sabato 12 febbraio 2005

storia
foibe

il manifesto.it 12.2.05
LA STAGIONE DI SANGUE
Istria 1943. La rivolta e le foibe
Dopo l'8 settembre, italiani e slavi si sollevarono spontaneamente. Tra caos, vendette e battaglie contro i tedeschi avanzanti, molti furono uccisi. Colpevoli e no
GIACOMO SCOTTI


L'8 settembre 1943, alla notizia della capitolazione italiana, in Istria ci fu una generale e pressoché spontanea rivolta che coinvolse in ugual misura le popolazioni italiane nei centri costieri e quelle croate e slovene nell'interno. Nell'uno e nell'altro caso gli insorti mostrarono simpatia e solidarietà con le truppe in grigioverde che altrettanto spontaneamente avevano mostrato la propria gioia per la «fine della guerra»; la rivolta si diresse contro i carabinieri, la polizia e soprattutto i gerarchi fascisti. In quell'ondata insurrezionale cedettero le armi circa 8.000 soldati italiani. A comprova della partecipazione degli italiani all'insurrezione stanno i fatti del 9 settembre a Pola dove, quel giorno, ci fu una strage. Le autorità italiane, cui i lavoratori di varie fabbriche avevano chiesto le armi per battersi contro i tedeschi fortificatisi a Scoglio Olivi (un piccolo reparto preesistente all'armistizio) fecero aprire il fuoco sulla folla affluita ai Giardini; furono uccisi tre operai - Cicognani, Zachtila e Zuppini - e feriti un gran numero di altri. Le forze armate italiane presenti nella piazzaforte di Pola sarebbero state sufficienti per aver ragione non solo delle poche centinaia di tedeschi presenti in città da fine di luglio, ma anche di unità ben maggiori, se i comandi del XXIII Corpo d'Armata e dell'Ammiragliato avessero rispettato le clausole dell'armistizio e lo stesso proclama di Badoglio. Invece ci si affrettò a trattare con i tedeschi, cui furono poi ceduti i pieni poteri civili e militari. Il 12 settembre fu consegnata a un loro reparto di soli 300 uomini l'intera piazzaforte. Circa 15.000 uomini in uniforme e 400 detenuti - politici e comuni - che si trovavano nel carcere cittadino finirono nelle mani del nemico. Migliaia di ufficiali e marinai italiani, avendo rifiutato l'offerta di servire l'invasore, furono deportati in Germania ai lavori forzati. Solo una minoranza di militari, con in testa le Camicie nere, passò al servizio dei tedeschi.

