sabato 12 febbraio 2005

«il Kafka di Benjamin»

La Stampa TuttoLibri 12.2.05
Il Kafka di Benjamin tra vocazione mistica e angoscia moderna
Il sesto volume delle «Opere complete» del pensatore tedesco: tra gli altri scritti, un saggio pionieristico sullo scrittore praghese denso di intuizioni piuttosto esoteriche
Marco Vozza


ALCUNI anni fa, con il consueto caustico acume, Cesare Cases scriveva che «Benjamin va bene per tutti: per il pensiero negativo, per il marxismo antihegeliano e utopista, per l'estetica della ricezione, per quella che vuol trasformare il ricettore in produttore, per i ricamatori di elzeviri e i distillatori di aforismi, per i rivoluzionari molecolari a ruota libera nonché per la filosofia frichettona». Erano gli anni in cui il marxismo cercava di deporre il suo abito dogmatico e trovava nell'autore di Angelus Novus inesauribili suggestioni per una riformulazione messianico-rivoluzionaria della propria dottrina. Oggi quel fervore si è un po' stemperato ed è subentrata maggior sobrietà interpretativa insieme ad un minor afflato sovversivo. A questa secolarizzazione di Benjamin, alla parziale perdita della sua auraticità, contribuisce senza dubbio la pubblicazione presso Einaudi delle sue Opere complete, a cura di Rolf Tiedemann e Hermann Schweppenhäuser (con qualche svista, omissione o incertezza di metodo). Pur muovendoci in questa fase più disincantata della sua ricezione, è doveroso comunque ribadire alcuni punti fermi: Walter Benjamin è una figura molto singolare nel panorama filosofico novecentesco, che nel procedimento saggistico ha raggiunto gli esiti più alti della sua speculazione. Ciò che caratterizza l'opera di Benjamin è l'ostinata attenzione per il particolare, il dettaglio, l'istantanea folgorante che illumina l'universale senza pretendere di catturarlo. La sua produzione è costituita per lo più da attività estranee a quelle canoniche della tradizione filosofica: la recensione, la cronaca, il radiodramma, la conversazione. l'immagine di città, la postilla apparentemente marginale ad un testo sottratto all'oblio della storiografia ufficiale. Forse il contributo più rilevante di Walter Benjamin al pensiero contemporaneo consiste nella rinnovata formulazione della questione relativa al rapporto fra immagine poetica e astrazione concettuale, al legame cioè fra arte e filosofia. Non a caso, nei suoi peregrinaggi attraverso il deserto del senso, Benjamin ha frequentato più la letteratura che non la filosofia: anche per questo, i suoi aforismi sono immagini del pensiero, costellazioni di figure che hanno dissodato il terreno della modernità e inciso profondamente sullo stile filosofico contemporaneo. In questo sesto, atteso volume delle sue opere (che comprende anche lo scritto celeberrimo sull'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica e quello mirabile sul narratore), la nostra attenzione è innanzitutto rivolta al grande saggio del 1934 dedicato a Kafka, frutto di un decennio di lavoro alacre e inquieto, cristallizzatosi in diversi progetti e molteplici appunti, per non parlare delle fondamentali osservazioni contenute nelle accuratissime lettere; in una di queste, inviata a Werner Kraft nel novembre del 1934, Benjamin affermava: «questo studio mi ha condotto a un crocevia delle mie idee e delle mie riflessioni, e proprio le ulteriori considerazioni a esso dedicate promettono di avere per me il valore che ha la consultazione di una bussola in un territorio senza strade». Il saggio di Benjamin è pionieristico perché pubblicato a soli dieci anni dalla morte di Kafka, prima dunque che si formasse la vulgata kafkiana, anche se era già nota l'interpretazione edificante che aveva proposto l'amico Max Brod, la cui esegesi teologico-lineare o ingenua è il più cospicuo bersaglio polemico dello stesso Benjamin; a questa va aggiunta in negativo l'interpretazione psicoanalitica. «Ci sono due modi di mancare totalmente gli scritti di Kafka» - esordisce polemicamente Benjamin, il quale diffida anche della lettura esistenzialista che richiama i nomi di Pascal e Kierkegaard: su quest'ultimo il filosofo berlinese prende un abbaglio poiché è agevole mostrare (l'aveva già intuito Adorno) come non soltanto la figura di Abramo sia al centro della riflessione religiosa dello scrittore praghese ma, ancor più radicalmente, l'intera problematica formulata in Aut-Aut nei termini del confronto tra una possibilità estetica e una etica di esistenza fornisca lo schema interpretativo del travagliato rapporto con la fidanzata Felice Bauer. Contrapponendosi a tali canoni di lettura, Benjamin rinuncia a elaborare una coerente griglia interpretativa e si limita a proporre alcune intuizioni (anch'esse piuttosto esoteriche) che vorrebbero illuminare l'oscuro testo kafkiano, del tipo: «Il mondo di Kafka è un teatro universale» oppure: «Il mondo del mito è infinitamente più giovane del mondo di Kafka» o ancora: «Il protagonista del Processo è l'oblìo». Benjamin cioè suggerisce una prospettiva esegetica che fa perno sul messianismo ebraico ma non giunge a completare una articolata ricostruzione critica. Sia detto per inciso, tale progetto di ricerca verrà portato a felice compimento negli anni '80 da due emeriti studiosi italiani, da Giuliano Baioni nel suo: Kafka. Letteratura ed ebraismo (Einaudi), per quanto riguarda l'aspetto storico-culturale, e da Massimo Cacciari nel suo: Icone della legge (Adelphi), sotto il profilo giuridico-filosofico. In quegli stessi anni, Brecht considerava Kafka uno scrittore profetico, quasi un antesignano del bolscevismo, prospettiva che risultava inaccettabile agli occhi di Benjamin, ma che finirà per influenzarlo quando nel 1938 presenterà una rinnovata versione del suo saggio sotto forma di lettera a Scholem, nella quale l'opera di Kafka appare come una ellisse, i cui punti focali sono determinati da un lato dalla vocazione mistica e dall'altra dall'esperienza del moderno uomo metropolitano; una malattia della tradizione, una angosciosa disgregazione dell'esistenza, rispetto alla quale il singolo («solo come Kafka») evade nel mondo complementare della scrittura.