sabato 12 febbraio 2005

«sono sempre gli altri ad essere infedeli»

La Stampa TuttoLibri 12.2.05
Sono sempre gli altri ad essere infedeli
I rapporti fra Cristianesimo e Islamismo sono sempre stati caratterizzati da ignoranza, incomprensione e disprezzo reciproco. Ciascuna delle due religioni ha costruito un'immagine aberrante dell'altra, con opposti stereotipi. Finora, gli esperimenti di convivenza sono risultati precari e di scarsa durata. Una storia secolare ricostruita in un saggio di Andrew Wheatcroft
Alessandro Barbero

IN un'epoca in cui appelli alla crociata e alla jihad sono risuonati nelle sedi più improbabili, dalla Casa Bianca alla moschea di Carmagnola, ripensare la lunga storia dei rapporti fra cristiani e musulmani è un esercizio salutare, anche se per nulla confortante. Andrew Wheatcroft è lontanissimo, dal punto di vista ideologico, dal famigerato professor Huntington, teorizzatore dello scontro di civiltà; ma la sua ricerca lascia pochi dubbi sul fatto che i rapporti fra le due religioni, le più formidabili dell'Occidente, sono sempre stati caratterizzati da ignoranza, incomprensione e disprezzo reciproco. Gli esperimenti di convivenza sono risultati, finora, precari e di scarsa durata, simili a quel breve periodo dopo la conquista araba di Damasco, nel VII secolo, in cui «metà della cattedrale di San Giovanni fu usata per il culto cristiano, e metà fu trasformata in moschea. Un sottile muro divisorio, frettolosamente eretto, divideva le due fedi». Spaziando dal Nord Africa altomedievale alla Spagna dei moriscos, dai Balcani ottomani all'Iraq di Saddam Hussein, Wheatcroft nel suo saggio Infedeli mostra come ciascuno dei due mondi, cristiano e musulmano, si sia costruito un'immagine distorta dell'altro, aggrappandosi ad essa con tragica ostinazione. Per entrambi l'infedele non è soltanto diverso, ma impuro, e la sua presenza contamina: perciò bisogna, a seconda delle situazioni, circoscriverlo, isolarlo, sterminarlo. A noi europei è familiare l'orrore dei musulmani osservanti per la carne di maiale; ci è già più difficile accettare che la croce, ingenuamente presentata dalla Chiesa cattolica come un simbolo d'amore universale, sia anch'essa ai loro occhi un oggetto impuro, uno strumento di tortura che gli eretici cristiani, nella loro follia, pretendono abbia suppliziato il corpo stesso di Dio. Ma anche dal punto di vista cristiano la presenza musulmana è stata percepita come impura e contaminante ovunque si sia mantenuta a lungo, in Spagna come nei Balcani. Non è un caso che proprio la ricca e civile Spagna dell'epoca d'oro abbia inventato quella pulizia etnica che più di recente ha straziato la penisola balcanica; la lunga guerra della monarchia castigliana contro i suoi sudditi di origine islamica, col suo triste corteo di deportazioni, pogrom ed esecuzioni di massa, si basava proprio sul terrore della contaminazione, come dimostra l'ossessione della limpieza de sangre che s'impiantò allora nella coscienza degli spagnoli. L'estrema crudeltà che caratterizza i conflitti armati fra cristiani e musulmani si spiega anch'essa con l'orrore dell'impurità, e con la necessità di purificarla fin nei corpi stessi dei nemici. Durante la prima crociata, i cavalieri tagliano le teste dei turchi per appenderle alle selle dei cavalli, e nei loro accampamenti si racconta con un brivido di piacere che i poveri e i delinquenti al seguito dell'esercito mangiano la carne dei musulmani uccisi; tutti questi comportamenti non sarebbero nemmeno concepibili in patria, ma qui la purificazione del paese strappato agli infedeli deve passare attraverso la profanazione dei loro corpi. In modo del tutto speculare i turchi, dopo aver conquistato nel 1571 la fortezza veneziana di Famagosta, sottoporranno il comandante della guarnigione, Marcantonio Bragadin, a un supplizio pubblico la cui calcolata atrocità serve a ribadire l'umiliazione del nemico e la distruzione dell'impurità da lui incarnata; un rituale che culmina quando la pelle di Bragadin, «imbottita di paglia ed elegantemente cucita come una enorme bambola», viene montata sul suo cavallo come un orrendo manichino e fatta sfilare per le vie della città. Nella parte conclusiva del libro, Wheatcroft mette a nudo i meccanismi di distorsione della realtà che hanno condotto ciascuna delle due religioni a costruire un'immagine aberrante dell'altra. In un'intervista, l'autore osserva che aver lavorato per molti anni nell'editoria lo ha reso sensibile alle strategie della comunicazione di massa; l'idea di partenza di Infedeli è appunto di verificare come un uso distorto della comunicazione, attraverso l'oralità, l'immagine e la stampa, abbia concorso alla creazione e alla diffusione degli opposti stereotipi, dal saraceno idolatra al turco massacratore, dal crociato avido e arrogante all'occidentale senza gelosia e dunque senza onore. Sotto questo aspetto emerge peraltro una differenza insospettata fra il mondo cristiano e quello islamico: in quest'ultimo, infatti, la formazione dell'opinione pubblica è sempre stata canalizzata in modo molto più esclusivo dall'oralità, con tutti i limiti che questo comporta. Non solo in età moderna, quando la stampa ha offerto all'Occidente cristiano un'arma che l'Islam, fors'anche per l'intrinseca difficoltà del suo alfabeto, ha troppo tardato ad assimilare; ma anche nel Medioevo, quando l'immenso ruolo che l'immagine aveva in Occidente come veicolo di comunicazione politica e religiosa risulta del tutto assente in un mondo musulmano che proprio per scrupolo religioso scoraggiava l'uso pubblico delle immagini. Wheatcroft aggiunge così una nuova risposta alla questione cruciale del perché, e quando, la società musulmana abbia cominciato a rimanere indietro rispetto a quella cristiana: non certo nella raffinatezza della sua arte o nella sottigliezza del suo pensiero, ma in articolazione dialettica e capacità innovativa. Resta il fatto che pur con mezzi diversi cristianesimo e Islam si sono squadrati l'un l'altro per millequattrocento anni come due persone che si guardano in faccia, secondo una straordinaria immagine di Bachtin: benché entrambi si scrutino con molta attenzione, nessuno dei due può vedere quello che vede l'altro. La scommessa per uscire da questo vicolo cieco è che ciascuno non si accontenti più di spiegare in perfetta buona fede ciò che intende quando parla, ad esempio, di crociata o di jihad, ma riesca a scorgere le risonanze sinistre che queste parole evocano nell'altro: un punto che sta particolarmente a cuore all'anglosassone Wheatcroft, sconvolto dalla leggerezza con cui l'occupante della Casa Bianca, da cristiano born-again, ricorre con i mass-media al vocabolario della crociata.