La minaccia tedesca
La svolta in Istria si ebbe il 13 settembre. Quel giorno si capì definitivamente che su tutto incombeva la minaccia tedesca. Nella penisola stava scendendo un'intera divisione germanica. Così, in piena autonomia, gli improvvisati capi del movimento insurrezionale di Parenzo, Rovigno ed Albona, tutti italiani, decisero di opporsi con le armi all'avanzata dei tedeschi - decisione presa anche sull'onda di una terribile notizia giunta da Pola. Quel 13 settembre nel capoluogo istriano, con l'aiuto dei loro carcerieri, i detenuti politici e comuni rinchiusi nel carcere di via dei Martiri riuscirono ad evadere. Inseguiti da pattuglie tedesche aiutate da manipoli di fascisti, furono in gran parte abbattuti in strada; altri venticinque, catturati, finirono impiccati agli alberi di via Medolino o fucilati in località Montegrande, alla periferia della città. Fu questo il primo grande eccidio di civili nella serie di massacri compiuti dall'esercito tedesco in Istria nel settembre-ottobre del '43.
Questi avvenimenti sanguinosi versarono benzina sul fuoco dell'insurrezione popolare istriana - nel corso della quale, contrariamente a quanto vorrebbero far credere i simpatizzanti per quei fascisti che consegnarono migliaia di connazionali ai tedeschi, non fu torto un capello ai soldati italiani. Il patriota istriano Diego de Castro ha scritto che furono proprio sloveni e croati delle regioni interne dell'Istria ad aiutare i soldati italiani sbandati a salvarsi dopo l'8 settembre. Il vescovo di Trieste dell'epoca, mons. Antonio Santin, testimoniò il 18 settembre sul settimanale della Diocesi Vita Nuova (e poi in «Trieste 1943-1945», Udine 1963): «Migliaia e migliaia di questi carissimi fratelli (i militari italiani, ndr) furono vestiti, nutriti, accolti, difesi; essi trovarono l'amore e il calore di una famiglia che si estendeva a tutte le case e a tutti i casolari». A loro volta in «Fratelli nel sangue» (Fiume, 1964) Aldo Bressan e Luciano Giuricin, citano testimoni diretti di quei fatti, scrivendo: «La popolazione (...) porse ogni aiuto possibile alle migliaia e migliaia di soldati italiani demoralizzati (...) che cercavano di raggiungere l'opposta sponda dell'Adriatico».
A Pisino nella notte fra il 12 e 13 settembre una formazione partigiana locale bloccò alla stazione ferroviaria un treno carico di marinai italiani che i tedeschi stavano deportando in Germania: il lungo convoglio, con a bordo tremila e più ragazzi, venne circondato, i marinai furono liberati (altri due treni erano stati fermati già prima di arrivare a Pisino) e poterono avviarsi con mezzi di fortuna, aiutati dalla popolazione, in direzione di Trieste e dell'Italia. Una cinquantina di essi si unirono alle formazioni antifasciste istriane.
Guido Rumici scrive: «In tutta la regione si assistette alla fuga precipitosa di decine di migliaia di soldati e di marinai che in tutta fretta abbandonarono caserme e installazioni militari, sbarazzandosi di armi, divise e munizioni e cercando di intraprendere, singolarmente o a gruppi, la strada del ritorno verso le proprie famiglie». «Nel loro peregrinare, spesso a piedi, per boschi e campagne, ricevettero appoggio e solidarietà dalla popolazione locale che si prodigò spesso rischiando anche in prima persona, per portar loro soccorso e sostegno, ospitandoli, nascondendoli, sfamandoli e aiutandoli a raggiungere la meta». Con ciò non si vuole negare che ci furono anche sporadici episodi di «caccia al fascista», ai capi locali del regime.
Documenti partigiani del settembre-ottobre 1943 forniscono un quadro abbastanza realistico di quella che fu l'insurrezione istriana del settembre. Leggiamo: «La presa del potere e del materiale (bellico) si è svolta per lo più in maniera improvvisata da parte di Comandi di posto arbitrariamente autodefinitisi tali e costituiti in tutta fretta in singole località. La popolazione è insorta spontaneamente, ha preso in mano le armi, ma non si può parlare in alcun modo di reparti militarmente organizzati e di una dirigenza militare».
Sull'onda dell'insurrezione generale e del vuoto di potere, alcuni esponenti croati giunti in Istria da oltre confine, fra cui Ivan Motika, oriundo di Gimino, laureato in giurisprudenza ed ex ufficiale dell'esercito regio jugoslavo, improvvisarono una specie di tribunale del popolo e costituirono una polizia politica segreta o Centro di Informazione, che diedero inizio a processi sommari contro i «nemici del popolo», fascisti o presunti tali. Luciano Giuricin scrive in proposito che il Motika «ebbe sicuramente un ruolo non secondario negli arresti, nelle carcerazioni e negli interrogatori dei prigionieri, come pure negli eccidi delle foibe avvenuti principalmente durante la caotica ritirata delle forze partigiane incalzate dall'offensiva tedesca di ottobre, che portò all'occupazione dell'intera Istria».

I tribunali del popolo
I cosiddetti tribunali del popolo funzionarono nelle peggiori condizioni possibili, alla mercè di «giudici» che talvolta erano persone che avevano avuto a che fare con la legge come pregiudicati e criminali comuni: contrabbandieri, ladri e peggio che ora si servivano di quei «tribunali» per sfogare bassi istinti di vendetta. In un rapporto dell'ottobre '43 firmato da Zvonko Babic, inviato in Istria dal Comitato centrale del Pc croato, si legge: «Nel periodo in cui abbiamo esercitato il potere in Istria (...) la lotta contro i nemici del popolo è stata condotta in maniera disuguale».
«In molte località gli istriani si sono rifiutati di attuare le esecuzioni, al punto che certi Comandi di posto riferivano nei loro rapporti di aver liquidato i condannati a morte nonostante la cosa non fosse vera. Si è manifestata pure l'ignoranza, la mancata conoscenza dei veri nemici del popolo e l'assenza di informazioni sui loro crimini, circostanza questa che adesso, con ritardo, si ritorce contro di noi». Il rapporto continua: «Il territorio più radicalmente ripulito (dai `nemici del popolo', ndr) è quello di Gimino, paese natale di Motika, e quello del Parentino. Un altro errore: nessuno ha mai pensato a costituire campi di concentramento, sicché i nemici del popolo sono stati puniti unicamente con la morte. Fra gli arrestati c'era pure un prete, che dietro intervento del vescovo di Pola e Parenzo è stato rimesso in libertà».
Fra coloro che vennero catturati dagli insorti, consegnati ai tribunali del popolo e da questi condannati a morte e infoibati, vi furono una ventina di zelanti fascisti locali che avevano fatto da guida a due colonne tedesche che tra l'11 e il 13 settembre, muovendo da Pola e da Trieste avevano tentato di raggiungere Fiume, scontrandosi ripetutamente con reparti di insorti. In quegli scontri caddero più di cento patrioti istriani, in maggioranza italiani di Parenzo, Rovigno e Albona, ma anche diversi soldati italiani unitisi agli insorti.
In concomitanza con l'insurrezione, ma soprattutto dopo gli scontri del 13 settembre, cominciarono gli arresti di gerarchi fascisti, di podestà e di altri funzionari ma anche di semplici iscritti al fascio, sia per iniziativa di singoli che per ordine dei vari Cpl. In questa operazione furono impegnati sia italiani che croati.
A Rovigno, cittadina abitata quasi esclusivamente da italiani, gli arresti dei «nemici del popolo» cominciarono alla fine della seconda settimana di settembre. Il mattino del 16, eseguendo un piano tracciato dal Comitato rivoluzionario che in giornata assunse i pieni poteri, entrarono in città cento e più partigiani italiani e croati che, insieme ai dirigenti antifascisti locali disarmarono le superstiti formazioni militari italiane di stanza sul posto. L'indomani, con l'aiuto di comunisti locali, arrestarono un centinaio di persone indicate come «i più incalliti fascisti macchiatisi di crimini», colpevoli di avere «per decenni terrorizzato la popolazione della città». A giudicarli furono dei comunisti italiani, loro concittadini, che alla fine, il 17 settembre, trattennero 14 fascisti (tutti italiani, ex squadristi e confidenti dell'Ovra) che spedirono a Pisino, a disposizione del Tribunale militare.

