sabato 12 febbraio 2005

Arthur Miller

il manifesto 12.2.05
ARTHUR MILLER
Dalla parte dei perdenti
Angosce, paure e crisi del sogno americano
Seguendo il modello di Ibsen, lo scrittore ha trovato nei drammi che sconvolgono senza clamori la vita di uomini e donne semplici, il modo per rappresentare le tensioni di una nazione inquieta
GIGLIOLA NOCERA


Con la sua lunga vita, durata quasi novant'anni, Arthur Miller, nato a New York il 17 ottobre del 1915 e spentosi giovedì dopo una lunga malattia, ha vissuto in pieno gli avvenimenti, le tragedie e le contraddizioni politiche e sociali del ventesimo secolo. È stato uno degli scrittori più importanti del nostro tempo, dallo spettro creativo ampio; in grado di passare dalla scrittura drammaturgica per la quale viene soprattutto ricordato (Morte di un commesso viaggiatore, 1949; Il crogiuolo, 1953), al romanzo (Focus, 1945), e dalla scrittura di viaggio ("Salesman" in Beijng, 1983) a quella saggistica (The Theatre Essay of Arthur Miller, 1978,1996) e autobiografica (Timebends: A Life, 1987). Dolorosamente formativi furono gli anni della sua giovinezza, in una famiglia ebrea improvvisamente colpita dalla crisi del '29; e duri gli anni in cui, da studente, fu costretto a sperimentare lavori umili per potersi permettere gli studi universitari. Ma il giovane Arthur sente ben presto d'essere nato per la scrittura, ed è la scoperta dei Fratelli Karamazov che gli fa decidere di abbracciarla come mestiere. Da quel momento è un accavallarsi di esperienze giornalistiche e di scrittura radiofonica che lo portano infine a debuttare a Broadway con il dramma The Man Who Had All the Luck (1944): la storia di un uomo in cui la fortuna economica genera inspiegabilmente insicurezza e profondi sensi di colpa. Questo giovane antieroe, spinto sull'orlo del suicidio dalla propria buona sorte, non poteva di certo incontrare alcun successo sui palcoscenici di una Broadway che di ben più superficiali modelli andava in cerca per dimenticare l'incubo della guerra. Il dramma fu un quasi totale fallimento, ma ormai, comunque, Miller aveva scelto la via di un teatro di ispirazione sociale che egli percorrerà in forme diverse, se pur con alterno successo, lungo tutto il corso della vita. In tal senso è nel teatro di Ibsen che Miller intravede il proprio modello; è nei drammi che sconvolgono sommessamente la vita di singoli uomini e donne, più che quella di una nazione intera, che egli trova il modo per iconizzare la sua America. Ed è nelle storie che hanno per palcoscenico lo spazio ristretto delle pareti domestiche, che egli riesce meglio a rappresentare le angosce di un incerto dopoguerra: storie che ci ricordano altre grandi icone della drammaturgia americana del novecento quali Un tram che si chiama desiderio (1947) di Tennessee Williams, coetaneo di Miller e casualmente vincitore con lui degli stessi premi giovanili all'Università del Michigan. È dunque così per Willy Loman, piccolo commesso viaggiatore dell'omonimo dramma del 1949, il cui suicidio finale ne fa uno dei tanti sconosciuti martiri di una nazione in crisi. È così pure per i personaggi del Crogiuolo e per il suo sfortunato protagonista John Proctor. Anche qui la storia, ambientata nell'asfittico mondo puritano della Salem del 1692, è allegoria che dal passato torna al presente, all'America del 1953, preda del puritanesimo maccartista e contro la quale Miller si scaglia come un novello Hawthorne. Loman e Proctor sono i due estremi dell'impegno sociale di Miller, che non dimenticherà mai, tra l'altro, le problematiche legate all'antisemitismo e alla sottile angoscia della diversità. Ne è testimonianza il suo romanzo del 1945, Focus. Il protagonista, l'antisemita Lawrence Newman, costretto da una banale miopia a indossare un paio di occhiali che alterano le sembianze del suo volto, viene improvvisamente percepito dai suoi amici, per una micidiale catena di stereotipi socio-culturali, come ebreo, e come tale improvvisamente discriminato. Ma l'ampio spettro della produzione di Miller ne fa anche l'autore capace di mettere in scena, accanto alla vita della nazione, la propria vita privata, che trae il momento di massima esposizione mediatica dal suo matrimonio con Marilyn Monroe, la seconda delle sue tre mogli incontrata per la prima volta nel 1950 e da cui divorzierà nel 1961. Inariditasi infatti la vena sociale degli anni quaranta e cinquanta che sembra chiudersi con Uno sguardo dal ponte (1957), è con Dopo la caduta (1964) che Miller abbraccia il modello di una sorta di stream of conscioussness che ruota intorno alle vicende familiari e coniugali di un'attrice e di un intellettuale; troppo simili a Marilyn e ad Arthur per rendere credibile il deciso rifiuto di lui dinanzi a qualsiasi insinuazione autobiografica. A partire dagli anni settanta, pur scrivendo e producendo opere di vario genere tra le quali vale ricordare The Creation of the World and Other Business (1973), Orologio americano (1980, un grande affresco sugli anni della Depressione), e vari drammi quali Percolo: memoria (1986), Discesa da Mount Morgan (1991), l'ultimo Yankee (1992), Vetri rotti (1994), e l'ultimo Finishing the Picture andato recentemente in scena al Goodman Theater di Chicago, di Arthur Miller è stato spesso rifiutato il suo naturalismo, e la sua non più attuale drammaturgia di ispirazione sociale. All'inizio degli anni ottanta, però, il contemporaneo teatro americano di autori ben più giovani quali David Mamet o Sam Shepard, ha riacceso l'attenzione su questo grande vecchio, capace non solo di affacciarsi alle cronache mondane all'ombra della mitica Marilyn, ma i cui drammi hanno dipinto con indicibile maestria le tragedie del piccolo borghese qualunque, alla ricerca della propria fetta di sogno americano in epoche di transizione e di crisi.