alla realtà, di farle vedere ciò che fino a quel momento nona veva voluto o non era stata in grado di vedere.
Molti, allora, giudicarono troppo mite quella condanna. Miriam Mafai parlò invece di una sentenza "equa" esoprattutto "ragionevole", che non elargiva semplicemente una pena ma dava ai due ragazzi la possibilità di elaborare la colpa e la responsabilità personale. Perché era cieca Erika ma siamo ciechi anche noi, è cieca la società tutta quando, di fronte a fatti cosi tragici ed estremi, decide di farsi guidare esclusivamente da una logica di punizione e annientamento. Come se, sparito il colpevole nella lontananza oscura e "altra" del carcere, sparisse per sempre dal mondo - dal nostro mondo quotidiano - anche la possibilità di quella colpa, del ripetersi di quel gesto in altri luoghi e con altri "attori".
Il caso di Novi Ligure suscitò tanta impressione anche per la sua apparente gratuità. Non c'era un movente chiaro, subito comprensibile. Non c'era di mezzo il denaro, come in altri casi. Non era stato il desiderio d'impadronirsi dei soldi o dei beni dei genitori a scatenare la furia omicida. La volontà di distruzione sembrava scaturire dall'interno stesso dei rapporti familiari, dal cuore tranquillo di una famiglia normale, da piccoli litigi, da divieti banali. E questo era terrorizzante, perché chiamava in causa ciascuno di noi, perché toccava qualcosa di ambiguo e pericoloso. Così alcuni, invece di interrogare le proprie paure, preferirono vedere in Erika e Omar due "alieni", due mostri da rinchiudere e dimenticare. Ma dimenticare è a volte il contrario di comprendere. O di "prevenire", per usare un termine molto di moda.
Oggi, a distanza di quattro anni dall'omicidio, Omar e Erika tornano a dividere l'opinione pubblica. Per Omar infatti si è aperto uno spiraglio: forse potrà lasciare il carcere per fare attività di volontariato. E anche per Erika, dice il suo legale, «si vede un orizzonte diverso». È proprio questo che non piace a una certa opinione pubblica: che ai due giovani si dia una speranza. Ma senza speranza la pena non rischia forse di trasformarsi in un'inutile vendetta? E a che cosa o a chi può giovare tanta intransigenza?
In carcere sia Erika che Omar hanno avviato un percorso di rieducazione: lei si e diplomata ed è ora geometra, lui studia informatica e chiede di potersi "rendere utile". Non so - questo possono saperlo solo gli educatori che li seguono nel difficile cammino intrapreso - se in loro è affiorata la coscienza dell'entità del delitto commesso e se da questa coscienza, o meglio dal peso di questa consapevolezza, potranno mai trovare scampo. So tuttavia che il padre di Erika non è mancato una volta, in tutti questi anni, agli appuntamenti settimanali con la figlia. Va a trovarla in carcere, regolarmente, ogni mercoledì e ogni domenica, come gli consente la legge. Non si tratta, io credo, di "perdono", parola inadeguata inc asi del genere, quanto di compassione, nel senso etimologico del termine: di compartecipazione del dolore. Un particolare tipo di pietà che, se esercitato opporrunamente, forse renderebbe più autentici i rapporti fra le persone e più vivibile il mondo.
Qual è la vera punizione del «primo assassino?», si è chiesto Io scrittore israeliano Yehoshua raccontando, in un suo libro recente, la storia di Caino e Abele. A questa domanda i lettori della Genesi, osserva Yehoshua, rispondono per lo più che Caino, pur non pagando il delitto con la propria vita, visse poi solitario, lontano da ogni consorzio umano, forse in una grotta, sofferente e perseguitato. Ebbene, non è così e la Genesi è chiarissima al proposito. Caino si allontanò dal cospetto di Dio, ma si stabilì in una località non distante dal giardino dell'Eden, nella terra di Nod, dove si sposò, ebbe un figlio e addirittura fondò una città. In cosa consisteva dunque la punizione divina? Proprio nell'allontanamento dal cospetto di Dio, afferma Yehoshua. Dio che ritira la sua misericordia, che condanna al tormento e alla «mancanza di una stabilità interiore», ma che evita la vendetta, poiché essa provocherebbe ulteriori distruzioni, misfatti e tragedie. Anche il mito di Edipo ha due versioni. La prima, la più conosciuta, ci narra l'interminabile serie di sciagure che prende avvio dal parricidio involontario compiuto da Edipo: il suicidio di Giocasta, l'esilio forzato da Tebe, la morte dei figli Eteocle e Polinice l'uno per mano dell'altro, il sacrificio di Antigone... L'altra (riportata da Robert Graves nel suo famosissimo libro sui miti greci) ci racconta invece una storia diversa. Edipo, benché profondamente tormentato dalle Erinni - in parole moderne, dal rimorso -, non si acceca e continua a regnare su Tebe, i suoi figli non si uccidono, Antigone non è costretta al sacrificio di sé...Insomma, sia la narrazione biblica che il mito ci indicano due vie, due possibili itinerari, due "moralità" diverse nel modo di esercitare la giustizia: una che, coltivando la pietà, cerca di riparare il male senza distruggere, l'altra che predilige la vendetta, aggiungendo morte a morte, devastazione a devastazione. Tocca a noi scegliere.
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»