Non solo comunisti
Più o meno le cose andarono così anche nelle altre località dell'Istria. Non in tutte, però, gli uomini incaricati di dare la caccia al fascista erano comunisti o antifascisti. «Tra questi partigiani dell' ultima ora c'erano - in non pochi casi - quelli che avevano indossato la camicia nera solo qualche settimana indietro o la divisa di carabiniere sino all'8 settembre, personaggi che, armi alla mano, si erano autoproclamati capi partigiani». E prevalse la violenza.
Per quanto riguarda i militanti del Pci, essi poterono orientarsi seguendo le direttive di un manifesto diffuso dopo il 25 luglio 1943 in tutta la Regione Giulia a firma dei comitati regionali dei partiti d'azione, comunista, liberale e socialista, nonché dei movimenti cristiano sociale e di unità proletaria. In esso si chiedeva l'armistizio immediato, la cacciata dei tedeschi e «la punizione dei responsabili di vent'anni di crimini, di ruberie e del tradimento della nazione». All'atto pratico, come rivelano i risultati di vari incontri avuti con i massimi esponenti degli insorti croati dagli esponenti istriani del Pci Pino Budicin, Aldo Rismondo, Aldo Negri, Alfredo Stiglich ed altri, fu difficile conciliare i criteri per la punizione dei fascisti; e nei fatti fu l'anarchia.
I primi e più massicci arresti avvennero nelle zone di Rovigno e di Albona, dove il comando del movimento insurrezionale e partigiano fu assunto da comunisti affiliati al Pc italiano, a Parenzo e dintorni, a Gimino e nel Pisinese. Tuttavia, mentre nelle prime due località ci furono dei filtri e si cercò di evitare ingiustizie per quanto possibile (tanto è vero che ad Albona diverse persone arrestate come fasciste furono liberate per intervento di Aldo Negri, ma poi nuovamente arrestate da personaggi estranei al locale Comando partigiano) nel Parentino, nel Pisinese e in quel di Gimino invece gli arresti oltre ad essere massicci furono pure indiscriminati. La maggioranza degli arrestati era formata da gerarchi fascisti locali che si erano meritati l'odio delle popolazioni, ma nel mucchio capitarono anche persone che oltre alla tessera del Pnf non avevano colpe da espiare - o con i quali i delatori avevano vecchi conti personali da regolare. La caccia al fascista cominciò verso la metà del mese. Ma appena il 24 settembre, di fronte a fenomeni di esecuzioni sommarie ed arbitrarie, segnalati dalle varie località dell'Istria al Comando partigiano costituitosi nel frattempo a Pisino, fu costituito un «Tribunale militare mobile» che avrebbe dovuto arginare o eliminare le illegalità. I processi si celebrarono a Pisino, ad Albona e Pinguente, località nelle quali esistevano i centri di raccolta (prigioni) degli arrestati. Nella maggior parte i prigionieri furono inviati a Pisino e rinchiusi nel castello dei Montecuccoli, da dove o venivano rispediti a casa, se ritenuti innocenti, oppure condannati a morte e condotti sui luoghi di esecuzione, per lo più foibe carsiche o cave di bauxite. Quando arriveranno i tedeschi, troveranno a Pisino ancora un centinaio di prigionieri in attesa di processo. A Pinguente furono assolte e liberate dagli stessi partigiani oltre 100 persone.

Ma quanti furono gli infoibati in Istria?

(2-continua. La prima parte è stata pubblicata il 4 febbraio)