mercoledì 12 gennaio 2005

Emanuele Severino
su eutanasia e suicidio

Corriere della Sera 12.1.05
IL SUICIDIO È LIBERO? ALLORA VALGA PER TUTTI
di Emanuele Severino


"Eutanasia": "la bella morte", "la buona morte"; naturale, tranquilla, serena. E' stata la morte di molti. Oggi, però, questa parola indica l'intervento di estranei che consentono a qualcuno di morire evitandogli il più possibile la sofferenza. Diciamo subito: una persona che per qualsiasi motivo decida di propria iniziativa di dare una buona morte ad un'altra persona è un omicida. Da perseguire secondo la legislazione vigente nei Paesi civili.
C'e pero un caso - un "unico" caso - in cui il problema non è di così semplice soluzione. Mi riferisco al caso in cui qualcuno, volendo morire perché la sofferenza grava su di lui in modo insopportabile, non ha però la capacità fisica di darsi la morte. Certo, anche il suicidio è una forma di omicidio. Per alcune configurazioni del pensiero filosofico o per il cristianesimo (ma si possono fare altri esempi) il suicida è colpevole. I motivi, però, per cui lo si considera colpevole possono lasciare perplessi. Quando ad esempio si dice che la vita è un dono di Dio e che solo lui puo toglierla, il pensiero corre al nostro modo di donare, cioè al fatto che, di solito, quando doniamo qualcosa evitiamo invece di riprenclercela. Ma qui vorrei richiamare l'attenzione su una questione più accessibile.
Un tempo, in molte legislazioni europee il suicidio era considerato un reato. Se chi agiva per sopprimersi falliva nel suo intento, cioè sopravviveva, egli era perseguibile penalmente. Oggi non più. Per molte forme di cultura il suicidio rimane una colpa morale, che merita di sanzioni ultraterrene ma non più - qualora non riesca nel suo intento - sanzioni terrene. Anche per la normativa italiana il suicida mancato non è giuridicamente colpevole.
Ed è a questo punto che la nostra legislazione e quelle similari mostrano una palese contraddizione in se stesse. Trattano cioè diversamente chi dovrebbe essere invece trattato nello stesso modo perché la legge è uguale per tutti. Trattano cioè diversamente chi, avendone la capacità fisica, può darsi la morte, e chi invece non ha la capacità fisica di farlo ma lo desidera intensamente. Trattano diversamente coloro che sono uguali di fronte alla legge, perché proibendo l'eutanasia, toglie la libertà di darsi la morte soltanto a quelli che sono incapaci di morire da soli. Se la legge vuol essere coerente deve dunque o ripristinare la perseguibilità giuridica del suicidio, e quindi punire chi aiuta il suicida a darsi la morte, oppure deve riconoscere a tutti la libertà di darsi la morte quando per essi la vita sia diventata insopportabile, e quindi non deve punire chi aiuta il suicida (e deve tuttavia anche rispettare la coscienza di chi non intenda prestare un aiuto siffatto). Per quanto mi riguarda può essere opportuno sottolineare che non sto esprimendo qui (nemmeno qui!) una qualche mia opinione intorno alla liceità dell'eutanasia, ma ho rilevato una contraddizione che, rispetto all'eutanasia, è presente in una normativa come la nostra. Non solo, ma quanto ho rilevato lascia aperto il problema di come si possa essere sicuri che, per chi mostra di avere la vita "in gran dispitto", la vita, per lui, sia davvero tale.